Non è facile seguire il dibattito politico nel nostro Paese, fatto principalmente di battibecchi che esplodono ora qua ora là senza che si possa dire che costituiscono lo sviluppo di un preciso filo conduttore di lungo periodo.
L’ultimo argomento improvvisamente salito alla ribalta è il salario minimo fissato per legge per tutti i lavoratori, assente da noi, a differenza di quanto capita nella maggior parte dei paesi dell’OECD e in 21 su 27 paesi dell’Unione Europea, e similmente ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. Si tenga presente che la questione del salario minimo legale ha comunque una lunga storia se, nel 1906, Winston Churchill dichiarava alla Camera dei Comuni dell’Impero Britannico che «è un male nazionale che qualche classe dei sudditi di Sua Maestà debba ricevere meno di un salario minimo vitale, in cambio del suo massimo impegno; […] dove avete quelli che chiamiamo lavori sfruttati, non avete organizzazione, nessuna parità di negoziazione; il buon datore di lavoro è battuto dal cattivo; […] dove prevalgono queste condizioni, non avete una condizione di progresso, ma una condizione di degenerazione progressiva».
Il salario minimo garantito è appunto una guarentigia che mira a evitare casi di sfruttamento nell’impiego del lavoro: si vuole evitare che il rilevante squilibrio nel potere contrattuale delle parti presenti nel mercato del lavoro porti a livelli salariali troppo bassi (rispetto al livello della produttività del lavoro nel sistema economico e/o rispetto alle esigenze di vita dei lavoratori e delle loro famiglie). Dovrebbe assicurare a tutti i lavoratori un pavimento non perforabile all’ingiù, per motivi di equità retributiva e di dignità personale del lavoratore e della sua famiglia.
Come sempre, la questione non può produrre un dibattito politico fondato se non si è in grado di elevarla al livello dei valori. Nella fattispecie, il punto di partenza non può essere che il principio del giusto salario e su questo la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre avuto posizioni ben definite, che possono essere sintetizzate nel modo seguente “Giusto” è il salario sufficiente al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia; non basta il semplice accordo fra lavoratore e datore di lavoro per qualificare giusta la retribuzione, poiché la giustizia naturale (che esige che il lavoratore abbia la possibilità, lavorando, di mantenere se stesso e la sua famiglia) è anteriore e superiore alla libertà del contratto, tenendo comunque conto anche delle condizioni dell’impresa. La giustizia del salario non si deve misurare solo con criteri quantitativi, ma anche in rapporto alla giustizia sociale e a un insieme di fattori che garantiscono un tenore di vita dignitoso, in senso materiale, sociale, culturale e spirituale, sua e dei suoi famigliari. Nel definire il salario, si deve tener conto, oltre che delle condizioni di maggiore o minore bontà dei risultati economici dell’impresa, anche della necessità di evitare un’eccessiva disuguaglianza dei redditi tra i diversi componenti di un’impresa.
Non c’è qui spazio per trattare, seppure sommariamente, delle determinanti del salario di mercato. Voglio, ad ogni modo, sottolineare come il mercato del lavoro non sia solamente un’istituzione economica, all’interno della quale il salario è da intendere unicamente quale prezzo del servizio lavoro determinato dall’incontro della domanda e dall’offerta di lavoro. Come dice il titolo di un celebre volumetto scritto dall’economista statunitense Robert M. Solow, “il mercato del lavoro è un’istituzione sociale”, nel quale domanda e offerta di lavoro non determinano completamente il salario di mercato. Questo ha il vincolo dell’ammontare del quid ripartibile fra le due parti (lavoratore e datore di lavoro) e dipende dal potere contrattuale delle due parti (fattori di natura economica), ma anche da altri fattori di natura etica (le due parti hanno idee ben chiare di che cosa sia equo e di che cosa non lo sia) e sociologica.
Un altro economista Anthony B. Atkinson, gallese, sostiene che l’impostazione dell’economista vede le persone impegnate in transazioni razionali, impersonali; l’impostazione etica e sociologica le vede come membri interagenti di un’entità sociale. Le due impostazioni però non sono in concorrenza; è meglio considerarle complementari. Nei contratti collettivi di lavoro, si ha la forma di monopolio bilaterale. I salari sono influenzati da due insiemi di forze. Offerta e domanda determinano un intervallo di salari possibili e le convenzioni sociali determinano la posizione all’interno di quell’intervallo; l’estensione della dispersione delle retribuzioni dipende da entrambi gli insiemi. Detto con maggior precisione, l’introduzione di una nozione di equità o di norme sociali offre una strada per eliminare l’indeterminazione del punto di equilibrio nel mercato del lavoro, mercato di monopolio bilaterale. Una volta che ci si rende conto che le forze del mercato definiscono solo dei vincoli ai possibili esiti del mercato del lavoro, si vede che c’è spazio per idee di equità e che, mettendole all’opera, possiamo modificare la distribuzione delle retribuzioni. Questo non avviene a livello di negoziazione individuale, bensì dipende – e in alcuni paesi è il punto nodale – dalla contrattazione collettiva, nella quale svolgono un ruolo importante le convenzioni sociali e il potere contrattuali delle parti sociali.
A questo proposito, vi è un consenso generale sul fatto che l’allargamento della disuguaglianza nella distribuzione retributiva è coinciso con un declino del ruolo dei sindacati e della contrattazione collettiva. Il declino del potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori dipende molto dagli eventi politici (così, a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso, il soffio in favore della destra politica, che dagli Stati Uniti e dal Regno Unito si è diffuso in gran parte dei paesi occidentali, può aver svolto un ruolo non secondario), ma non può non essere connesso a ciò che accade nell’economia. V’è chi sostiene che, in questo campo, il declino del potere contrattuale sindacale è il risultato della polarizzazione del cambiamento tecnico a favore dei lavoratori qualificati. Questa trasformazione minerebbe la coalizione fra lavoratori qualificati e non, che costituisce la base del potere dei sindacati e il conseguente declino del grado di sindacalizzazione dei lavoratori amplificherebbe l’aumento della dispersione dei salari e delle condizioni generali dei lavoratori.
Però se è corretto, in via di principio, dire che maggiore è la quota dei lavoratori iscritti al sindacato, maggiore è la rappresentatività di questo e maggiore quindi il suo potere contrattuale teorico – anche perché minore sarà la possibilità da parte dei datori di lavoro di reperire manodopera disposta a non seguire le indicazioni dei sindacati – si può controbattere che la forza contrattuale del sindacato non è qualcosa sospeso nel vuoto, ma è calato nella realtà del mercato del lavoro in cui opera. Un mercato in cui vi sia ampio difetto di domanda rispetto all’offerta di lavoro vedrà probabilmente un sindacato piuttosto debole, anche se quasi tutti i lavoratori fossero iscritti al sindacato, poiché esistono condizioni obiettive sfavorevoli per una buona valutazione monetaria del servizio del lavoro, e poi anche perché elevata percentuale di iscritti non significa necessariamente elevata possibilità di controllo dei lavoratori da parte del sindacato quando esiste ampia inoccupazione e quindi disponibilità a non richiedere l’applicazione degli accordi collettivi, pur di trovare un posto di lavoro. È indubbio (anche perché confermato dall’esperienza delle economie occidentali dell’ultimo trentennio, e in talune anche a partire da prima ancora) che il calo dell’influenza politica ed economica dei sindacati dei lavoratori consente agli interessi dei possessori di capitale di sopraffare quelli dei lavoratori, costringendo questi a una fragile crescita dei salari e a una progressiva erosione del tenore di vita, dovuta alla riduzioni dei salari reali (salari fratto prezzi). Non solo, ma la debolezza politica e contrattuale dei sindacati ha ripercussioni rilevanti, oltre che sulla distribuzione del reddito fra lavoro e capitale, anche sulla distribuzione dei redditi fra i lavoratori, ché la predetta debolezza riduce la capacità di spingere al rialzo i salari di tutta l’economia: i lavoratori occupati nei settori e presso le imprese non in crisi distaccheranno, in termini di reddito, i lavoratori di quelli in crisi, per non parlare di tutte le altre iniquità che si determinano nella politica dei redditi quando i sindacati dei lavoratori sono deboli, o addirittura assenti.
A proposito della politica dei redditi a livello nazionale, è da preferire che i lavoratori abbiano remunerazioni sufficientemente prossime fra di loro anche se, lavorando in contesti produttivi differenti, possiedono produttività del lavoro alquanto differenti? Il che solleva la scelta fra contratti di lavoro collettivi nazionali o territoriali o contratti di lavoro aziendali. I primi portano a livelli retributivi calibrati sui livelli della produttività media del settore; i secondi sono calibrati sui livelli della produttività aziendale. I primi risentono di un afflato egualitario fra i lavoratori e avvantaggiano le imprese con maggiori livelli di produttività (godono di un livello di produttività superiore alla media, ma pagano retribuzioni commisurate ai livelli medi di produttività: i loro costi del lavoro per unità di prodotto risultano contenuti rispetto a quelli delle imprese con livelli di produttività più bassi); i secondi più probabilmente portano a un livellamento interaziendale del costo del lavoro per unità di prodotto, ma ampliano la distribuzione dei livelli del costo del lavoro per unità di lavoro. Quindi i lavoratori impiegati nelle aziende con maggiore produttività dovrebbero essere favorevoli ai contratti di lavoro aziendali, mentre gli imprenditori con aziende aventi maggiori produttività dovrebbero preferire contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali.
Siamo in presenza di una contrapposizione politica fra soggetti differenti e, come sempre, si deve scegliere alla luce dell’obiettivo finale che si desidera raggiungere, sapendo ben distinguere fra obbiettivi finali (le “cose buone” che veramente contano) e obiettivi intermedi; non lasciandosi allontanare dai primi per correre dietro ai secondi.
Ricordo ancora una volta che obbiettivo finale dell’attività economica è il bene comune e, come pare sufficientemente evidente, i contratti nazionali o territoriali di lavoro vanno nella direzione di creare spazio per la finalità produttiva (poiché premiano le aziende più produttive) e di attuare una distribuzione dei redditi fra i lavoratori più egualitaria; nelle aziende con maggiore produttività portano alla redistribuzione dei redditi a favore del capitale rispetto al lavoro, quindi favoriscono l’accumulazione di nuovo capitale capace di sostenere bene la crescita dal lato dell’offerta; dal lato della domanda, contribuiscono al sostenimento di un buon livello della domanda di beni di consumo, poiché portano a una più equa distribuzione del reddito fra i lavoratori e ciò, in presenza della “legge psicologica del consumo” – secondo la quale la propensione marginale al consumo decresce col crescere del valore assoluto del reddito disponibile – fa sì che un euro tolto a chi ha più reddito per darlo a chi ne ha di meno faccia aumentare la propensione media al consumo della collettività. Nel complesso, i contratti collettivi nazionali paiono andare maggiormente nella direzione del bene comune, anche perché una politica salariale nazionale è più permeabile all’affermazione di principi etici che vengono a correggere il fatto che i salari siano determinati esclusivamente dal potere contrattuale delle parti. Così, ovviamente, solo in un contesto di politiche salariali nazionali può trovare spazio l’introduzione di un salario minimo legale fissato a un livello minimo vitale nonché un codice di buone pratiche per le retribuzioni al di sopra del minimo.
Tutto ciò considerato, possiamo riprendere in esame la questione del salario minimo legale. Sia contratti di lavoro collettivi a livello nazionale, territoriale e settoriale sia nei contratti di lavoro aziendali e individuali (e più in questi ultimi che nei precedenti) è possibile che i livelli salariali siano fissati a livelli dignitosi (nel senso detto all’inizio di quest’articolo), ma è possibile anche che siano a livelli non dignitosi, per cui la presenza di un salario minimo fissato per legge, la quale potrebbe anche assumere come propri i livelli retributivi definiti nei contratti collettivi di lavoro, dando a questi validità erga omnes.
Se non si segue quest’ultima via – che richiede, come premessa, ancor più la definizione di precise norme di legge riguardanti la rappresentanza delle parti nell’àmbito della contrattazione collettiva – occorre definire i parametri cui fare riferimento per definire autonomamente il livello del salario legale.
Il salario minimo legale dev’essere necessariamente fissato con riferimento al livello del reddito vitale e quindi collegato agli indicatori statistici di povertà assoluta, fissandosi ovviamente a livelli significativamente superiori a questi ultimi. L’attenzione dev’essere posta sulle condizioni di vita della famiglia, tenendo conto del diverso potere d’acquisto che i salari possono avere all’interno del territorio cui si riferisce; quindi salario minimo regionalizzato (salario minimo legale in termini di parità dei poteri d’acquisto) più che sull’aspetto economico (condizione di competitività delle aziende, che opera quale vincolo e non quale elemento di base) e più che sull’aspetto della distribuzione del reddito nazionale fra i fattori produttivi (cosiddetta distribuzione funzionale del reddito), che è invece punto di fondo della politica dei redditi, nazionale o territoriale.
L’ultimo argomento improvvisamente salito alla ribalta è il salario minimo fissato per legge per tutti i lavoratori, assente da noi, a differenza di quanto capita nella maggior parte dei paesi dell’OECD e in 21 su 27 paesi dell’Unione Europea, e similmente ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. Si tenga presente che la questione del salario minimo legale ha comunque una lunga storia se, nel 1906, Winston Churchill dichiarava alla Camera dei Comuni dell’Impero Britannico che «è un male nazionale che qualche classe dei sudditi di Sua Maestà debba ricevere meno di un salario minimo vitale, in cambio del suo massimo impegno; […] dove avete quelli che chiamiamo lavori sfruttati, non avete organizzazione, nessuna parità di negoziazione; il buon datore di lavoro è battuto dal cattivo; […] dove prevalgono queste condizioni, non avete una condizione di progresso, ma una condizione di degenerazione progressiva».
Il salario minimo garantito è appunto una guarentigia che mira a evitare casi di sfruttamento nell’impiego del lavoro: si vuole evitare che il rilevante squilibrio nel potere contrattuale delle parti presenti nel mercato del lavoro porti a livelli salariali troppo bassi (rispetto al livello della produttività del lavoro nel sistema economico e/o rispetto alle esigenze di vita dei lavoratori e delle loro famiglie). Dovrebbe assicurare a tutti i lavoratori un pavimento non perforabile all’ingiù, per motivi di equità retributiva e di dignità personale del lavoratore e della sua famiglia.
Come sempre, la questione non può produrre un dibattito politico fondato se non si è in grado di elevarla al livello dei valori. Nella fattispecie, il punto di partenza non può essere che il principio del giusto salario e su questo la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre avuto posizioni ben definite, che possono essere sintetizzate nel modo seguente “Giusto” è il salario sufficiente al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia; non basta il semplice accordo fra lavoratore e datore di lavoro per qualificare giusta la retribuzione, poiché la giustizia naturale (che esige che il lavoratore abbia la possibilità, lavorando, di mantenere se stesso e la sua famiglia) è anteriore e superiore alla libertà del contratto, tenendo comunque conto anche delle condizioni dell’impresa. La giustizia del salario non si deve misurare solo con criteri quantitativi, ma anche in rapporto alla giustizia sociale e a un insieme di fattori che garantiscono un tenore di vita dignitoso, in senso materiale, sociale, culturale e spirituale, sua e dei suoi famigliari. Nel definire il salario, si deve tener conto, oltre che delle condizioni di maggiore o minore bontà dei risultati economici dell’impresa, anche della necessità di evitare un’eccessiva disuguaglianza dei redditi tra i diversi componenti di un’impresa.
Non c’è qui spazio per trattare, seppure sommariamente, delle determinanti del salario di mercato. Voglio, ad ogni modo, sottolineare come il mercato del lavoro non sia solamente un’istituzione economica, all’interno della quale il salario è da intendere unicamente quale prezzo del servizio lavoro determinato dall’incontro della domanda e dall’offerta di lavoro. Come dice il titolo di un celebre volumetto scritto dall’economista statunitense Robert M. Solow, “il mercato del lavoro è un’istituzione sociale”, nel quale domanda e offerta di lavoro non determinano completamente il salario di mercato. Questo ha il vincolo dell’ammontare del quid ripartibile fra le due parti (lavoratore e datore di lavoro) e dipende dal potere contrattuale delle due parti (fattori di natura economica), ma anche da altri fattori di natura etica (le due parti hanno idee ben chiare di che cosa sia equo e di che cosa non lo sia) e sociologica.
Un altro economista Anthony B. Atkinson, gallese, sostiene che l’impostazione dell’economista vede le persone impegnate in transazioni razionali, impersonali; l’impostazione etica e sociologica le vede come membri interagenti di un’entità sociale. Le due impostazioni però non sono in concorrenza; è meglio considerarle complementari. Nei contratti collettivi di lavoro, si ha la forma di monopolio bilaterale. I salari sono influenzati da due insiemi di forze. Offerta e domanda determinano un intervallo di salari possibili e le convenzioni sociali determinano la posizione all’interno di quell’intervallo; l’estensione della dispersione delle retribuzioni dipende da entrambi gli insiemi. Detto con maggior precisione, l’introduzione di una nozione di equità o di norme sociali offre una strada per eliminare l’indeterminazione del punto di equilibrio nel mercato del lavoro, mercato di monopolio bilaterale. Una volta che ci si rende conto che le forze del mercato definiscono solo dei vincoli ai possibili esiti del mercato del lavoro, si vede che c’è spazio per idee di equità e che, mettendole all’opera, possiamo modificare la distribuzione delle retribuzioni. Questo non avviene a livello di negoziazione individuale, bensì dipende – e in alcuni paesi è il punto nodale – dalla contrattazione collettiva, nella quale svolgono un ruolo importante le convenzioni sociali e il potere contrattuali delle parti sociali.
A questo proposito, vi è un consenso generale sul fatto che l’allargamento della disuguaglianza nella distribuzione retributiva è coinciso con un declino del ruolo dei sindacati e della contrattazione collettiva. Il declino del potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori dipende molto dagli eventi politici (così, a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso, il soffio in favore della destra politica, che dagli Stati Uniti e dal Regno Unito si è diffuso in gran parte dei paesi occidentali, può aver svolto un ruolo non secondario), ma non può non essere connesso a ciò che accade nell’economia. V’è chi sostiene che, in questo campo, il declino del potere contrattuale sindacale è il risultato della polarizzazione del cambiamento tecnico a favore dei lavoratori qualificati. Questa trasformazione minerebbe la coalizione fra lavoratori qualificati e non, che costituisce la base del potere dei sindacati e il conseguente declino del grado di sindacalizzazione dei lavoratori amplificherebbe l’aumento della dispersione dei salari e delle condizioni generali dei lavoratori.
Però se è corretto, in via di principio, dire che maggiore è la quota dei lavoratori iscritti al sindacato, maggiore è la rappresentatività di questo e maggiore quindi il suo potere contrattuale teorico – anche perché minore sarà la possibilità da parte dei datori di lavoro di reperire manodopera disposta a non seguire le indicazioni dei sindacati – si può controbattere che la forza contrattuale del sindacato non è qualcosa sospeso nel vuoto, ma è calato nella realtà del mercato del lavoro in cui opera. Un mercato in cui vi sia ampio difetto di domanda rispetto all’offerta di lavoro vedrà probabilmente un sindacato piuttosto debole, anche se quasi tutti i lavoratori fossero iscritti al sindacato, poiché esistono condizioni obiettive sfavorevoli per una buona valutazione monetaria del servizio del lavoro, e poi anche perché elevata percentuale di iscritti non significa necessariamente elevata possibilità di controllo dei lavoratori da parte del sindacato quando esiste ampia inoccupazione e quindi disponibilità a non richiedere l’applicazione degli accordi collettivi, pur di trovare un posto di lavoro. È indubbio (anche perché confermato dall’esperienza delle economie occidentali dell’ultimo trentennio, e in talune anche a partire da prima ancora) che il calo dell’influenza politica ed economica dei sindacati dei lavoratori consente agli interessi dei possessori di capitale di sopraffare quelli dei lavoratori, costringendo questi a una fragile crescita dei salari e a una progressiva erosione del tenore di vita, dovuta alla riduzioni dei salari reali (salari fratto prezzi). Non solo, ma la debolezza politica e contrattuale dei sindacati ha ripercussioni rilevanti, oltre che sulla distribuzione del reddito fra lavoro e capitale, anche sulla distribuzione dei redditi fra i lavoratori, ché la predetta debolezza riduce la capacità di spingere al rialzo i salari di tutta l’economia: i lavoratori occupati nei settori e presso le imprese non in crisi distaccheranno, in termini di reddito, i lavoratori di quelli in crisi, per non parlare di tutte le altre iniquità che si determinano nella politica dei redditi quando i sindacati dei lavoratori sono deboli, o addirittura assenti.
A proposito della politica dei redditi a livello nazionale, è da preferire che i lavoratori abbiano remunerazioni sufficientemente prossime fra di loro anche se, lavorando in contesti produttivi differenti, possiedono produttività del lavoro alquanto differenti? Il che solleva la scelta fra contratti di lavoro collettivi nazionali o territoriali o contratti di lavoro aziendali. I primi portano a livelli retributivi calibrati sui livelli della produttività media del settore; i secondi sono calibrati sui livelli della produttività aziendale. I primi risentono di un afflato egualitario fra i lavoratori e avvantaggiano le imprese con maggiori livelli di produttività (godono di un livello di produttività superiore alla media, ma pagano retribuzioni commisurate ai livelli medi di produttività: i loro costi del lavoro per unità di prodotto risultano contenuti rispetto a quelli delle imprese con livelli di produttività più bassi); i secondi più probabilmente portano a un livellamento interaziendale del costo del lavoro per unità di prodotto, ma ampliano la distribuzione dei livelli del costo del lavoro per unità di lavoro. Quindi i lavoratori impiegati nelle aziende con maggiore produttività dovrebbero essere favorevoli ai contratti di lavoro aziendali, mentre gli imprenditori con aziende aventi maggiori produttività dovrebbero preferire contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali.
Siamo in presenza di una contrapposizione politica fra soggetti differenti e, come sempre, si deve scegliere alla luce dell’obiettivo finale che si desidera raggiungere, sapendo ben distinguere fra obbiettivi finali (le “cose buone” che veramente contano) e obiettivi intermedi; non lasciandosi allontanare dai primi per correre dietro ai secondi.
Ricordo ancora una volta che obbiettivo finale dell’attività economica è il bene comune e, come pare sufficientemente evidente, i contratti nazionali o territoriali di lavoro vanno nella direzione di creare spazio per la finalità produttiva (poiché premiano le aziende più produttive) e di attuare una distribuzione dei redditi fra i lavoratori più egualitaria; nelle aziende con maggiore produttività portano alla redistribuzione dei redditi a favore del capitale rispetto al lavoro, quindi favoriscono l’accumulazione di nuovo capitale capace di sostenere bene la crescita dal lato dell’offerta; dal lato della domanda, contribuiscono al sostenimento di un buon livello della domanda di beni di consumo, poiché portano a una più equa distribuzione del reddito fra i lavoratori e ciò, in presenza della “legge psicologica del consumo” – secondo la quale la propensione marginale al consumo decresce col crescere del valore assoluto del reddito disponibile – fa sì che un euro tolto a chi ha più reddito per darlo a chi ne ha di meno faccia aumentare la propensione media al consumo della collettività. Nel complesso, i contratti collettivi nazionali paiono andare maggiormente nella direzione del bene comune, anche perché una politica salariale nazionale è più permeabile all’affermazione di principi etici che vengono a correggere il fatto che i salari siano determinati esclusivamente dal potere contrattuale delle parti. Così, ovviamente, solo in un contesto di politiche salariali nazionali può trovare spazio l’introduzione di un salario minimo legale fissato a un livello minimo vitale nonché un codice di buone pratiche per le retribuzioni al di sopra del minimo.
Tutto ciò considerato, possiamo riprendere in esame la questione del salario minimo legale. Sia contratti di lavoro collettivi a livello nazionale, territoriale e settoriale sia nei contratti di lavoro aziendali e individuali (e più in questi ultimi che nei precedenti) è possibile che i livelli salariali siano fissati a livelli dignitosi (nel senso detto all’inizio di quest’articolo), ma è possibile anche che siano a livelli non dignitosi, per cui la presenza di un salario minimo fissato per legge, la quale potrebbe anche assumere come propri i livelli retributivi definiti nei contratti collettivi di lavoro, dando a questi validità erga omnes.
Se non si segue quest’ultima via – che richiede, come premessa, ancor più la definizione di precise norme di legge riguardanti la rappresentanza delle parti nell’àmbito della contrattazione collettiva – occorre definire i parametri cui fare riferimento per definire autonomamente il livello del salario legale.
Il salario minimo legale dev’essere necessariamente fissato con riferimento al livello del reddito vitale e quindi collegato agli indicatori statistici di povertà assoluta, fissandosi ovviamente a livelli significativamente superiori a questi ultimi. L’attenzione dev’essere posta sulle condizioni di vita della famiglia, tenendo conto del diverso potere d’acquisto che i salari possono avere all’interno del territorio cui si riferisce; quindi salario minimo regionalizzato (salario minimo legale in termini di parità dei poteri d’acquisto) più che sull’aspetto economico (condizione di competitività delle aziende, che opera quale vincolo e non quale elemento di base) e più che sull’aspetto della distribuzione del reddito nazionale fra i fattori produttivi (cosiddetta distribuzione funzionale del reddito), che è invece punto di fondo della politica dei redditi, nazionale o territoriale.
Lunga disquisizione storica e teorica ma che non affronta l’unica cosa che conta: è necessario introdurre il salario minimo legale in Italia?