Guido Bodrato ha un conflitto con la memoria. “I ricordi li conservo tutti, ma non so più ordinarli con chiarezza. Mi tornano alla mente in forma circolare, come fosse una giostra, obbligandomi a uno sforzo supplementare: mi tocca selezionarli e ricollocarli nel posto giusto”. Però unamemoria, sarebbe da dire, che suscita invidia. La nostra conversazione, una delle periodiche spruzzate di analisi improvvisate, per fare il punto o cercare il filo dentro uno scenario che riflette con giusto distacco l’interesse per la lunga vicenda democristiana. L’occasione, stavolta, muove dalla curiosità per l’elezione a sorpresa, nell’estate del 1975, di Benigno Zaccagnini. Cosa ha rappresentato per la Dc la sua segreteria? La discussione è scivolata poi su altri argomenti, ma seguendo comunque una pista ben precisa. D’altronde Bodrato ha la capacità, ogni volta, di mettere a fuoco i problemi nel quadro di una nuova riflessione.
Cominciamo dalle cose più semplici, spesso poco conosciute e quindi poco valutate. Come venne fuori il nome di Zaccagnini?
Il Consiglio nazionale, convocato per analizzare la flessione elettorale nelle ultime amministrative, durò un giorno di più del previsto, anche perché si era aperto un dibattito dentro le diverse correnti del partito. Contro Fanfani, il segretario che già l’anno precedente aveva portato la DC alla sconfitta del referendum sul divorzio, si registrava la convergenza della sinistra interna (Base e Forze Nuove) e dei dorotei. Anche Donat-Cattin, all’inizio, pensava a una soluzione calibrata sul Rumor. Invece Moro esprimeva maggiore cautela sulle responsabilità di Fanfani, ed era più severo su quelle della maggioranza. In ogni caso su Rumor si poteva anche chiudere, ma a far saltare il banco fu Bisaglia che ambiva, evidentemente, a sottolineare il suo ruolo di leader emergente rispetto ai vecchi della corrente. Questo dissidio all’interno dei dorotei obbligò a prendere atto che l’impasse poteva degenerare nel caos. Eravamo ancora lì, nell’aula di Palazzo Sturzo, quando da fuori gli autisti cominciarono a suonare i clacson per protesta.
E a quel punto?
Fanfani, urtato per la condotta dei dorotei, non era in condizione di avanzare una proposta. Questa venne da Moro che fece trapelare, appunto, l’ipotesi di Zaccagnini. Aveva il profilo di un uomo super partes in quanto Presidente del Consiglio nazionale, una carica fino ad allora poco più che onorifica. Dunque, si andò al voto senza certezze, tant’è che la maggioranza si sarebbe formata attraverso la saldatura dei gruppi di sinistra con morotei e fanfaniani, ma anche con dorotei dissidenti. Sembrava una soluzione destinata essenzialmente a preparare un congresso a tempi stretti, come d’altronde richiesto prima della convocazione del Consiglio nazionale.
Immagino che il più sorpreso fu Zaccagnini…
Avevo un rapporto stretto con lui. Alla Camera era maturata una certa confidenza tra noi. Benigno si dichiarava fuori dai giochi, aveva deciso di non ripresentarsi alle elezioni, coltivava l’idea del “buen retiro” nella sua Ravenna. A colpirmi fu anche la sua volontà di dedicarsi allo studio di Santa Caterina. In lei ammirava il coraggio con il quale richiamava la Chiesa ai suoi doveri: il Papato si era da tempo trasferito ad Avignone e lei, in opposizione allo scandalo di quell’esilio, ne reclamava il ritorno a Roma. Insomma, i pensieri di Zaccagnini erano altrove, ma di colpo veniva investito di una responsabilità fuori da ogni aspettativa o congettura.
Invece, attorno alla sua figura incominciò a prendere forma un vasto sentimento di entusiasmo.
Le bandiere bianche tornarono a sventolare nelle piazze. Ricordo la manifestazione a Piazza Sant’Apostoli organizzata in ottobre dal Movimento giovanile per protestare contro l’attentato a Bernardo Leighton e alla sua signora, esuli cileni a Roma. La partecipazione di tanti militanti, con un corteo che prese il via dal Colosseo, era la riprova di un chiaro mutamento di clima politico. Zaccagnini, benché assente, aveva evocato l’orgoglio della base. Ci accorgemmo che giorno dopo giorno andava aumentando la popolarità di Zac, come presto fu ribattezzato. Il congresso rimase in agenda, ma slittò più volte. Ai primi di gennaio il partito organizzò a Bozzolo e a Mantova, sempre con il decisivo contributo dei suoi giovani, un convegno in ricordo di don Primo Mazzolari. Fu anche quello un trampolino di lancio per mettere a fuoco la linea del confronto, approvata a marzo del ‘76 al Palazzo dello Sport dell’Eur, dove si tenne appunto il XIII congresso. Grazie a una modifica statutaria, verso la quale la sinistra oppose resistenza per il timore che fosse l’anticamera del cesarismo, Zaccagnini fu eletto direttamente dai delegati in Assemblea.
Non era una elezione scontata. Quando si diffusero le prime voci che davano avanti Zaccagnini sul suo contendente, Arnaldo Forlani, sugli spalti del Palazzo dello Sport ci fu il finimondo. Urla da stadio, striscioni e bandiere che sventolavano, gente che saltava sulle panche…Qualcuno intonò Bella Ciao in un tripudio di entusiasmo.
Fino all’ultimo non eravamo sicuri di vincere. A differenza della elezione nel Consiglio nazionale dell’estate precedente, stavolta Fanfani era contro. A sostegno della candidatura di Zaccagnini vennero Rumor, Colombo, Gullotti e alcuni amministratori locali, tra cui il marchigiano Adriano Ciaffi. Vinceva la linea del confronto, che non voleva essere di cedimento ai comunisti, come la destra sosteneva, ma di apertura alla novità insita nello spostamento a sinistra del Paese ed alla necessità di rinnovare il partito. Dopo le elezioni, con una DC in netto recupero, fu possibile avviare la politica di solidarietà nazionale.
Poi Moro pagò quelle scelte coraggiose con il sequestro e il martirio, vittima delle Br. Per tutti, ma per Zaccagnini in particolare, fu una vicenda dolorosissima.
Certo, Zaccagnini nutriva stima e ammirazione per Moro. In più c’era amicizia, qualcosa insomma che andava oltre l’aspetto puramente politico. Andrebbe studiata con più attenzione la sofferta posizione che egli tenne nei due anni successivi alla tragedia, fino al congresso del 1980. Non abbandonò il campo. Fino all’ultimo difese le ragioni di quella politica che nella visione morotea doveva promuovere il superamento della democrazia bloccata, favorendo l’evoluzione del PCI come alternativa democratica al governo. Tuttavia, nella replica congressuale Zaccagnini dette una risposta ancora più limpida a quanti pretendevano di ridurre il confronto a una scelta di rassegnazione o peggio di subordinazione al PCI. Confrontarsi non significava adeguarsi ai comunisti, non si può dimenticare, per esempio, che sulla questione degli euromissili, su cui il governo Cossiga s’impegnò a fondo e con successo, Zaccagnini intervenne in Aula per confermare l’opzione strategica della solidarietà atlantica, contro l’espansionismo sovietico.
Dunque, si banalizza il discorso quando si parla di Zaccagnini come uomo dell’abbraccio con i comunisti…
Se l’abbraccio doveva costituire la rinuncia della DC ad essere se stessa, certamente Zaccagnini di questo abbraccio non era il protagonista. A noi ha comunicato sempre la convinzione che un partito di saldi convincimenti democratici, forte delle sue radici popolari e antifasciste, ispirato ai valori cristiani e legato ai principi di libertà e di giustizia, avesse diritto a misurarsi sullo stesso terreno con i comunisti, in una aperta competizione per il progresso civile e politico del Paese. Zaccagnini è morto qualche giorno prima della caduta del Muro di Berlino; molti anni prima, in un dibattito alla Camera, aveva lanciato uno sguardo sul futuro per sostenere l’inevitabilità del crollo di quella assurda frontiera di mattoni e filo spinato, costruita per evitare la fuga dall’Est, non per difendere la Germania comunista.
E che dire oggi di Zaccagnini? Dove ti sembra più giusto collocarne la testimonianza? E in più, a rigore, vale ancora la sua testimonianza?
Zaccagnini dovrebbe essere considerato un leader storico del riformismo democratico. Non è difficile dire che oggi starebbe con le forze di centro sinistra. Più difficile è ritenere invece che sarebbe soddisfatto della politica odierna. Penso che in questo tempo dominato dalla personalizzazione politica, e quindi dal leaderismo, non sentirebbe sua la maniera in cui si svolge e si definisce la lotta democratica. Di sicuro non avrebbe simpatia per atteggiamenti oltremodo tattici che mettono in crisi il principio di responsabilità. Non lo immagino propenso – lui vecchio partigiano – a occhieggiare in direzione dei populisti.
Tu gli daresti la tessera del PD?
Non spetta a me, idealmente, questo compito. Per altro non sono nemmeno io iscritto al PD. Lo voto, perché nel PD ci sono molti miei amici, non capisco quale altro partito dovrei votare. Del resto, come si sa, sono contro il maggioritario e per il proporzionale, che valorizza il pluralismo e garantisce la centralità del Parlamento. Questo dissenso non impedisce di pensare che alle elezioni si vada con uno schema, chiarendo quale possa essere il proprio modello di alleanze. Ciò deve però scaturire sia dal consenso degli elettori, sia dal confronto successivo con le altre forze politiche, in Parlamento. Il PD mi sembra prigioniero di una illusione, e cioè che la destra si vinca alzando i toni della polemica e radicalizzando il confronto politico. Così, si favoriscono le ammucchiate di destra.
Quasi quasi… restituisci un ruolo decisivo al centro. Può essere ricostituito un partito di centro come la DC? Ci sono molte obiezioni, a riguardo.
E sono obiezioni che condivido. Aggiungo una riflessione: ogni progetto va calato nel contesto storico per diventare azione politica. La DC è stato un partito “determinato dalla storia”, non è riproducibile ignorando i radicali cambiamenti degli ultimi cinquant’anni, italiani e mondiali. A chi ha nostalgia di un centro che guarda a sinistra, consiglierei di dedicare le energie, tutte quelle disponibili, a rafforzare i processi di aggregazione delle forze riformatrici, insieme appunto al PD. Ciò non toglie che la fatica di tenere in piedi un progetto sia inutile. Però, dove porta inseguire la chimera di un rilancio spontaneo del “mondo di centro”.
Che cosa è utile fare, se abbiamo a cuore il futuro del cattolicesimo democratico?
Joseph De Maistre scriveva da San Pietroburgo al Re di Sardegna che le notizie sulla terribile battaglia della Beresina non permettevano di capire chi avesse vinto. E aggiungeva che però si poteva prevedere che avrebbe vinto “chi tiene il campo”, dunque chi sarà capace di rimanere sul terreno. In fondo è quello che abbiamo visto in Afghanistan: i Talebani hanno vinto – purtroppo – perché controllavano quelle valli, quel terreno. È un’osservazione che vale anche per la politica. I cattolici democratici vogliono uscire dall’insignificanza, esserci e contare? Devono stare sul terreno, in questa società. Quando eravamo giovani, pensavamo che “un partito è l’organizzazione di una speranza”. Il problema di oggi è soprattutto quello di essere riconoscibili nella società, per dare a un partito – se sarà ancora il PD dipende dal PD – la spinta ideale e politica che lo metta “al centro del cambiamento”, con un afflato solidarista e popolare, con la passione necessaria… Forse Zaccagnini ci direbbe d’investire su questo tipo di futuro, di conservare nel cuore una speranza.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Cominciamo dalle cose più semplici, spesso poco conosciute e quindi poco valutate. Come venne fuori il nome di Zaccagnini?
Il Consiglio nazionale, convocato per analizzare la flessione elettorale nelle ultime amministrative, durò un giorno di più del previsto, anche perché si era aperto un dibattito dentro le diverse correnti del partito. Contro Fanfani, il segretario che già l’anno precedente aveva portato la DC alla sconfitta del referendum sul divorzio, si registrava la convergenza della sinistra interna (Base e Forze Nuove) e dei dorotei. Anche Donat-Cattin, all’inizio, pensava a una soluzione calibrata sul Rumor. Invece Moro esprimeva maggiore cautela sulle responsabilità di Fanfani, ed era più severo su quelle della maggioranza. In ogni caso su Rumor si poteva anche chiudere, ma a far saltare il banco fu Bisaglia che ambiva, evidentemente, a sottolineare il suo ruolo di leader emergente rispetto ai vecchi della corrente. Questo dissidio all’interno dei dorotei obbligò a prendere atto che l’impasse poteva degenerare nel caos. Eravamo ancora lì, nell’aula di Palazzo Sturzo, quando da fuori gli autisti cominciarono a suonare i clacson per protesta.
E a quel punto?
Fanfani, urtato per la condotta dei dorotei, non era in condizione di avanzare una proposta. Questa venne da Moro che fece trapelare, appunto, l’ipotesi di Zaccagnini. Aveva il profilo di un uomo super partes in quanto Presidente del Consiglio nazionale, una carica fino ad allora poco più che onorifica. Dunque, si andò al voto senza certezze, tant’è che la maggioranza si sarebbe formata attraverso la saldatura dei gruppi di sinistra con morotei e fanfaniani, ma anche con dorotei dissidenti. Sembrava una soluzione destinata essenzialmente a preparare un congresso a tempi stretti, come d’altronde richiesto prima della convocazione del Consiglio nazionale.
Immagino che il più sorpreso fu Zaccagnini…
Avevo un rapporto stretto con lui. Alla Camera era maturata una certa confidenza tra noi. Benigno si dichiarava fuori dai giochi, aveva deciso di non ripresentarsi alle elezioni, coltivava l’idea del “buen retiro” nella sua Ravenna. A colpirmi fu anche la sua volontà di dedicarsi allo studio di Santa Caterina. In lei ammirava il coraggio con il quale richiamava la Chiesa ai suoi doveri: il Papato si era da tempo trasferito ad Avignone e lei, in opposizione allo scandalo di quell’esilio, ne reclamava il ritorno a Roma. Insomma, i pensieri di Zaccagnini erano altrove, ma di colpo veniva investito di una responsabilità fuori da ogni aspettativa o congettura.
Invece, attorno alla sua figura incominciò a prendere forma un vasto sentimento di entusiasmo.
Le bandiere bianche tornarono a sventolare nelle piazze. Ricordo la manifestazione a Piazza Sant’Apostoli organizzata in ottobre dal Movimento giovanile per protestare contro l’attentato a Bernardo Leighton e alla sua signora, esuli cileni a Roma. La partecipazione di tanti militanti, con un corteo che prese il via dal Colosseo, era la riprova di un chiaro mutamento di clima politico. Zaccagnini, benché assente, aveva evocato l’orgoglio della base. Ci accorgemmo che giorno dopo giorno andava aumentando la popolarità di Zac, come presto fu ribattezzato. Il congresso rimase in agenda, ma slittò più volte. Ai primi di gennaio il partito organizzò a Bozzolo e a Mantova, sempre con il decisivo contributo dei suoi giovani, un convegno in ricordo di don Primo Mazzolari. Fu anche quello un trampolino di lancio per mettere a fuoco la linea del confronto, approvata a marzo del ‘76 al Palazzo dello Sport dell’Eur, dove si tenne appunto il XIII congresso. Grazie a una modifica statutaria, verso la quale la sinistra oppose resistenza per il timore che fosse l’anticamera del cesarismo, Zaccagnini fu eletto direttamente dai delegati in Assemblea.
Non era una elezione scontata. Quando si diffusero le prime voci che davano avanti Zaccagnini sul suo contendente, Arnaldo Forlani, sugli spalti del Palazzo dello Sport ci fu il finimondo. Urla da stadio, striscioni e bandiere che sventolavano, gente che saltava sulle panche…Qualcuno intonò Bella Ciao in un tripudio di entusiasmo.
Fino all’ultimo non eravamo sicuri di vincere. A differenza della elezione nel Consiglio nazionale dell’estate precedente, stavolta Fanfani era contro. A sostegno della candidatura di Zaccagnini vennero Rumor, Colombo, Gullotti e alcuni amministratori locali, tra cui il marchigiano Adriano Ciaffi. Vinceva la linea del confronto, che non voleva essere di cedimento ai comunisti, come la destra sosteneva, ma di apertura alla novità insita nello spostamento a sinistra del Paese ed alla necessità di rinnovare il partito. Dopo le elezioni, con una DC in netto recupero, fu possibile avviare la politica di solidarietà nazionale.
Poi Moro pagò quelle scelte coraggiose con il sequestro e il martirio, vittima delle Br. Per tutti, ma per Zaccagnini in particolare, fu una vicenda dolorosissima.
Certo, Zaccagnini nutriva stima e ammirazione per Moro. In più c’era amicizia, qualcosa insomma che andava oltre l’aspetto puramente politico. Andrebbe studiata con più attenzione la sofferta posizione che egli tenne nei due anni successivi alla tragedia, fino al congresso del 1980. Non abbandonò il campo. Fino all’ultimo difese le ragioni di quella politica che nella visione morotea doveva promuovere il superamento della democrazia bloccata, favorendo l’evoluzione del PCI come alternativa democratica al governo. Tuttavia, nella replica congressuale Zaccagnini dette una risposta ancora più limpida a quanti pretendevano di ridurre il confronto a una scelta di rassegnazione o peggio di subordinazione al PCI. Confrontarsi non significava adeguarsi ai comunisti, non si può dimenticare, per esempio, che sulla questione degli euromissili, su cui il governo Cossiga s’impegnò a fondo e con successo, Zaccagnini intervenne in Aula per confermare l’opzione strategica della solidarietà atlantica, contro l’espansionismo sovietico.
Dunque, si banalizza il discorso quando si parla di Zaccagnini come uomo dell’abbraccio con i comunisti…
Se l’abbraccio doveva costituire la rinuncia della DC ad essere se stessa, certamente Zaccagnini di questo abbraccio non era il protagonista. A noi ha comunicato sempre la convinzione che un partito di saldi convincimenti democratici, forte delle sue radici popolari e antifasciste, ispirato ai valori cristiani e legato ai principi di libertà e di giustizia, avesse diritto a misurarsi sullo stesso terreno con i comunisti, in una aperta competizione per il progresso civile e politico del Paese. Zaccagnini è morto qualche giorno prima della caduta del Muro di Berlino; molti anni prima, in un dibattito alla Camera, aveva lanciato uno sguardo sul futuro per sostenere l’inevitabilità del crollo di quella assurda frontiera di mattoni e filo spinato, costruita per evitare la fuga dall’Est, non per difendere la Germania comunista.
E che dire oggi di Zaccagnini? Dove ti sembra più giusto collocarne la testimonianza? E in più, a rigore, vale ancora la sua testimonianza?
Zaccagnini dovrebbe essere considerato un leader storico del riformismo democratico. Non è difficile dire che oggi starebbe con le forze di centro sinistra. Più difficile è ritenere invece che sarebbe soddisfatto della politica odierna. Penso che in questo tempo dominato dalla personalizzazione politica, e quindi dal leaderismo, non sentirebbe sua la maniera in cui si svolge e si definisce la lotta democratica. Di sicuro non avrebbe simpatia per atteggiamenti oltremodo tattici che mettono in crisi il principio di responsabilità. Non lo immagino propenso – lui vecchio partigiano – a occhieggiare in direzione dei populisti.
Tu gli daresti la tessera del PD?
Non spetta a me, idealmente, questo compito. Per altro non sono nemmeno io iscritto al PD. Lo voto, perché nel PD ci sono molti miei amici, non capisco quale altro partito dovrei votare. Del resto, come si sa, sono contro il maggioritario e per il proporzionale, che valorizza il pluralismo e garantisce la centralità del Parlamento. Questo dissenso non impedisce di pensare che alle elezioni si vada con uno schema, chiarendo quale possa essere il proprio modello di alleanze. Ciò deve però scaturire sia dal consenso degli elettori, sia dal confronto successivo con le altre forze politiche, in Parlamento. Il PD mi sembra prigioniero di una illusione, e cioè che la destra si vinca alzando i toni della polemica e radicalizzando il confronto politico. Così, si favoriscono le ammucchiate di destra.
Quasi quasi… restituisci un ruolo decisivo al centro. Può essere ricostituito un partito di centro come la DC? Ci sono molte obiezioni, a riguardo.
E sono obiezioni che condivido. Aggiungo una riflessione: ogni progetto va calato nel contesto storico per diventare azione politica. La DC è stato un partito “determinato dalla storia”, non è riproducibile ignorando i radicali cambiamenti degli ultimi cinquant’anni, italiani e mondiali. A chi ha nostalgia di un centro che guarda a sinistra, consiglierei di dedicare le energie, tutte quelle disponibili, a rafforzare i processi di aggregazione delle forze riformatrici, insieme appunto al PD. Ciò non toglie che la fatica di tenere in piedi un progetto sia inutile. Però, dove porta inseguire la chimera di un rilancio spontaneo del “mondo di centro”.
Che cosa è utile fare, se abbiamo a cuore il futuro del cattolicesimo democratico?
Joseph De Maistre scriveva da San Pietroburgo al Re di Sardegna che le notizie sulla terribile battaglia della Beresina non permettevano di capire chi avesse vinto. E aggiungeva che però si poteva prevedere che avrebbe vinto “chi tiene il campo”, dunque chi sarà capace di rimanere sul terreno. In fondo è quello che abbiamo visto in Afghanistan: i Talebani hanno vinto – purtroppo – perché controllavano quelle valli, quel terreno. È un’osservazione che vale anche per la politica. I cattolici democratici vogliono uscire dall’insignificanza, esserci e contare? Devono stare sul terreno, in questa società. Quando eravamo giovani, pensavamo che “un partito è l’organizzazione di una speranza”. Il problema di oggi è soprattutto quello di essere riconoscibili nella società, per dare a un partito – se sarà ancora il PD dipende dal PD – la spinta ideale e politica che lo metta “al centro del cambiamento”, con un afflato solidarista e popolare, con la passione necessaria… Forse Zaccagnini ci direbbe d’investire su questo tipo di futuro, di conservare nel cuore una speranza.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Certo che la lucidità di analisi è la competenza di Guido Bodrato sono, come sempre, una “spanna” sopra tutti gli altri.
Oggi manca un leader con queste caratteristiche.
Intervento di una lucidità e intelligenza che rende veramente impietoso il confronto con i leaders (?) di oggi. Una capacità di analisi veramente coinvolgente. L’unico concetto, anche da medico quale sono, da cui dissento è quello sul presunto conflitto di memoria di Guido!