La visione di Martinazzoli



Intervista di Francesco Provinciali    6 Settembre 2021       1

A dieci anni dalla scomparsa dell’ultimo segretario della DC e fondatore nel 1994 del nuovo Partito popolare italiano, “Avvenire” ha ripubblicato questa intervista a Mino Martinazzoli rilasciata pochi mesi prima della morte a Francesco Provinciali, nostro apprezzato articolista.

Onorevole Martinazzoli, nella ricorrente metafora del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica – oggi tanto enfatizzata – si leggono i segni di un oggettivo cambiamento o le allegorie interessate di chi vuole dimostrare che adesso la politica è migliore?

Da un punto di vista di realtà, c’è un dato oggettivo e non imputabile a cause endogene italiane: il crollo del muro di Berlino e il fatto che si sia consumata l’esperienza del comunismo realizzata in Europa. Quello è certamente un incrocio decisivo per i cambiamenti nella politica. Per quel che riguarda le conseguenze nostre italiane, non vi è dubbio che un’enfasi dichiarata in ordine alla Seconda Repubblica come “alternativa” alla prima è assolutamente falsa e non condivisibile. Per la verità molto spesso mi sembra di capire che quando enfatizziamo la Seconda Repubblica non parliamo di qualcosa di nuovo ma della decadenza del vecchio. A onor del vero io comunque me ne intendo poco perché mi sono sempre dichiarato un apolide della Seconda Repubblica.

Le propongo una semplificazione concettuale che Le chiedo di brevemente commentare: non siamo forse passati dal bipartitismo imperfetto della democrazia bloccata al bipolarismo imperfetto della democrazia virtuale?

Sono d’accordo anche su questo. Lei si riferisce come me – certamente – alla famosa definizione di Giorgio Galli sul bipartitismo imperfetto, quando descriveva il sistema politico della Prima Repubblica e non vi è dubbio che le cose stavano così. C’era un bipartitismo nel senso che DC e PCI rappresentavano da soli circa l’80% dei voti che l’elettorato andava esprimendo ma l’imperfezione riguardava l’impossibilità dell’alternativa. Oggi direi che abbiamo invece una considerazione singolare per la quale – a seconda dei giorni – si dichiara che il bipartitismo non è l’ostacolo o lo strumento ma è addirittura il grande obiettivo da raggiungere. Ricordo di aver partecipato a un dibattito con l’ottimo Michele Salvati il quale cercava di convincermi che – comunque fossero andate le cose, qualunque fosse il giudizio mio – rimaneva che la Seconda Repubblica era migliore della Prima perché in quella non era stato possibile realizzare un’alternanza di governo. Gli obiettavo e gli obietto che nella storia il meglio e il peggio non si giudicano così ma rispetto alla condizione storica data. Ripenso a De Gasperi, Fanfani, Moro e a quello che è stata la politica della maggioranza, per scelta di un partito, a ciò che di concreto si è fatto in un lungo periodo di governo della cosa pubblica.

Che cosa distingue oggi una politica di destra o di sinistra? La polarizzazione annunciata e i processi di aggregazione in atto salvano le differenze o ci troviamo di fronte a rassemblement privi di identità davvero connotate e alternative tra loro? A una progettualità dal fiato corto?

C’è molto movimentismo ed è una condizione che aggrava l’immagine della politica e non solo da noi: a volte viene da interrogarsi sulle sorti della democrazia, là dove c’è democrazia. Oggi la politica sembra avere a che fare più con la biografia e la cronaca che con la storia. Ricordo una pagina di Manzoni, quella di don Ferrante, che non era lo sciocco che noi pensiamo, nonostante fosse morto di peste perché non era stato in grado di risolvere il dubbio se la peste fosse accidente o sostanza. Diceva don Ferrante che la storia senza la politica è come una guida che cammina senza guardare indietro per vedere se qualcuno la segue, ma la politica senza storia è come uno che cammina senza una guida. Oggi ho l’impressione netta di una politica che cammina senza una guida. Io non rimpiango le ideologie, ma un poco sì. Non è possibile immaginare che la politica non sia un “disegno”, un’idea del futuro, un pensiero sul mondo, la vita, le cose. Anche per chi la osserva ormai da lontano, la politica di oggi è come un seguito di aneddoti spesso incresciosi. Una politica siffatta rinuncia all’ambizione del suo primato, non è legata all’idea di futuro ma è invece condizionata e assillata da un costante “presentismo” e non è per caso tra l’altro che la descriviamo – insisto – non più intorno a una teoria, a un’immaginazione, a una speranza ma sull’esegesi delle diverse biografie. Guardiamo la società politica della metamorfosi, dei fuoriusciti: anche nelle notizie di oggi, siamo alle prese con degnissime persone che hanno avuto una storia, un passato, un ruolo politico e ce l’hanno ancora le quali, mentre stanno costruendo un partito che non è interamente fatto, già spiegano che sono insoddisfatte, non hanno più fiducia, che pensano ad altro. Le confesso che è una cronaca tutto sommato non particolarmente suggestiva ma temo anche che in questo modo quello che mancherà alla politica saranno sempre di più le idee e la capacità di immaginazione.

Onorevole Martinazzoli, Le chiedo di ricordare brevemente quella fase di transizione che portò allo scioglimento della DC e alla nascita del PPI ispirato a don Sturzo, un progetto di rifondazione politica che poi a sua volta è rapidamente svanito. Perché gli elettori considerarono di più i vostri torti che le vostre ragioni?

Quando ci sono le grandi accelerazioni storiche, nei momenti conclusivi di un ciclo, accade sempre così. Tuttavia guardando a quella esperienza direi che siamo stati tanto puniti non tanto dall’indifferenza o dall’ostilità degli elettori quanto dalla nostra incapacità di essere pazienti, ostinati e coerenti. Qual era il senso di quell’operazione? Non certo una vergogna della nostra storia ma l’idea di un cambiamento che andava in qualche misura interpretato. Nel ’94 finisce la ragione storica della Democrazia cristiana di De Gasperi, quasi un compito: quello governare ad ogni costo, perché non c’era un’alternativa. Aldo Moro ci disse una volta che noi eravamo per così dire “condannati a governare”. Alla fine quando avevamo appreso che non era una condanna all’ergastolo, tutto è diventato malinconico e abbiamo sbagliato nel pensare di poter continuare un passato che non c’era più. L’idea della rifondazione partendo da don Sturzo voleva premiare di più la nostra intenzione piuttosto che il nostro potere, ripartire da un progetto.

Ricordo che il senatore Giulio Andreotti e monsignor Bruno Forte – nelle rispettive interviste – mi avevano detto entrambi che in sostanza bisogna ripartire dalla Costituzione repubblicana e – per i cattolici impegnati in politica – da una rilettura del Codice di Camaldoli. Anche Lei la pensa così?

Questa è anche la mia convinzione, tanto più essendo stato anche modestamente dentro questa storia, non ho dubbi che la Costituente fu il momento più alto del contributo dato dai cattolici.

Il problema è capire se c’è ancora un’ambizione rispetto a questo. Io sono convinto – naturalmente la mia affermazione può essere discutibile – che i cattolici in politica in questo Paese sono stati importanti non quando si sono posti come i rappresentanti dell’Italia cattolica ma quando si sono interpretati come i rappresentanti dei cattolici in Italia. Quel collegamento tra il civile e il proprio credo. Mi rendo conto che si tratta di un impegno difficile , ma è “questa” l’ambiguità che occorre superare in termini di presenza politica.

Non Le sembra che proprio nell’epoca della complessità e della globalizzazione la capacità di governo dovrebbe esprimersi con una concezione mite e moderata della politica, attraverso la proposta di valori ispirati alla mediazione, al dialogo e alla ricomposizione? Perché anche la politica partecipa del “tutti contro tutti” e non riesce ad entrare con moderazione nella nostra vita?

Sottoscrivo in pieno questa preoccupazione. Ciò accade – secondo me – perché la politica non ha più gli strumenti culturali, l’umiltà morale, le ambizioni civili e anche perché – intendiamoci – partecipa della situazione di crisi degli Stati nazionali, delle derive sociali e della globalizzazione. Una sola precisazione vorrei aggiungere, ma credo che sia già implicita nella sua domanda: parliamo appunto di “moderazione”. Io sono sempre piuttosto reattivo quando sento parlare chi pretende di rappresentare i moderati. Io i moderati in natura non li conosco, gli interessi non sono per loro natura moderati, i valori men che meno: è appunto la politica che li modera ma questa moderazione nella politica non la raggiungi se non ti muovi sul terreno della scelta culturale piuttosto che su quello della soddisfazione degli interessi immediati. Del resto già Sturzo distingueva tra “moderatismo” e “moderazione” e possiamo dire che il primo sta all’altra come l’impotenza sta alla castità.

Oggi più di allora il dibattito politico si accende di toni conflittuali, si cercano colpe e colpevoli, si demonizza l’avversario, la frammentazione personalizza il confronto, a cominciare dai simboli stessi dei partiti. La politica urlata è sempre più lontana dalla sensibilità della gente, c’è molta sfiducia e disaffezione. È questo il risultato di quello sconquasso degli anni 90?

Questo è il risultato di tante cose e certamente di un’occasione mancata. Gli anni ‘90 se interpretati correttamente potevano realizzare un passo avanti rispetto al passato, a cominciare dalla fisiologia dell’alternanza che è in sé la fisiologia della democrazia. Questo non è accaduto, ma potrei dire così: erano in molti che gridavano perché volevano il superamento del sistema di potere democristiano, ma i più non volevano superarlo, volevano solo ereditarlo. E il risultato è quello di oggi.

Una domanda all’uomo di legge, ex Ministro della Giustizia e avvocato. Che cosa pensa della riforma dell’ordinamento giudiziario, della separazione delle carriere dei magistrati e dei giudici elettivi? Oltre al poliziotto di quartiere avremo anche il giudice di quartiere? Una persona chiamata poi a giudicare chi lo ha votato?

Io so bene che ad esempio in America il sistema giudiziario prevede l’elezione dei giudici, anche con qualche buon risultato. Qui da noi sarebbe naturalmente la follia pura conoscendo la tendenza, l’autotentazione alla partigianeria. Certamente io sarei terrorizzato da questa ipotesi. Certamente resta il problema della ipotesi della separazione delle carriere, oltre la follia del giudice eletto. Su quest’ultimo punto però io debbo dirle – senza resistenze – che da sempre io considero che l’aver realizzato la struttura del processo accusatorio in Italia comportava come corollario la separazione tra giudice e pubblico ministero. Quindi da un certo punto di vista sono convinto che bisognerebbe realizzarla ma vedendo peraltro qual è oggi in Italia il rapporto tra potere politico e l’ordine giudiziario mi guarderei bene dal proporre una soluzione del genere. Non sono tempi favorevoli a delle riforme serie soprattutto sul terreno che riguarda la nostra libertà.

Esiste in politica un “anno zero”, si avvalora cioè la teoria delle riforme radicali, del “ricominciare ogni volta tutto da capo”? Oppure tutto si evolve in modo graduale, riproponendo corsi e ricorsi storici? In quale modo i cattolici impegnati in politica possono esprimere valori e presenza, dopo il tramonto del loro partito e del collateralismo?

Non esiste un anno zero nella politica e nella vita. Questa tesi riguarda chi arriva e dice “adesso sistemo tutto io” oppure nel momento delle grandi illusioni rivoluzionarie. Se noi andiamo a leggere attentamente la storia scopriremo che anche le grandi rivoluzioni si raccomandano agli uomini non per quello che hanno distrutto ma per quello che hanno conservato. È il riformismo che risulta certo meno terrorizzante però per raggiungere questa capacità, energia, attenzione, disponibilità al cambiamento occorrono fasi culturali e civili che oggi come oggi sono state rese nulle. Oggi viviamo un tempo in cui siamo in una condizione per niente allettante: tutto ciò che è stato distrutto è rimpianto. Ma il rimpianto non è di per sé una terra favorevole alla speranza.

A sentire in giro c’è una conclamazione universale del “merito”, non si parla d’altro. Ma i capaci e i meritevoli – a cominciare dai giovani – devono necessariamente passare sotto le forche caudine dello spoil system? Il fatto che siano i partiti al governo scegliersi i dipendenti non Le sembra una declinazione sociale ancor più deteriore del “manuale Cencelli”?

Ha ragione lei, questa è la negazione dettato costituzionale, che quando parla della pubblica amministrazione ne parla in termini di imparzialità e indipendenza. Nella mia piccola esperienza non ho mai accettato di distogliere il Segretario comunale dalla gerarchia che lo collocava alle dipendenze del Ministero degli Interni. Mi sono sempre opposto – sia pure sconfitto – a questa idea. L’idea che la burocrazia sia totalmente svincolata dalla politica oggi l’abbiamo fatta completamente saltare. Pensiamo anche al sistema elettorale: oggi un parlamentare non deve preoccuparsi di garantirsi la riconferma guardando al suo elettorato ma rispondendo al suo padrone.

Onorevole Martinazzoli, quando da noi la politica potrà diventare una cosa normale? E che messaggio di incoraggiamento e di speranza possiamo dare ai giovani che vogliono impegnarsi nella società civile per progettare e costruire un mondo migliore? De Rita parla di speranzielle: bisogna aggrapparci almeno a quelle…?

Non sono del tutto d’accordo: mi sta bene il rifiuto delle ideologie totalizzanti e la ricerca dei valori vicini, ma se guardiamo meglio si finisce per scoprire che anche nelle piccole cose, quelle quotidiane, c’è sempre un rapporto con la politica. Quando mi chiedevano – allora avevo delle responsabilità – che cosa voleva dire essere un partito di ispirazione cristiana io rispondevo che eravamo gente che sapeva che la politica conta ma che sapeva anche la vita conta di più della politica. Con i giovani occorre evitare i superlativi. Converrebbe dire loro una cosa importante e realistica: che i giovani possono anche non occuparsi di politica ma devono sapere che – comunque – la politica si occuperà di loro. La politica per sua natura non crea valori: ha senso se è capace di garantire l’esistenza e il rispetto dei valori che crea l’uomo.


1 Commento

  1. Grazie per la pubblicazione di questa intervista, che non conoscevo. Faccio riferimento ad un interrogativo sollevato da Martinazzoli: “Il problema è capire se c’è ancora un’ambizione rispetto a questo.” Vedo, leggo su internet molteplici interventi di esponenti di associazioni, fra cui la vostra, che si rifanno all’idea cattolico-democratica. Ma tutto non va oltre “la chiacchiera”, lo dico senza polemica. Mi rendo conto che questa cautela nel prendere iniziative forse dipende da una consapevolezza: che forse i tempi non siano ancora maturi. Del resto ne era consapevole lo stesso Martinazzoli quando prevedeva che: “Dovranno passare molte cose. Quello che c’è in campo oggi è più un detrito, un ingombro, che non la promessa di qualcosa. Dovranno arrivare delle generazioni che risentano queste cose come cose nuove.” Se è così bisogna allora ‘preparare il terreno’ a livello culturale, di idee; seminare senza la preoccupazione di chi avrà l’opportunità del raccolto. Si tratta di un appello alla speranza cristiana: “Ma continuo ad essere convinto che, anche se io non lo vedrò, tornerà un tempo meno inclemente per questo seme della nostra storia che non può essere diventato infecondo.”

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