Il dito (la polemica) e la Luna (la realtà)



Nino Labate    5 Settembre 2021       0

Sono da solo a constatare un pericoloso strabismo, forse di taglio menefreghista, delle nostre attuali élite, a cui concorre massicciamente anche il giornalismo schierato e fazioso dei giorni nostri? Facciamoci caso perché si tratta a mio avviso di una vera e propria caduta di stile, intellettuale e culturale, oltre che etica, rappresentabile con la metafora del dito e della Luna.

Mi spiego meglio. Sembra infatti diffusa la pessima abitudine di dimenticarsi della Luna e di guardare sempre al dito. Ove nel “dito” troviamo la superficiale e costante polemica quotidiana, unita alla cronaca spesso offensiva e disonorante della nostra classe politica contro se stessa; e nella “luna” invece la profonda e mai scrutata a sufficienza “società concreta”, oggi nelle mani di pregiudizi e di luoghi comuni, nel suo reale sviluppo storico e nelle sue trasformazioni ormai in stato avanzato. Una società che appare sotto i nostri occhi con bisogni e nuove domande provocati da violenti cambiamenti culturali e sociali.

Un vizietto aristocratico ed elitario, questo, tipico delle oligarchie, che spinge ad osservare sempre chi sta piu in alto e sopra di noi. Al massimo chi sta di lato e di fianco a noi. Uno spiarsi fra “pari” ed eguali, insomma fra “pochi ma buoni”, dimenticandosi sempre di chi sta in basso e sotto di noi, dei “molti ma cattivi”, verso i quali mancano risposte di “lunga durata” adeguate alla storia che viviamo e a quella che ci attende.

Le élite che si spiano

La metafora ci parla dunque del vizio di guardare costantemente verso l’alto, polemizzando con la classe politica e i partiti che la compongono; verso le élite che la formano e la disformano, la strutturano e la destrutturano, per studiarne le mosse e poi polemizzare, con attacchi spesso offensivi, ma sempre al di là di una fisiologica e democratica dialettica politica interpartitica. Si dirà che questa è la logica delle democrazie competitive oggi personalizzate e governate dai vari leader, ognuno alle prese con la politica spettacolo, con un marketing raffinato, con il tutto e il contrario di tutto, così come veicolato dai social.

Eppure c’è qualche utopista che comincia a pensare che questa logica sia destinata ad essere superata o che sia al massimo transitoria. D’altronde sarà sempre tardi quando capiremo che “…siamo tutti sulla stessa barca“! I primi esempi delle “Grandi Coalizioni“ fra diversi, qualche volta “nemici”, sono arrivati dalla Germania, dalla Francia e dalla Spagna. E da qualche mese noi stiamo sperimentando qualcosa di simile con Draghi. Tuttavia non bisogna essere papalini e bergogliani per ammettere l’evidente necessità di remare insieme – evito di dire che siamo “Fratelli Tutti” – ammesso che riusciremo mai a capirlo, dispersi come siamo tra partiti e partitini, leader e leaderini.

Purtroppo ciò che conta adesso è la voglia di osservare attentamente e scrupolosamente cosa fa e dice l’uomo politico avversario, per poterlo attaccare e criticare. Scrutarsi a vicenda e polemizzare anche aspramente con il “diverso”, sono il mantra del mondo politico attuale. Altro sembra non esserci.

Ci vengono in aiuto le parole inflazionate di populismo e trasformismo, in testa all’ordine del giorno e buone per ogni minestra, ricorrendo alle quali secondo molti veloci osservatori si risolve tutto, senza spiegare mai niente sul loro vero significato e su cosa vogliamo dire. E ci aiuta la costante e ansiosa ricerca di un centro politico diverso dalla destra e dalla sinistra, di cui però si tacciono sempre i profili e le caratteristiche cultural-politiche, superficialmente identificati con l’antisovranismo, l’antipopulismo e il non voto.

E però in questo modo che si perdono i contatti con il basso, ovvero con la “società concreta” direbbe Luigi Sturzo. Latitano infatti le analisi empiriche capaci di suggerire diverse cose e stimolare soluzioni condivise per il bene di tutti, alla luce di quello che passa il mondo di oggi è in prospettiva di domani.

Diciamo ancora meglio che è proprio cosi che si trascurano i rapidi cambiamenti. Quei cambiamenti che possono anche trasformare radicalmente i nostri abitudinari modi ideologici (e mentali) di intendere e capire la realtà della politica, dei partiti e degli uomini politici; di saper leggere e interpretare, in sostanza, la società cambiando opinione – perché no, mettendo fra parentesi i nostri pregiudizi ed evitando di ricorrere al trasformismo come sinonimo di malcostume e paradigma dei voltagabbana dai connotati camaleontici. Il cosiddetto trasformismo è anche questo, ma non è solo questo. Nasconde spesso coscienziosi mutamenti di opinioni e assunzioni di responsabilità storicizzate, come suggeriscono i “compromessi storici” e le Grandi Alleanze realizzati fra forze politiche diverse se non alternative.

Aggiungo che il disinteresse verso la “società concreta” è un vizio fatto proprio anche da buona parte dell’attuale giornalismo italiano – in particolare quello schierato – per molti aspetti fazioso sui diritti umani e tuttavia padronale come mai prima d’ora. Un giornalismo, potremmo dire, attento solo alla testata e agli editoriali “nemici”, per attaccarli e delegittimarli in un continuo gioco che sconta la distanza dai fatti nudi e crudi giacché vive in esclusiva sintonia con le proprie convinzioni e con quelle della proprietà.

La società concreta

Le analisi correnti fanno a meno della “società in concreto”, percepita e valutata nei suoi profondi cambiamenti, nelle sue ancora sconosciute trasformazioni, nelle sue “metamorfosi”, come le definisce Bergoglio con un termine forte che fa pensare e riflettere molto. Ma è anche assente la voglia di “costruire” (il nuovo) e non di “ri-costruire” (il vecchio), come ci raccomanda Sergio Mattarella.

Siamo di fronte a un vizio che disattende alcuni insegnamenti politici fondamentali. Proprio il sociologo Luigi Sturzo, sin dai primi anni del secolo scorso, suggeriva di rivolgere gli sguardi prima di tutto verso la “società concreta e storica” e verso “le forme di socialità” esistenti, e cioè verso il mondo lavorativo reale, ai suoi tempi agrario e artigianale. Occorreva, in altri termini, conoscere la sua composizione, per essere in grado di aggredire le cause del diffuso malessere sociale, nonché i motivi delle crisi economiche, culturali e antropologiche. Secondo Sturzo, senza questa piena e responsabile presa di coscienza qualunque discorso rimaneva privo di concretezza. D'altro lato è stato il Concilio a raccomandare di aprire sempre gli occhi verso “i segni dei tempi”, per poter discernere bene la storia e cercare così di capire la società nella quale si e immersi e si vive.

Mi limito, in conclusione, a un solo esempio per far capire la differenza tra il dito e la luna. Noi verso il Movimento 5 Stelle abbiamo usato e usiamo espressioni generiche e precostituite. Le ho adoperate e forse continuo ad adoperarle anch’io. Se però leggiamo con attenzione le ricerche dell’istituto Cattaneo, scopriamo che l’identità dell’elettorato pentastellato scuote alcuni consolidati stereotipi. È un elettorato – ci dicono le statistiche – formato per il 56,9% da operai e liberi professionisti: esattamente 29,5 % operai e 27,4 % liberi professionisti. Inoltre, il 39,7% è costituito da credenti non partecipanti e praticanti: anche qui, per l’esattezza, 24,4% sono i credenti non partecipanti e 15,3% i praticanti. E ancora, il 34,5% proviene da PD e IdV, mentre il 5,1% da UDC. Solo il 6,7% si definisce di destra. La domanda allora è scontata: perché questi dati? Perché forse – ma solo forse – sono gli elementi decisivi che ci spingono a comprendere più in radice quello che è successo negli ultimi anni nei partiti, nel substrato culturale dell’elettorato e nell’andamento dei flussi di voto.

Non basta adagiarsi sulle classificazioni di comodo.

(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)


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