Non può essere lasciato passare sotto silenzio lo scambio di opinioni intercorso sulle pagine de Il Corriere della Sera tra Ernesto Galli della Loggia e Silvio Berlusconi. È in discussione, infatti, la questione del bipolarismo. Questo sistema politico-istituzionale che ha finito per trascinarsi dietro una gestione della cosa pubblica e, persino, dare una particolare impronta culturale alla dialettica politica. Oltre che condizionare, a mio avviso limitare fortemente, le capacità delle classi dirigenti di proseguire lungo la via dello sviluppo del Paese su, cui, nonostante oggettivi limiti, evidenti ritardi e chiare contraddizioni, l’Italia ha progressivamente fatto il proprio dovere dal 1948 in poi. Persino negli ultimi anni della cosiddetta Prima repubblica quando divenne la quarta potenza del mondo industrializzato.
Per ciò che riguarda l’impronta culturale, non possono essere dimenticati alcuni elementi davvero deteriori che il bipolarismo ha introdotto, con l’adozione di linguaggi, posture e atteggiamenti che hanno spesso portato ad una irrimediabile “frattura” tra le parti in gioco e nell’intero Paese. Esattamente andando nella direzione opposta agli auspici di Aldo Moro il quale ha sempre operato perché le divisioni non fossero mai portate alle estreme conseguenze, a fronte della storica oggettiva gracilità della società italiana e delle tante divisioni che tuttora permangono nel tessuto civile.
C’è da chiedersi quanto quello che, comunque lo si giudichi, fu il successo dell’Italia intera dal ’45 al ’90, abbia poi finito per scatenarci contro molta più concorrenza, se non addirittura organizzata ostilità. Persino da parte di coloro che erano, e restano, nostri alleati europei. Lo si è concretamente visto con la distruzione della nostra industria chimica, con la ristrutturazione del sistema bancario, con la perdita di tante posizioni italiane del sistema del Made in Italy, oggi in gran parte Made… in qualche altra parte, e di quello della grande distribuzione. Ancora registriamo gli attacchi al sistema delle assicurazioni italiane e, persino, a quello radio televisivo, e la fortissima concorrenza per la nostra industria meccanica, seconda solamente a quella della Germania.
Ma queste questioni sono molto più complesse di quanto non sia il parlare dell’assetto politico che l’Italia si è data dopo i primi anni ’90. Senza ombra di dubbio, c’è chi all’estero ha finito per guadagnarci da uno scombussolamento della portata di quello che ebbe il passaggio dalla Prima repubblica alla Seconda, a proposito del quale molti oggi debbono dubitare sul fatto che, in realtà, una “seconda” migliore della prima ci sia in effetti stata.
Ad oltre un quarto di secolo dalla nascita del bipolarismo, operazione a freddo, compiuta sulla base di un assioma che non è stato possibile verificare, e che cioè si potesse avere d’emblée la governabilità, il dibattito tra Berlusconi e Galli della Loggia spinge inevitabilmente a riflettere sui limiti di un’esperienza che, a rigor di logica, non dovrebbe essere ricordata tra le più felici tra quelle inanellate dal Paese. Se solo si prendono le classifiche mondiali che contano e si va a vedere la posizione occupata oggi dallo Scarpone proteso nel Mediterraneo. Mentre i nostri più diretti concorrenti/ alleati europei sono rimasti ai vertici, noi siamo stati scavalcati da moltissimi altri paesi, quelli che un tempo erano considerati solamente emergenti.
Leggendo gli interventi cui mi riferisco, si ha la conferma di trovarci dinanzi a due analisi fatte da chi conosce bene le dinamiche della sovrastruttura politica italiana. Galli della Loggia perché da sempre fa il politologo. Silvio Berlusconi perché, nonostante le sue iniziali rimostranze, ha finito per essere uno dei protagonisti assoluti di quello che partì con il definire il “teatrino della politica”.
La questione è quella della costituzione di un “centro”, a proposito della quale l’editorialista del Corriere fa riferimento al ruolo avuto da quel “centro” politico della cui esistenza la Repubblica ha goduto per i primi 50 anni della propria vita: in realtà, un vero e proprio baricentro, essenziale e vitale perno attorno cui fu possibile sostenere la fase di crescita più continua e consistente conosciuta dall’Italia.
Galli della Loggi cerca d’invogliare in tal senso Berlusconi ricordandogli che, così facendo, cioè partecipando oggi alla creazione del “centro”, egli potrebbe persino liberarsi, finalmente, da quella prigionia in cui è stato costretto a restringersi per vari motivi. Quelli che vanno dalla sua posizione ” proprietaria”, ai vasti interessi connessi e alla conseguente ricerca di una “legislazione a suo personale vantaggio”. Insomma, dopo aver riconosciuto l’errore compiuto, ” il bipolarismo non fa per noi” ( gli italiani, ndr ), Galli della Loggia invita Silvio Berlusconi a giungere alla stessa conclusione e a partecipare all’avvio di una nuova stagione politica nazionale.
Il capo di Forza Italia risponde senza raccogliere l’invito. Anzi, ribadisce di giudicare “certamente imperfetto” il bipolarismo italiano, ma di considerarlo ” un grande passo avanti verso la democrazia compiuta”. Lo contrappone ai 50 anni precedenti, da lui definiti “sostanzialmente privi di ricambio della classe dirigente”.
Un’affermazione che potrebbe essere facilmente corretta anche solo restando nell’analisi delle dinamiche della sovrastruttura politica. In quei 50 anni, infatti, si passò dal governo di coalizione del Cnl, ai governi di centrodestra, a quelli che prepararono il Centro Sinistra, ai tanti esecutivi del Centro Sinistra, fino a quelli per la cui formazione fu fondamentale istaurare una qualche forma di dialettica con il Pci, cresciuto costantemente fino al delitto Moro.
Non è vero che non ci fu ricambio della classe dirigente. Cosa che non riguardò solamente la Dc, la quale vide numerosi personaggi primeggiare in relazione ai mutamenti politici che intervenivano, perché sollecitati dall’evolvere delle condizioni economiche sociali e del quadro internazionale ed europeo. Non furono di poco conto neppure le sostituzioni avvenute nel Psi e nel Pci di quei loro gruppi dirigenti nati durante il Fascismo e la Resistenza. Certo, se si guarda solo alle sigle dei partiti coinvolti nelle vicende italiane, dal dopoguerra agli anni ’90, questa riflessione riduttiva potrebbe avere un significato, ma non è solamente alle sigle ufficiali che si deve guardare.
Berlusconi, per giustificare la continuità del suo pensare, e quindi sottrarsi ad una richiesta di assunzione di responsabilità, che superi con generosità ciò che lo ha mosso per oltre 25 anni, finisce addirittura per “sterilizzare” e ridurre il significato che ha l’esperienza del governo Draghi. Se è vero, come scrive il leader di Forza Italia, che esso “nasce in circostanze eccezionali e non esprime una formula politica per il futuro”, è altrettanto vero che esso indica la possibilità di un potenziale avvio di una “trasformazione” del sistema politico italiano visto che si sono create tutte le condizioni per provare a superare sia i limiti oggettivi della Prima repubblica, sia quelli della stagione del “bipolarismo”. Berlusconi, così facendo, evita di riconoscere che l’esperienza Draghi nasce proprio sulle ceneri del fallimento della formula politica che ha caratterizzato gli ultimi 25 anni e costretto l’Italia nella cintura di forza della mera contrapposizione tra solo due ipotesi alternative. La chiamata di Draghi a Palazzo Chigi è proprio la registrazione della fine di un intero ciclo politico, quello del bipolarismo.
Berlusconi continua a proporre, invece, un’idea astratta del bipolarismo, pur precisando di non vederlo come ” una guerra tribale nella quale l’avversario sia delegittimato, demonizzato e se possibile distrutto. Significa al contrario un sistema maturo nel quale il senso dello Stato e della comune responsabilità istituzionale unisce i due schieramenti”. Il capo di Forza Italia, dimostra la mancanza di una riflessione sulle dinamiche interne al corpo pubblico, sulle compressioni di parti importanti dell’economia e della società, sulla distruzione del ruolo delle categorie intermedie e, per ciò che concerne il piano istituzionale, sull’assoluto disequilibrio che esiste tra parti del Paese rispetto ad altre. Sembra ignorare la considerazione che una postura bipolare non ricuce, non include e non ricompone un’Italia che ha bisogno, invece, di ricomposizione.
Berlusconi parla della sua leadership continuando a restringerne la visione alla questione dei rapporti interni alla coalizione di cui sembra, a dispetto di tutto, voler continuare a fare parte. Cioè quella del centrodestra. Forse senza portare alla pienezza del ragionamento necessario la constatazione che gli equilibri, a partire da quelli europei, sono completamente cambiati. Equilibri che potrebbero far trovare l’Italia del tutto dissonante dal contesto internazionale, visto che la realtà vera oggi torna a farci parlare di destra, e di che destra!, cui resta attaccato un piccolo pezzetto di centro: quello che Berlusconi intende rappresentare, ma, si può dire?, in modo sempre meno incisivo e sempre più marginale.
Berlusconi, però, si rende conto di essere partecipe di una coalizione posticcia quando scrive: “naturalmente ( il centrodestra, ndr) comprende forze molto diverse da noi, per cultura, tradizioni e stile politico, ma ciò non è affatto in contraddizione con il bipolarismo né lo sarebbe con il bipartitismo, se un giorno arriveremo — come auspico — al partito unico del centro-destra”. In poche parole, rovescia la questione: sì al bipolarismo, ma solamente perché è funzionale a tenere assieme cose che fra di loro, altrimenti, assieme non potrebbero stare.
Così, Silvio Berlusconi riduce la questione del “centro” alla strumentale idea “dei due forni”. Una politica che, ammesso che ci sia mai stata in Italia, era concepibile solamente in uno schema vecchio della società italiana. Oggi il quadro sociologico, il mondo del lavoro, le attività produttive, commerciali e di prestazioni di servizi sono completamente trasformate e questo richiede un’analisi e una capacità di presenza diversa se davvero si aspira ad esprimere un’autentica leadership e non restare solo uno dei tanti attori presenti sul palcoscenico del “teatrino della politica”.
Paradossalmente, proprio quando si avvertono i risultati negativi di decenni di “antipolitica”, il cui sbocco sono stati i tanto criticati populismo e sovranismo, c’è più bisogno di partiti espressioni di qualche idea “forte” e di organiche proposte programmatiche, piuttosto che della formazione di coalizioni che servono a coprire solo la mancanza di una visione progettuale… quella che manca al Paese.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Per ciò che riguarda l’impronta culturale, non possono essere dimenticati alcuni elementi davvero deteriori che il bipolarismo ha introdotto, con l’adozione di linguaggi, posture e atteggiamenti che hanno spesso portato ad una irrimediabile “frattura” tra le parti in gioco e nell’intero Paese. Esattamente andando nella direzione opposta agli auspici di Aldo Moro il quale ha sempre operato perché le divisioni non fossero mai portate alle estreme conseguenze, a fronte della storica oggettiva gracilità della società italiana e delle tante divisioni che tuttora permangono nel tessuto civile.
C’è da chiedersi quanto quello che, comunque lo si giudichi, fu il successo dell’Italia intera dal ’45 al ’90, abbia poi finito per scatenarci contro molta più concorrenza, se non addirittura organizzata ostilità. Persino da parte di coloro che erano, e restano, nostri alleati europei. Lo si è concretamente visto con la distruzione della nostra industria chimica, con la ristrutturazione del sistema bancario, con la perdita di tante posizioni italiane del sistema del Made in Italy, oggi in gran parte Made… in qualche altra parte, e di quello della grande distribuzione. Ancora registriamo gli attacchi al sistema delle assicurazioni italiane e, persino, a quello radio televisivo, e la fortissima concorrenza per la nostra industria meccanica, seconda solamente a quella della Germania.
Ma queste questioni sono molto più complesse di quanto non sia il parlare dell’assetto politico che l’Italia si è data dopo i primi anni ’90. Senza ombra di dubbio, c’è chi all’estero ha finito per guadagnarci da uno scombussolamento della portata di quello che ebbe il passaggio dalla Prima repubblica alla Seconda, a proposito del quale molti oggi debbono dubitare sul fatto che, in realtà, una “seconda” migliore della prima ci sia in effetti stata.
Ad oltre un quarto di secolo dalla nascita del bipolarismo, operazione a freddo, compiuta sulla base di un assioma che non è stato possibile verificare, e che cioè si potesse avere d’emblée la governabilità, il dibattito tra Berlusconi e Galli della Loggia spinge inevitabilmente a riflettere sui limiti di un’esperienza che, a rigor di logica, non dovrebbe essere ricordata tra le più felici tra quelle inanellate dal Paese. Se solo si prendono le classifiche mondiali che contano e si va a vedere la posizione occupata oggi dallo Scarpone proteso nel Mediterraneo. Mentre i nostri più diretti concorrenti/ alleati europei sono rimasti ai vertici, noi siamo stati scavalcati da moltissimi altri paesi, quelli che un tempo erano considerati solamente emergenti.
Leggendo gli interventi cui mi riferisco, si ha la conferma di trovarci dinanzi a due analisi fatte da chi conosce bene le dinamiche della sovrastruttura politica italiana. Galli della Loggia perché da sempre fa il politologo. Silvio Berlusconi perché, nonostante le sue iniziali rimostranze, ha finito per essere uno dei protagonisti assoluti di quello che partì con il definire il “teatrino della politica”.
La questione è quella della costituzione di un “centro”, a proposito della quale l’editorialista del Corriere fa riferimento al ruolo avuto da quel “centro” politico della cui esistenza la Repubblica ha goduto per i primi 50 anni della propria vita: in realtà, un vero e proprio baricentro, essenziale e vitale perno attorno cui fu possibile sostenere la fase di crescita più continua e consistente conosciuta dall’Italia.
Galli della Loggi cerca d’invogliare in tal senso Berlusconi ricordandogli che, così facendo, cioè partecipando oggi alla creazione del “centro”, egli potrebbe persino liberarsi, finalmente, da quella prigionia in cui è stato costretto a restringersi per vari motivi. Quelli che vanno dalla sua posizione ” proprietaria”, ai vasti interessi connessi e alla conseguente ricerca di una “legislazione a suo personale vantaggio”. Insomma, dopo aver riconosciuto l’errore compiuto, ” il bipolarismo non fa per noi” ( gli italiani, ndr ), Galli della Loggia invita Silvio Berlusconi a giungere alla stessa conclusione e a partecipare all’avvio di una nuova stagione politica nazionale.
Il capo di Forza Italia risponde senza raccogliere l’invito. Anzi, ribadisce di giudicare “certamente imperfetto” il bipolarismo italiano, ma di considerarlo ” un grande passo avanti verso la democrazia compiuta”. Lo contrappone ai 50 anni precedenti, da lui definiti “sostanzialmente privi di ricambio della classe dirigente”.
Un’affermazione che potrebbe essere facilmente corretta anche solo restando nell’analisi delle dinamiche della sovrastruttura politica. In quei 50 anni, infatti, si passò dal governo di coalizione del Cnl, ai governi di centrodestra, a quelli che prepararono il Centro Sinistra, ai tanti esecutivi del Centro Sinistra, fino a quelli per la cui formazione fu fondamentale istaurare una qualche forma di dialettica con il Pci, cresciuto costantemente fino al delitto Moro.
Non è vero che non ci fu ricambio della classe dirigente. Cosa che non riguardò solamente la Dc, la quale vide numerosi personaggi primeggiare in relazione ai mutamenti politici che intervenivano, perché sollecitati dall’evolvere delle condizioni economiche sociali e del quadro internazionale ed europeo. Non furono di poco conto neppure le sostituzioni avvenute nel Psi e nel Pci di quei loro gruppi dirigenti nati durante il Fascismo e la Resistenza. Certo, se si guarda solo alle sigle dei partiti coinvolti nelle vicende italiane, dal dopoguerra agli anni ’90, questa riflessione riduttiva potrebbe avere un significato, ma non è solamente alle sigle ufficiali che si deve guardare.
Berlusconi, per giustificare la continuità del suo pensare, e quindi sottrarsi ad una richiesta di assunzione di responsabilità, che superi con generosità ciò che lo ha mosso per oltre 25 anni, finisce addirittura per “sterilizzare” e ridurre il significato che ha l’esperienza del governo Draghi. Se è vero, come scrive il leader di Forza Italia, che esso “nasce in circostanze eccezionali e non esprime una formula politica per il futuro”, è altrettanto vero che esso indica la possibilità di un potenziale avvio di una “trasformazione” del sistema politico italiano visto che si sono create tutte le condizioni per provare a superare sia i limiti oggettivi della Prima repubblica, sia quelli della stagione del “bipolarismo”. Berlusconi, così facendo, evita di riconoscere che l’esperienza Draghi nasce proprio sulle ceneri del fallimento della formula politica che ha caratterizzato gli ultimi 25 anni e costretto l’Italia nella cintura di forza della mera contrapposizione tra solo due ipotesi alternative. La chiamata di Draghi a Palazzo Chigi è proprio la registrazione della fine di un intero ciclo politico, quello del bipolarismo.
Berlusconi continua a proporre, invece, un’idea astratta del bipolarismo, pur precisando di non vederlo come ” una guerra tribale nella quale l’avversario sia delegittimato, demonizzato e se possibile distrutto. Significa al contrario un sistema maturo nel quale il senso dello Stato e della comune responsabilità istituzionale unisce i due schieramenti”. Il capo di Forza Italia, dimostra la mancanza di una riflessione sulle dinamiche interne al corpo pubblico, sulle compressioni di parti importanti dell’economia e della società, sulla distruzione del ruolo delle categorie intermedie e, per ciò che concerne il piano istituzionale, sull’assoluto disequilibrio che esiste tra parti del Paese rispetto ad altre. Sembra ignorare la considerazione che una postura bipolare non ricuce, non include e non ricompone un’Italia che ha bisogno, invece, di ricomposizione.
Berlusconi parla della sua leadership continuando a restringerne la visione alla questione dei rapporti interni alla coalizione di cui sembra, a dispetto di tutto, voler continuare a fare parte. Cioè quella del centrodestra. Forse senza portare alla pienezza del ragionamento necessario la constatazione che gli equilibri, a partire da quelli europei, sono completamente cambiati. Equilibri che potrebbero far trovare l’Italia del tutto dissonante dal contesto internazionale, visto che la realtà vera oggi torna a farci parlare di destra, e di che destra!, cui resta attaccato un piccolo pezzetto di centro: quello che Berlusconi intende rappresentare, ma, si può dire?, in modo sempre meno incisivo e sempre più marginale.
Berlusconi, però, si rende conto di essere partecipe di una coalizione posticcia quando scrive: “naturalmente ( il centrodestra, ndr) comprende forze molto diverse da noi, per cultura, tradizioni e stile politico, ma ciò non è affatto in contraddizione con il bipolarismo né lo sarebbe con il bipartitismo, se un giorno arriveremo — come auspico — al partito unico del centro-destra”. In poche parole, rovescia la questione: sì al bipolarismo, ma solamente perché è funzionale a tenere assieme cose che fra di loro, altrimenti, assieme non potrebbero stare.
Così, Silvio Berlusconi riduce la questione del “centro” alla strumentale idea “dei due forni”. Una politica che, ammesso che ci sia mai stata in Italia, era concepibile solamente in uno schema vecchio della società italiana. Oggi il quadro sociologico, il mondo del lavoro, le attività produttive, commerciali e di prestazioni di servizi sono completamente trasformate e questo richiede un’analisi e una capacità di presenza diversa se davvero si aspira ad esprimere un’autentica leadership e non restare solo uno dei tanti attori presenti sul palcoscenico del “teatrino della politica”.
Paradossalmente, proprio quando si avvertono i risultati negativi di decenni di “antipolitica”, il cui sbocco sono stati i tanto criticati populismo e sovranismo, c’è più bisogno di partiti espressioni di qualche idea “forte” e di organiche proposte programmatiche, piuttosto che della formazione di coalizioni che servono a coprire solo la mancanza di una visione progettuale… quella che manca al Paese.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
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