I sentimenti che animano l’immaginario collettivo, come deposito di una sapienza condivisa, spesso non coincidono con le leggi e le norme che si applicano ai fatti giudiziari, ai fuoripista della politica, al pentitismo postumo e all’oblio. Restano nella memoria popolare i fatti di cronaca, siano essi riferiti a delitti ritenuti efferati al momento della loro attuazione e poi inglobati e attenuati nel grande contenitore del tempo che passa, dove chiodo schiaccia chiodo, siano invece riconducibili a ripensamenti rispetto a sbandierate espressioni di intransigenza assunte nel nome della coerenza morale ma spesso declinate a mere opportunità elettorali, per fare man bassa di consensi gettando fango sugli avversari politici.
In questi giorni di attenuazione della preoccupazione sulla pandemia e di auspicata ripresa delle salvifiche abitudini quotidiane di un’epoca che sembrava non ritornare, abbiamo prestato maggiore attenzione ad alcuni eventi che ci hanno riportano anni indietro.
La scarcerazione di Giovanni Brusca, cui vengono attribuiti circa 150 omicidi tra cui le vittime della strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Falcone e parte della scorta e lo scioglimento nell’acido di un bambino innocente, ha suscitato lo scalpore che francamente la notizia merita. Venticinque anni di carcere sono parsi a molti riduttivi rispetto ai crimini commessi e ci si è interrogati – non senza laceranti conflitti interiori- sulla compatibilità e sulla “giustizia” della normativa per i collaboratori di giustizia “pentiti”, con l’efferatezza dei delitti. C’è un rituale anche per queste vicende di morte, di colpevoli e di vittime: il dolore e lo sgomento del fatto, i palloncini liberati al cielo (specie, lo si noti, per femminicidi e minoricidi), l’esecrazione rinnovata ad ogni ricorrenza, alternata ad un oblio prevalente, la certezza della pena sistematicamente ridiscussa da pentitismi postumi, un’impunità diffusa, da un buonismo di maniera e dall’auspicata redenzione del reo.
La pena estingue il reato, è vero: a condizione che sia congrua rispetto al crimine.
Ma morti, bombe, vittime e loro familiari restano sullo sfondo come le tavole di pietra dove sono scolpiti i dieci comandamenti, per i quali si deve rispondere alla giustizia umana, a quella divina e a quella speranza che spinge il mondo e che si chiama civiltà. Senza contare che leggi speciali e sconti di pena per collaborazioni tardive spesso portano a comparare le disparità di trattamento, in termini di pene e sanzioni, con delitti di minore rilevanza per il codice penale e per la stessa coscienza morale e civile.
Non dobbiamo dimenticare gli anni della Resistenza e della lotta di liberazione – ci viene sempre ricordato – ma non possiamo chiudere un occhio di fronte a reati la cui avversione dovremmo insegnare nelle scuole.
Nella legislazione sul pentitismo e lo sconto di pena non si tiene conto delle ferite non rimarginabili che restano nella storia, nella memoria condivisa e cozzano con durezza contro i principi etici che vogliamo tramandare alle giovani generazioni.
Anche se totalmente diverso e decisamente incomparabile al precedente esempio, il ripensamento di un Ministro della Repubblica verso la “gogna mediatica” usata in passato come strumento per acquisire consensi, è stato salutato come un gesto d’onore: in sé lo è davvero ma non cancella il passato.
Chi voleva l’impeachment di Mattarella, si sottraeva al confronto e al dialogo e voleva aprire il Parlamento come una scatola di sardine ha legato le proprie fortune politiche alla sistematica demonizzazione degli avversari: sorprendono le giravolte tattiche che riguardano la considerazione delle istituzioni e delle persone, cercano attenuanti ai limiti del doppio mandato e si aprono ad alleanze un tempo demonizzate come il male assoluto, rimuovono radici e legami di giuramenti un tempo indissolubili.
Invochiamo spesso il valore della memoria senza accorgerci che diventa corta e interessata, selettiva e assoggettata a quello che chiamiamo il diritto all’oblio.
La violenza, come scelta del male sul bene, sia essa fisica o simbolica non può essere rimossa confidando sul perdono concesso in uno stato di grazia e di ripensamento.
Restano cicatrici che senza suscitare sentimenti di vendetta ci ricordano che il coraggio della conversione va misurato con la coerenza tra passato, presente e futuro.
In questi giorni di attenuazione della preoccupazione sulla pandemia e di auspicata ripresa delle salvifiche abitudini quotidiane di un’epoca che sembrava non ritornare, abbiamo prestato maggiore attenzione ad alcuni eventi che ci hanno riportano anni indietro.
La scarcerazione di Giovanni Brusca, cui vengono attribuiti circa 150 omicidi tra cui le vittime della strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Falcone e parte della scorta e lo scioglimento nell’acido di un bambino innocente, ha suscitato lo scalpore che francamente la notizia merita. Venticinque anni di carcere sono parsi a molti riduttivi rispetto ai crimini commessi e ci si è interrogati – non senza laceranti conflitti interiori- sulla compatibilità e sulla “giustizia” della normativa per i collaboratori di giustizia “pentiti”, con l’efferatezza dei delitti. C’è un rituale anche per queste vicende di morte, di colpevoli e di vittime: il dolore e lo sgomento del fatto, i palloncini liberati al cielo (specie, lo si noti, per femminicidi e minoricidi), l’esecrazione rinnovata ad ogni ricorrenza, alternata ad un oblio prevalente, la certezza della pena sistematicamente ridiscussa da pentitismi postumi, un’impunità diffusa, da un buonismo di maniera e dall’auspicata redenzione del reo.
La pena estingue il reato, è vero: a condizione che sia congrua rispetto al crimine.
Ma morti, bombe, vittime e loro familiari restano sullo sfondo come le tavole di pietra dove sono scolpiti i dieci comandamenti, per i quali si deve rispondere alla giustizia umana, a quella divina e a quella speranza che spinge il mondo e che si chiama civiltà. Senza contare che leggi speciali e sconti di pena per collaborazioni tardive spesso portano a comparare le disparità di trattamento, in termini di pene e sanzioni, con delitti di minore rilevanza per il codice penale e per la stessa coscienza morale e civile.
Non dobbiamo dimenticare gli anni della Resistenza e della lotta di liberazione – ci viene sempre ricordato – ma non possiamo chiudere un occhio di fronte a reati la cui avversione dovremmo insegnare nelle scuole.
Nella legislazione sul pentitismo e lo sconto di pena non si tiene conto delle ferite non rimarginabili che restano nella storia, nella memoria condivisa e cozzano con durezza contro i principi etici che vogliamo tramandare alle giovani generazioni.
Anche se totalmente diverso e decisamente incomparabile al precedente esempio, il ripensamento di un Ministro della Repubblica verso la “gogna mediatica” usata in passato come strumento per acquisire consensi, è stato salutato come un gesto d’onore: in sé lo è davvero ma non cancella il passato.
Chi voleva l’impeachment di Mattarella, si sottraeva al confronto e al dialogo e voleva aprire il Parlamento come una scatola di sardine ha legato le proprie fortune politiche alla sistematica demonizzazione degli avversari: sorprendono le giravolte tattiche che riguardano la considerazione delle istituzioni e delle persone, cercano attenuanti ai limiti del doppio mandato e si aprono ad alleanze un tempo demonizzate come il male assoluto, rimuovono radici e legami di giuramenti un tempo indissolubili.
Invochiamo spesso il valore della memoria senza accorgerci che diventa corta e interessata, selettiva e assoggettata a quello che chiamiamo il diritto all’oblio.
La violenza, come scelta del male sul bene, sia essa fisica o simbolica non può essere rimossa confidando sul perdono concesso in uno stato di grazia e di ripensamento.
Restano cicatrici che senza suscitare sentimenti di vendetta ci ricordano che il coraggio della conversione va misurato con la coerenza tra passato, presente e futuro.
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