Il PNRR tra debito e sviluppo



Francesco Poggi    7 Giugno 2021       3

Il nostro sistema economico è giunto ad un bivio decisivo, certamente epocale. Da anni si discute di sviluppo e di debito, ma con una scarsa efficacia politica e una debole attitudine alla innovazione teorica degli strumenti. Il contingente passaggio continentale del Next generation Eu potrebbe finalmente obbligare economisti e politici a rivedere le basi stesse del sistema su cui è organizzata la nostra economia. Ora o mai più.

Il primo tema è quello dello sviluppo. II Next Generation EU (NGEU), è uno strumento per il rilancio dell’economia Ue, incorporato in un bilancio settennale 2021-2027 del valore di circa 1.800 miliardi di euro (i 750 di NGEU più gli oltre 1000 miliardi a budget). Il nome scelto rievoca un piano proiettato, appunto, sulle nuove generazioni della UE, ma col tempo si è finita per creare una certa confusione terminologica sull’argomento, fra una serie di termini che si sovrappongono fra loro: Next Generation EU, Recovery fund, Recovery plan, Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Cerchiamo di fare un po’ d’ordine.

Il primo è il piano per il rilancio UE da 750 miliardi. Viene spesso chiamato con l’etichetta, sbagliata, di Recovery fund, ereditata dal progetto embrionale di un Fondo per la Ripresa e, oggi, frutto della sovrapposizione che si crea con il Recovery e resiliency facility (programma cardine del NGEU con la sua dotazione di 672,5 miliardi di euro, spartiti fra 360 miliardi di prestiti e 312,5 miliardi di sovvenzioni). Si chiama così perché l’obiettivo è di stimolare investimenti che spingano alla ripresa (recovery) e riforme che aumentino la sostenibilità delle singole economie europee, rendendole più “resilienti” ai cambiamenti che incombono negli anni di ripresa dalla crisi del Covid (resiliency).

Infine, ci sono i Recovery and resiliency plans, in italiano Piani nazionali di ripresa e resilienza (o PNRR): come abbiamo visto, i piani che i vari Paesi devono sottoporre a Bruxelles per spiegare come e dove spenderanno i soldi in arrivo dalla UE. I singoli piani nazionali dovranno rispettare dei criteri predefiniti, concentrando progetti di investimento e spesa su alcune flagship areas, aree di punta: energie pulite e rinnovabili, efficienza energetica degli edifici, trasporti sostenibili, dispiegamento di banda larga, digitalizzazione della PA, sviluppo del cloud e dei processori sostenibili, istruzione e formazione per le cosiddette skills digitali.

Come è facile intuire, la Commissione dà priorità assoluta a digitale e transizione ecologica, destinatarie di un tetto minimo di spesa nei piani nazionali: ogni Stato deve indirizzare almeno il 37% della spesa a questioni climatiche e almeno il 20% al potenziamento della transizione digitale. Il piano va ad impattare il ciclo economico attuale e il PIL potenziale. L’obiettivo di Next Generation EU è quello, esplicito, di rimettere in moto l’economia continentale.

Il secondo tema sul tavolo è quello del debito. L’emissione di debito comune risalta come una svolta epocale all’interno delle vecchie logiche UE. Ma potrebbe diventare anche causa di fratture più profonde in futuro.

Un motivo di dissidio potrà riguardare il come i singoli Paesi decideranno di investire le risorse ricevute, creando tensioni. Alla base il divario (crescente) tra il livello di debito nel Nord e nel Sud Europa. In relazione al debito si possono identificare tre principali gruppi.

Il primo è quello dei Paesi che hanno portato il deficit nel 2020 a livelli superiori al 10% del PIL. Sono quattro e tutti extra UE (Usa, Israele, Giappone e UK).

Il secondo gruppo comprende Paesi con un deficit intorno al 10%. Qui si colloca l’Italia, insieme ad altri Paesi mediterranei (Francia, Spagna, Grecia).

Il terzo gruppo comprende Paesi con deficit molto più bassi, tra il 3 ed il 6%. Svizzera, Corea del Sud, e tutti i Paesi nordici (Germania, Svezia, Olanda ecc.).

Queste differenze tra gruppi di Paesi riflettono tre circostanze. Primo, il punto di partenza. Paesi che già prima della crisi avevano un deficit basso o, come Germania e Olanda, erano in surplus, hanno retto meglio lo shock. Secondo, la caduta del PIL. Dove il Pil è caduto di più le entrate dello Stato hanno maggiormente sofferto e la spesa è aumentata più rapidamente. Terzo, vanno considerati i fattori culturali, per cui la Germania, anche per le drammatiche esperienze degli anni Trenta, è stata sempre molto prudente.

Ma, qualunque siano le cause, il diverso andamento del deficit pubblico nel 2020 e, come previsto dal FMI, nel 2021, alimenterà una maggiore divergenza tra i debiti pubblici dei vari Paesi. Tale divergenza potrebbe diventare problematica particolarmente nell’area Euro. Nel biennio, il FMI prevede un aumento del debito di 9 punti, nella media, per Finlandia, Germania e Olanda, contro 21 punti per Francia, Italia, Spagna e Grecia. Questi andamenti proseguirebbero negli anni successivi.

La domanda quindi è cosa accadrà al rapporto tra il debito italiano e quello tedesco, al suo divario ed allo spread conseguente (nel 2024 si prevede un debito al 62% per la Germania contro il 154% per l’Italia). Una divaricazione che si ripeterà sul rapporto tra Paesi del Nord e Paesi del Sud Europa e che renderà molto difficile trovare un accordo su come modificare (e se farlo) le regole del patto di stabilità. Ma il problema maggiore riguarderà la vulnerabilità dei Paesi più deboli a un aumento dei tassi di interesse che potrà presentarsi in presenza di un probabile aumento dell’inflazione media dell’area. Che poi non è altro che il primo obiettivo della BCE (2%), ad oggi irrealizzato nonostante il fiume di denaro immesso sul mercato.

I Paesi che, come la Germania, sembrano avviarsi verso una soluzione anticipata della crisi, potrebbero spingere per un aumento dei tassi di interesse, con poche preoccupazioni per i suoi effetti sul proprio debito, già modesto. Per i Paesi del Sud invece le conseguenze sarebbero molto pesanti. Se è vero che il recente aumento del debito è stato acquistato dalla BCE e quindi non tocca i bilanci pubblici, è vero anche che con l’aumento probabile dell’inflazione la stessa BCE potrebbe essere costretta a ridurre la detenzione di tali titoli per riassorbire la liquidità creata in eccesso. Un aumento dell’inflazione e quindi dei tassi di interesse potrà gravare in modo anche più rilevante che in passato sul debito dei diversi Paesi e generare tensioni crescenti.

I Paesi del Sud, in primis l’Italia, saranno costretti a intervenire per rilanciare stabilmente la crescita del PIL e delle entrate per riportare in ordine i conti pubblici. Da qui l’importanza del prossimo PNRR. Nel frattempo, oltre 100 economisti europei hanno lanciato un appello per la cancellazione del debito detenuto dalla BCE, con tra i firmatari Thomas Piketty ed il nostro Leonardo Becchetti. Questa “monetizzazione del debito” (attraverso la pura cancellazione o, in alternativa, con la trasformazione in titoli perpetui) seguirebbe anni di “quantitative easing” che ha portato il 25% circa dei debiti pubblici in mano alla BCE. A fronte di questo provvedimento, i firmatari chiedono che ai debiti cancellati corrispondano investimenti di pari ammontare, affiancando e armonizzando politica monetaria e politica fiscale, in similitudine con le strategie già adottate da USA e Giappone.

Dubbi ? Quelli di sempre. Intanto, il rapporto tra Paesi e mercati, con il già citato rischio tassi e inflazione. In secondo luogo, il motivo del “precedente”. Se lo si cancella una volta lo si potrà rivendicare anche in seguito. In terzo luogo, il delicato rapporto tra Pesi “virtuosi” e “viziosi”. Questi ultimi potrebbero avere meno stimoli al cambiamento delle proprie abitudini di spesa, nonostante le reiterate promesse di riforme (caso italiano). Ancora, il rischio perdita di credibilità e indipendenza della Banca Centrale da un lato e la debolezza di una struttura a 27 governi con ancora troppe differenze sostanziali tra loro (USA e Giappone agiscono su un unico piano di governo e di politica fiscale). Si potrà rispondere a questi dubbi con un argomento di mediazione: limitare l’annullamento ai soli debiti Covid, seguendo la logica della suddivisione delle risorse del Recovery ed evitando di renderlo universale.

Per chiudere, il futuro dell’Europa si gioca sui due binari del Next e della collegata gestione del debito. Ma basterà? Assolutamente no.

Riproporre acriticamente le stesse logiche teoriche ed operative del passato potrà alla lunga, inficiare l’enorme potenziale di questa operazione. Serve una mutazione alle fondamenta del paradigma di mercato. Cosa si intende per sviluppo, green, sostenibilità ? Non basta una sverniciata sui vecchi colori sbiaditi. I maggiori inquinatori degli ultimi decenni (settori chimici e farmaceutici, auto, petrolifero, energia ecc.) stanno rifacendosi una verginità con le nuove parole d’ordine: tutto ora è sostenibile! In realtà, ciò non basta o può essere addirittura controproducente (perché semplicemente di facciata). È invece necessaria una mutazione, non una semplice riforma del sistema ma una sua profonda trasformazione. E se riguardo agli aspetti microeconomici dovremo incidere sulla pelle viva della cultura individuale, rivedendo e ampliando i parametri del modello razionale del comportamento, per gli aspetti macro dovremo entrare nel merito degli stessi obiettivi delle politiche economiche.

I vecchi modelli sono obsoleti. Capitalismo finanziario e socialismo di mercato hanno fallito, senza considerare il Golem totalitario del capitalismo di Stato cinese. Investire questo fiume di denaro, a debito, riproponendo le stesse logiche che hanno caratterizzato l’economia di questi ultimi decenni rischia di ricreare nel tempo le stesse condizioni di crisi di cui abbiamo sperimentato le tremende conseguenze, finanziarie, sociali, climatico-ambientali, migratorie-demografiche. La pandemia ci ha semplicemente dato l’ultimo avviso.

(Tratto da www.politicainsieme.com)


3 Commenti

  1. No tasse. Eliminare i sussidi, elargiti con leggerezza sono diseducativi e creano inflazione!
    Interessi passivi del nostro debito pubblico:
    Decennio 2000-2009 727 miliardi di euro
    Decennio 2010-2019 707 miliardi di euro
    L’Italia è il maggior contribuente della BCE, con un debito pubblico a 2.600 miliardi di euro, siamo l’anodo sacrificale d’Europa La manovra lacrime e sangue di Ciampi e Prodi (colpevole vivente), ci porterà nel baratro. Siamo stati abbindolati ed è giusto aprire un claim. Il PNRR da sono non basta, se si vuole salvare l’economia italiana bisogna fare una sola cosa: ridare valore al potere d’acquisto delle famiglie mediante la rinegoziazione con l’UE del rapporto di cambio lira/euro (valutazione scellerata). Se, infatti, i redditi, dopo vent’anni della moneta unica, non si sono ancora adeguati, e se i tempi di questo adeguamento previsto dagli esperti al massimo in 5 anni, c’è qualcosa che non va e sta accadendo qualcosa di grave e patologico, visto che è da troppi anni che il sistema economico reale del nostro Paese è incompatibile con qualsiasi evidenza scientifica, perché le crisi possono esserci ma i tempi non possono essere così lunghi.
    Il miracolo è possibile, basta risolvere la causa di questa lunga e dannosissima recessione, cioè il gap strutturale tra il valore della moneta e il valore dei redditi in termini di salari e stipendi. Oggi, per esempio, un lavoratore che guadagna mediamente 1.200,00 euro è come se avesse guadagnato circa 2 milioni e 400 mila delle vecchie lire. Intanto, è da tempo che gli esperti dicono che non bisogna fare più questo cambio perché è inutile ed è solo psicologicamente diverso della realtà, visto che la lira non esiste più. Ma questo non può essere vero; il lavoratore è ancora portato a fare il cambio perché il suo reddito non si è adeguato al costo della vita ed è esattamente rimasto ancorato alla sua metà. Quindi, oggi, ogni lavoratore a fronte di un euro guadagnato è come se percepisse duemila lire, ma per acquistare un bene che prima costava duemila lire ora è costretto a spendere due euro, per cui è come se il suo valore si fosse perfettamente dimezzato in termini di spesa e di consumo, e quindi è come se guadagnasse mille lire e non duemila lire. Prima, insomma, tra valore del bene e reddito c’era una perfetta corrispondenza, oggi, invece, a seguito dell’introduzione della moneta unica è diventata imperfetta. Tale imperfezione ed incongruenza ha determinato una forte contrazione dei consumi perché le famiglie, nel corso degli anni, hanno drasticamente perso il loro potere d’acquisto. Nessuno ci aveva detto, però, che per entrare in Europa il potere d’acquisto sarebbe stato dimezzato, il famoso sacrificio degli italiani prevedeva, invece, solo il pagamento di più tasse per entrare nell’unione monetaria. E’ chiaro che l’effetto prodotto è stato strutturale, e ad oggi, nessuno si è posto il problema di rivedere il rapporto di cambio? Negli ultimi anni, l’economia europea ha subito dei profondi cambiamenti e soprattutto è stata afflitta da una lunga stagnazione e recessione, così come quella italiana. Il fattore strutturale che ha scatenato tutto questo, o meglio che ha contribuito in misura maggiore a deprimere il sistema economico nazionale è stato il rapporto di cambio.
    La sfida del Governo è quella di chiedere all’Europa la rinegoziazione del rapporto di cambio perché le categorie sociali, famiglie ed imprenditori in prima battuta, hanno subìto un furto inaccettabile, la perdita del potere d’acquisto originariamente conquistato con i propri sacrifici. L’Europa, se vuole una economia sana e coesa, non può solo intervenire sui problemi di bilancio degli Stati commetterebbe un errore di contabilità pubblica imperdonabile, ma ha il dovere di rispettare il potere d’acquisto che ogni economia riesce ad esprimere. Pertanto, non può non accorgersi che le attività commerciali e tutte le categorie che producono ricchezza non riescono più a garantire i livelli economici prima dell’euro, proprio a causa del cambio scellerato che Romano Prodi e Ciampi hanno accettato in sede europea facendolo passare come sacrificio degli italiani mediante la manovra lacrime e sangue.
    “Con un tasso di conversione a 1.500 lire per un euro, anziché 1.936,27, la lira avrebbe avuto un valore più alto e l’inflazione sarebbe andata addirittura sottozero.

  2. Per l’Ue armonizzare la politica monetaria e fiscale a quella degli Stati Uniti costituisce una necessità. Continuando ad opporvisi, finirà solo per subire le conseguenze della politica economica di Biden. La decisione, cruciale per il futuro dell’Ue, spetterà nei fatti solo al nuovo cancelliere tedesco che uscirà in seguito all’esito delle elezioni politiche di settembre.
    Ben sapendo in ogni caso che senza la scelta strategica di una energia alternativa seria (non le rinnovabili), come l’idrogeno, la fusione a freddo, l’energia wireless di Nikola Tesla o altre la transizione verde potrà essere solo sinonimo di decrescita e immiserimento per il popolo, pura demagogia che rischia di innescare fenomeni sociali non più gestibili.

  3. In riferimento al tema della sostenibilità economica, abbiamo perso il senso della misura, se si vuol salvare il “Pianeta Terra” dal surriscaldamento globale, nei tempi, nei costi e della sicurezza, previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza #Next Generation Italia e lo sviluppo sostenibile 2021, dobbiamo riprendere con maggiore impegno rispetto al passato, la ricerca NT: spaziale con le vele solari, oppure il “Nucleare sicuro”, il sogno degli italiani abbandonato dopo il referendum. Intanto l’energia elettrica in Italia è la più cara in assoluto dei Paesi UE (circa il doppio rispetto alla Germania).
    La nostra politica energetica va ripensata! Le centrali nucleari producono ancora oggi un terzo dell’elettricità d’Europa e che noi acquistiamo dalla Francia e dalla Svizzera. Oggi ci stiamo rendendo conto che con le rinnovabili non riusciremo a risolvere la probabile catastrofe Ecologica per lo scioglimento dei ghiacciai, intanto si continua a bruciare benzina, diesel e CH4, a prezzo molto salato, con l’aggravio della carbon-tax.

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