75 anni di Repubblica



Aldo Novellini    2 Giugno 2021       1

Oggi è il giorno in cui la Repubblica compie settantacinque anni. Una giornata di festa per l'intera comunità nazionale, a ricordare un cammino iniziato con la vittoria al referendum del 2 giugno 1946, quando la larga maggioranza degli italiani, il 54 per cento dei votanti, scelse di vivere in uno Stato repubblicano.

L'Italia che uscì dalle urne referendarie era in realtà un Paese profondamente diviso. Tutte le regioni del Sud avevano espresso un voto a favore della monarchia, mentre per la repubblica si erano schierate tutte quelle del nord. La monarchia peraltro si rivelò assai più popolare di quello che si poteva immaginare solo basandosi sul consenso per l'opzione repubblicana, fatta propria da quasi tutti i partiti. Alla resa dei conti una non indifferente quota di elettori di sinistra, specie nel Mezzogiorno, rimase fedele al Re.

In pratica in quel giugno di settantacinque anni fa, emerse dalle urne una spaccatura in due della nostra penisola che, se sommata alla frattura ideologica connessa alla Guerra fredda, poteva rivelarsi esiziale per le nuove istituzioni repubblicane.

Va a merito della classe politica eletta all'Assemblea costituente – la migliore che mai abbiamo avuto per cultura politica e spessore culturale ed etico – l'aver operato, pur nella dura contesa politica, per ricucire gli strappi e restituire unità e coesione all'intero Paese. Di quella stagione, la Costituzione fu certo il frutto più fecondo. Può dirsi che se della nostra democrazia, la forma Repubblica indica il contenitore, la Carta costituzionale ne rappresenta il contenuto. Nella nostra Carta si rispecchiano infatti principi e valori che hanno segnato il lungo percorso repubblicano nelle sue diverse fasi, anche nei momenti più difficili, quando il terrorismo minacciava la nostra stessa vita democratica.

E nei valori costituzionali: dalla centralità del lavoro, come snodo decisivo della cittadinanza, al primato della persona nel sistema economico, al ripudio assoluto della guerra, assieme a quell'ideologia nazionalista alimento di ogni conflitto, ritroviamo il senso stesso dell'appartenenza alla comunità nazionale. Molte altre sfide oggi ci attendono e ci parlano di una ricostruzione economica, dopo la grave emergenza del coronavirus, assieme all'indispensabile potenziamento della sanità pubblica come cruciale snodo per il benessere di tutti. Ma momento di impegno è  anche una decisa lotta a qualsiasi discriminazione, da inserirsi nel più ampio contesto di una cittadinanza inclusiva, che dia spazio ai nuovi italiani che vivono e lavorano nel nostro Paese.

Sfide nuove, anche divisive, sulle quali sarà necessario trovare il giusto equilibrio tra esigenze ed istanze diverse. Sfide in fondo non tanto dissimili però, in quanto a complessità, a quelle che abbiamo affrontato in questi lunghi decenni che ci hanno visti da Paese agricolo ascendere a potenza industriale e da nazione povera diventare uno degli Stati più ricchi del pianeta. Per venire a capo alle nuove sfide servirà la stessa concordia che riuscimmo ad avere agli albori della Repubblica; quella capacità di trovare - nella comunanza di destino che tutti ci unisce -  le soluzioni condivise ed accettate da tutti.

Sullo sfondo poi si staglia l'orizzonte europeo. Da tempo abbiamo capito - come peraltro mostra in tutta evidenza la crisi pandemica - che molti problemi, e tra essi proprio quelli più gravi ed impellenti, possono venir affrontati soltanto su scala sovranazionale. L'Europa è la nostra nuova frontiera, quella in cui, più che mai, si gioca il nostro avvenire. Lavorare per l'integrazione del vecchio continente, contribuire al suo rafforzamento delle sue istituzioni è dunque il modo migliore per costruire una società più libera ed inclusiva, esattamente nel solco di quei valori che sono a fondamento della nostra Repubblica.


1 Commento

  1. Ho sentito il discorso del Capo dello Stato pronunciato il 2 giugno al Quirinale; un testo di alto valore e molte indicazioni alla classe politica che un po’ ne ha perse. Condivido il pezzo di Novellini, specchia le idee di Sergio Mattarella, ma in fondo una riflessione in aggiunta non guasterebbe. Non vi è dubbio che in questa stagione, ma la cosa dura da un bel po’, il Paese è “appaltato” ai partiti; le istituzioni, in primis il Parlamento, appaiono, più che il centro del sistema democratico, la cassa di risonanza dei partiti. E’ una grossa anomalia che andrebbe affrontata quando si parla della Costituzione più bella del mondo. Fosse che, come ipotesi di scuola, i partiti avessero sapienza, strutture, classe dirigente di alto livello, si potrebbe transigere all’anomalia, invece il contenuto dei partiti risulta tutt’altro: ogni loro strategia è commisurata alla utilità che ogni atto compiuto serva a migliorare la propria posizione chiamiamo “elettorale”. In funzione di questo tutti, dico tutti, i partiti sono contrari alla attuazione dell’articolo 49 della Costituzione che esige una vita dei partiti strutturata col metodo democratico. Questo scenario dispiace che non venga mai lambito da nessuno che parli della Costituzione e di tutto quello che da essa emana (o dovrebbe emanare). La tesi era con grande costanza sostenuta solo dal “povero” Marco Pannella il quale, pur con molte incongruenze, questa vocazione istituzionale ben la rappresentava.

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