“Deputata Rashida Tlaib, forse dovresti aprire gli occhi sul quadro completo… invece di invocare la pace e la calma, i tuoi tweet stanno alimentando le tensioni, forse non ti rendi conto che le tue parole incoraggiano i gruppi terroristici come Hamas a lanciare razzi sulle popolazioni civili e a compiere attacchi contro gli ebrei”.
Queste parole, rivolte poche giorni fa a una rappresentante del Congresso dall’ambasciatore di Israele negli USA, Gilad Erdan, spiegano meglio di tante analisi qual è oggi il complicato rapporto tra gli Stati Uniti e Israele.
In Europa siamo abituati a pensare che gli USA siano il più grande protettore di Israele senza se e senza ma, in special modo le Amministrazioni democratiche.
Questo è vero solo in parte e ad ogni modo oggi lo è molto poco, infatti l’ultimo presidente statunitense dichiaratamente favorevole ad Israele è stato Donald Trump, non solo a parole ma anche nei fatti, vedi il riconoscimento di Gerusalemme come capitale.
Nonostante questo, alle elezioni del novembre scorso l’elettorato legato al mondo ebraico ha continuato a votare compatto per i democratici. Mediamente ad ogni elezione il voto ebraico va per il 75% ai Dem, poco meno di un quarto ai repubblicani.
Il perché è abbastanza semplice: innanzitutto va detto che nonostante quel che si pensi il voto ebraico negli USA non è di grossa consistenza, infatti si aggira tra gli otto ed i dieci milioni di voti, un numero certamente importante ma che, paragonato agli oltre 150 milioni di voti complessivi, non è determinante.
La comunità ebraica americana è di gran lunga la più numerosa al mondo, questo sì, più dello stesso Israele che conta poco più di 8 milioni e mezzo di abitanti ed è concentrata prevalentemente negli Stati del New England, tradizionalmente progressisti e roccaforti del Partito Democratico. Quindi chi vive in quelle aree indifferentemente dalle sue origini vota in modo simile alla maggioranza degli elettori.
Recenti sondaggi, più di uno, stimano che Joe Biden abbia raccolto a novembre oltre il 77% di questo voto e che oltre il 25% degli elettori ebrei siano molto liberal ed estremamente critici, se non in totale disaccordo con la politica israeliana.
È necessario ricordare, per capire bene il contesto, che la parola liberal negli USA significa “radicale di sinistra” ed è cosa nota come in questo momento l’ala liberal, almeno mediaticamente, domini incontrastata nell’ambito dei Dem.
A questa ampia visione ha contribuito in modo determinante la famosa “Squad” (la squadra) un gruppo di giovani deputate afroamericane o immigrate che con una continua campagna martellante enfatizza da posizioni oltranziste temi divisivi come la razza, sfruttamento, immigrazione, il pericolo del fascismo e così via.
Nella passata amministrazione la Squad era composta da quattro deputate, tutte rielette a novembre:
Alexandria Ocasio-Cortez, 31enne di origini portoricane meglio nota come AOC, indiscussa primadonna dei media, rappresentante del distretto nr 14 di New York; Ilhan Omar, somala naturalizzata, rappresentante del Minnesota; Rashida Tlaib, figlia di immigrati palestinesi, rappresentante del Michigan; Ayanna Pressley, afroamericana, rappresentante del Massachussets. A loro si è aggiunta in questa legislazione Cori Bush, afroamericana del Missouri.
La Squad in questi ultimi giorni è stata molto attiva su posizioni filopalestinesi tanto da ricevere critiche da rappresentanti repubblicani di primo piano, quali Mike Pompeo, Ted Cotton, Ted Cruz e soprattutto Marjorie Taylor Greene, che ha accusato la Squad di essere la squadra di Hamas, oltre naturalmente alle proteste dell’ambasciatore israeliano.
È chiaro che in un panorama simile, l’attuale presidente, “Sleepy” Joe Biden (Joe Biden l’addormentato) come è chiamato non solo dai repubblicani ma ormai anche da molti Dem e giornalisti, si muova su un terreno molto difficile, il terreno di casa che rischia di franargli sotto ai piedi. Il suo silenzio di questi giorni e la decisione di affidare all’Egitto una missione diplomatica
(già fallita) sono emblematici.
Per noi europei e in modo particolare per noi italiani che siamo dirimpettai, da qualsivoglia la si guardi quest’ultima crisi israelo-palestinese non è una bella storia, perché la mancanza di una voce ferma dall’America lascerà spazio alle pretese (a volte per nulla sensate) di potenze regionali, quali l’Iran e la Turchia, tanto per fare un esempio, senza considerare i lutti e le distruzioni che tutto questo comporterà.
Queste parole, rivolte poche giorni fa a una rappresentante del Congresso dall’ambasciatore di Israele negli USA, Gilad Erdan, spiegano meglio di tante analisi qual è oggi il complicato rapporto tra gli Stati Uniti e Israele.
In Europa siamo abituati a pensare che gli USA siano il più grande protettore di Israele senza se e senza ma, in special modo le Amministrazioni democratiche.
Questo è vero solo in parte e ad ogni modo oggi lo è molto poco, infatti l’ultimo presidente statunitense dichiaratamente favorevole ad Israele è stato Donald Trump, non solo a parole ma anche nei fatti, vedi il riconoscimento di Gerusalemme come capitale.
Nonostante questo, alle elezioni del novembre scorso l’elettorato legato al mondo ebraico ha continuato a votare compatto per i democratici. Mediamente ad ogni elezione il voto ebraico va per il 75% ai Dem, poco meno di un quarto ai repubblicani.
Il perché è abbastanza semplice: innanzitutto va detto che nonostante quel che si pensi il voto ebraico negli USA non è di grossa consistenza, infatti si aggira tra gli otto ed i dieci milioni di voti, un numero certamente importante ma che, paragonato agli oltre 150 milioni di voti complessivi, non è determinante.
La comunità ebraica americana è di gran lunga la più numerosa al mondo, questo sì, più dello stesso Israele che conta poco più di 8 milioni e mezzo di abitanti ed è concentrata prevalentemente negli Stati del New England, tradizionalmente progressisti e roccaforti del Partito Democratico. Quindi chi vive in quelle aree indifferentemente dalle sue origini vota in modo simile alla maggioranza degli elettori.
Recenti sondaggi, più di uno, stimano che Joe Biden abbia raccolto a novembre oltre il 77% di questo voto e che oltre il 25% degli elettori ebrei siano molto liberal ed estremamente critici, se non in totale disaccordo con la politica israeliana.
È necessario ricordare, per capire bene il contesto, che la parola liberal negli USA significa “radicale di sinistra” ed è cosa nota come in questo momento l’ala liberal, almeno mediaticamente, domini incontrastata nell’ambito dei Dem.
A questa ampia visione ha contribuito in modo determinante la famosa “Squad” (la squadra) un gruppo di giovani deputate afroamericane o immigrate che con una continua campagna martellante enfatizza da posizioni oltranziste temi divisivi come la razza, sfruttamento, immigrazione, il pericolo del fascismo e così via.
Nella passata amministrazione la Squad era composta da quattro deputate, tutte rielette a novembre:
Alexandria Ocasio-Cortez, 31enne di origini portoricane meglio nota come AOC, indiscussa primadonna dei media, rappresentante del distretto nr 14 di New York; Ilhan Omar, somala naturalizzata, rappresentante del Minnesota; Rashida Tlaib, figlia di immigrati palestinesi, rappresentante del Michigan; Ayanna Pressley, afroamericana, rappresentante del Massachussets. A loro si è aggiunta in questa legislazione Cori Bush, afroamericana del Missouri.
La Squad in questi ultimi giorni è stata molto attiva su posizioni filopalestinesi tanto da ricevere critiche da rappresentanti repubblicani di primo piano, quali Mike Pompeo, Ted Cotton, Ted Cruz e soprattutto Marjorie Taylor Greene, che ha accusato la Squad di essere la squadra di Hamas, oltre naturalmente alle proteste dell’ambasciatore israeliano.
È chiaro che in un panorama simile, l’attuale presidente, “Sleepy” Joe Biden (Joe Biden l’addormentato) come è chiamato non solo dai repubblicani ma ormai anche da molti Dem e giornalisti, si muova su un terreno molto difficile, il terreno di casa che rischia di franargli sotto ai piedi. Il suo silenzio di questi giorni e la decisione di affidare all’Egitto una missione diplomatica
(già fallita) sono emblematici.
Per noi europei e in modo particolare per noi italiani che siamo dirimpettai, da qualsivoglia la si guardi quest’ultima crisi israelo-palestinese non è una bella storia, perché la mancanza di una voce ferma dall’America lascerà spazio alle pretese (a volte per nulla sensate) di potenze regionali, quali l’Iran e la Turchia, tanto per fare un esempio, senza considerare i lutti e le distruzioni che tutto questo comporterà.
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