La capitale degli Stati Uniti, Washington DC (District of Columbia), ha sede in un piccolo territorio della Virginia dal luglio del 1790 e per volontà dei padri fondatori è previsto nella Costituzione Americana che la capitale non possa essere una entità statuale.
Questo perché nel gennaio 1788, James Madison considerato uno dei principali autori della Costituzione USA, sostenne che il nuovo governo federale necessitasse di avere autorità propria su una capitale nazionale sia per il suo mantenimento che per la sicurezza. Questo ragionamento fu fatto tenendo bene a mente che cinque anni prima una rivolta in Pennsylvania (1783), da parte di soldati non pagati che assediarono il Congresso, vide il rifiuto del Governo della Pennsylvania di disperdere i manifestanti con la forza.
Da quell’episodio la convinzione che il governo federale non poteva fare affidamento su un singolo Stato per la sua sicurezza, quindi la capitale non può essere uno Stato come gli altri territori USA.
Oggi a noi europei potrà sembrare strano e anacronistico ma molte delle leggi amministrative che regolano gli USA affondano le loro radici al tempo dei padri fondatori. L’esempio più significativo è questo: si vota in novembre e il nuovo Presidente si insedia in gennaio perché in inverno i lavori nei campi sono fermi (perlomeno lo erano allora) e si ha tempo per dedicarsi alla politica perché a quei tempi la maggioranza della popolazione erano agricoltori.
Da tempo però diversi politici e anche la maggior parte della popolazione del District of Columbia vorrebbero modificare questo status quo, facendo si che questo territorio diventi il 51° Stato degli USA.
Al di la delle motivazioni romantiche o di orgoglio, molto di tutto ciò si basa su semplici interessi elettorali – da noi si direbbe “interessi di bottega” – specie dopo la pubblicazione del censimento 2020 che fotografa la situazione anagrafica USA complessiva ed a livello territoriale. Proprio l’analisi dei dati che rilevano gli spostamenti interni determinerà dalle prossime elezioni di mid-term 2022 il numero dei rappresentanti che ogni Stato elegge al Congresso. Qualcuno ne guadagna, qualcuno ne perde, altri rimangono come sono.
Il Congresso USA è composto da due camere: la House of Representatives (la nostra camera dei deputati) ed è composto da un totale di 435 seggi. Oggi dopo le elezioni di novembre 2020 la Camera è composta da 222 democratici e 213 repubblicani. Gli Stati più popolosi ne eleggono proporzionalmente un numero maggiore rispetto
a quelli con pochi abitanti.
Questo censimento avviene ogni 10 anni e riconfigura la provenienza degli eletti per i prossimi 10 anni. A livello globale attualmente gli USA hanno 331 milioni di abitanti, lo Stato più popoloso rimane la California con 39 milioni di abitanti, il meno abitato il Wyoming con solo 576 mila.
Piccola nota di colore: il Wyoming, per chi se lo ricorda, era lo Stato della pubblicità della Marlboro con il cowboy a cavallo nella neve che trascina un pino, ha una superfice di 253 mila kmq mentre, l’intero Regno Unito, Scozia ed Irlanda del Nord comprese, consta di soli 242 mila kmq.
Uno degli Stati che vede incrementare il numero dei parlamentari è il Texas avendo oggi quasi 4 milioni di cittadini in più rispetto a 10 anni fa, avrà quindi 2 deputati in più. Altri Stati che aumenteranno di un rappresentante al Congresso sono la Florida, il Colorado con Montana, North Carolina e Oregon. La maggioranza degli altri Stati rimane come è, tra i grandi Stati chi perde un rappresentante è la California.
Per il Senato invece la situazione è diversa: a prescindere ogni Stato elegge due senatori. Oggi il Senato è in perfetta parità, 50 dem e 50 repubblicani, ma il voto della vicepresidente, Kamala Harris, è valido, quindi seppure di un soffio la maggioranza al senato è democratica.
Se Washington D.C. divenisse uno Stato eleggerebbe un rappresentante al Congresso e due senatori.
Da sempre questa area e quella del New England, ovvero la costa nord dell’Atlantico vota prevalentemente democratico e quasi per certo gli eletti del nuovo Stato sarebbero democratici.
Il Texas tradizionalmente è uno stato conservatore e quasi per certo i due nuovi eletti più sarebbero repubblicani.
Ora, il rappresentante alla Camera di Washington bilancerebbe un po’ i due nuovi repubblicani ma è al Senato che il nuovo Stato sarebbe decisivo. Infatti con due senatori democratici in più la maggioranza dem al Senato si consoliderebbe e supererebbe lo stallo attuale della parità.
Politicamente i democratici sono a favore del nuovo Stato, i repubblicani ovviamente no.
Poche settimane fa alla Camera USA (House of Representatives) è passata la proposta di legge per la creazione del nuovo Stato ma ora occorre avere anche il via libera del Senato.
Osservando come si sono svolte sinora tutte le votazioni al Senato dove democratici e repubblicani hanno sempre votato in modo compatto l’uno l’opposto dell’altro, sarà ben difficile che la legge passi perché la maggioranza richiesta, prevista dalla Costituzione non è quella semplice ma necessita del voto di 60 senatori su 100.
Staremo a vedere.
Questo perché nel gennaio 1788, James Madison considerato uno dei principali autori della Costituzione USA, sostenne che il nuovo governo federale necessitasse di avere autorità propria su una capitale nazionale sia per il suo mantenimento che per la sicurezza. Questo ragionamento fu fatto tenendo bene a mente che cinque anni prima una rivolta in Pennsylvania (1783), da parte di soldati non pagati che assediarono il Congresso, vide il rifiuto del Governo della Pennsylvania di disperdere i manifestanti con la forza.
Da quell’episodio la convinzione che il governo federale non poteva fare affidamento su un singolo Stato per la sua sicurezza, quindi la capitale non può essere uno Stato come gli altri territori USA.
Oggi a noi europei potrà sembrare strano e anacronistico ma molte delle leggi amministrative che regolano gli USA affondano le loro radici al tempo dei padri fondatori. L’esempio più significativo è questo: si vota in novembre e il nuovo Presidente si insedia in gennaio perché in inverno i lavori nei campi sono fermi (perlomeno lo erano allora) e si ha tempo per dedicarsi alla politica perché a quei tempi la maggioranza della popolazione erano agricoltori.
Da tempo però diversi politici e anche la maggior parte della popolazione del District of Columbia vorrebbero modificare questo status quo, facendo si che questo territorio diventi il 51° Stato degli USA.
Al di la delle motivazioni romantiche o di orgoglio, molto di tutto ciò si basa su semplici interessi elettorali – da noi si direbbe “interessi di bottega” – specie dopo la pubblicazione del censimento 2020 che fotografa la situazione anagrafica USA complessiva ed a livello territoriale. Proprio l’analisi dei dati che rilevano gli spostamenti interni determinerà dalle prossime elezioni di mid-term 2022 il numero dei rappresentanti che ogni Stato elegge al Congresso. Qualcuno ne guadagna, qualcuno ne perde, altri rimangono come sono.
Il Congresso USA è composto da due camere: la House of Representatives (la nostra camera dei deputati) ed è composto da un totale di 435 seggi. Oggi dopo le elezioni di novembre 2020 la Camera è composta da 222 democratici e 213 repubblicani. Gli Stati più popolosi ne eleggono proporzionalmente un numero maggiore rispetto
a quelli con pochi abitanti.
Questo censimento avviene ogni 10 anni e riconfigura la provenienza degli eletti per i prossimi 10 anni. A livello globale attualmente gli USA hanno 331 milioni di abitanti, lo Stato più popoloso rimane la California con 39 milioni di abitanti, il meno abitato il Wyoming con solo 576 mila.
Piccola nota di colore: il Wyoming, per chi se lo ricorda, era lo Stato della pubblicità della Marlboro con il cowboy a cavallo nella neve che trascina un pino, ha una superfice di 253 mila kmq mentre, l’intero Regno Unito, Scozia ed Irlanda del Nord comprese, consta di soli 242 mila kmq.
Uno degli Stati che vede incrementare il numero dei parlamentari è il Texas avendo oggi quasi 4 milioni di cittadini in più rispetto a 10 anni fa, avrà quindi 2 deputati in più. Altri Stati che aumenteranno di un rappresentante al Congresso sono la Florida, il Colorado con Montana, North Carolina e Oregon. La maggioranza degli altri Stati rimane come è, tra i grandi Stati chi perde un rappresentante è la California.
Per il Senato invece la situazione è diversa: a prescindere ogni Stato elegge due senatori. Oggi il Senato è in perfetta parità, 50 dem e 50 repubblicani, ma il voto della vicepresidente, Kamala Harris, è valido, quindi seppure di un soffio la maggioranza al senato è democratica.
Se Washington D.C. divenisse uno Stato eleggerebbe un rappresentante al Congresso e due senatori.
Da sempre questa area e quella del New England, ovvero la costa nord dell’Atlantico vota prevalentemente democratico e quasi per certo gli eletti del nuovo Stato sarebbero democratici.
Il Texas tradizionalmente è uno stato conservatore e quasi per certo i due nuovi eletti più sarebbero repubblicani.
Ora, il rappresentante alla Camera di Washington bilancerebbe un po’ i due nuovi repubblicani ma è al Senato che il nuovo Stato sarebbe decisivo. Infatti con due senatori democratici in più la maggioranza dem al Senato si consoliderebbe e supererebbe lo stallo attuale della parità.
Politicamente i democratici sono a favore del nuovo Stato, i repubblicani ovviamente no.
Poche settimane fa alla Camera USA (House of Representatives) è passata la proposta di legge per la creazione del nuovo Stato ma ora occorre avere anche il via libera del Senato.
Osservando come si sono svolte sinora tutte le votazioni al Senato dove democratici e repubblicani hanno sempre votato in modo compatto l’uno l’opposto dell’altro, sarà ben difficile che la legge passi perché la maggioranza richiesta, prevista dalla Costituzione non è quella semplice ma necessita del voto di 60 senatori su 100.
Staremo a vedere.
Diceva Giulio Andreotti se non erro qualcosa come: a volte a pensar male si ci azzecca… tendenzialmente Washington e politicamente democratica e mi risulta che siano loro i maggiori sostenitori.
Mila solleva un problema assai complesso. Lo status giuridico internazionale di Washington D.C. è tuttora oggetto di aspre controversie in una triangolazione che coinvolge altre due capitali in Europa, quella britannica e quella romana (ma non dello stato italiano), dalle quali dipende la sua funzione di capitale “extraterritoriale”, sempre messa in discussione nel corso della storia americana e da ultimo dalla precedente amministrazione, dalle cui contestazioni sembrerebbero derivare le evidenti limitazioni di potere palesate sinora dalla presidenza Biden.
Il conteggio dei voti in corso (sul quale vi è un silenzio mediatico pressoché totale) nella popolosa contea di Maricopa in Arizona, sta facendo traballare il sistema istituzionale americano.
Come tutti sanno – è un segreto di Pulcinella – Trump ha largamente vinto le elezioni del 2020. Solo massicce frodi elettorali hanno ribaltato il risultato.
Ma adesso, su iniziativa dei parlamenti statali, si sono avviate verifiche dei voti serie e a tappeto. L’Arizona fu assegnata a Biden per soli diecimila voti di scarto. Le schede ora in corso di riconteggio sono due milioni e cento. Il Michigan sta per seguire la stessa procedura, e a cascata tutti gli altri stati contesi.
La prospettiva di un terremoto istituzionale prossimo può anche risultare pericolosa non solo per il sistema istituzionale americano. Essa può costituire un incentivo ai fautori del progetto della pandemia come strumento di governo, ad accelerare il loro piano eversivo e criminale. Vedendo che il prosieguo della presidenza Biden diventa incerto, che la vaccinazione mondiale si sta rivelando un flop, che molti governi (Spagna, Belgio, segnali da Regno Unito e Francia) cominciano ad essere insofferenti alle restrizioni che invece loro vogliono permanenti, c’è il rischio che le centrali globaliste intendano aumentare il grado di confusione e di crisi senza limiti. In due direzioni soprattutto.
Siccome il piano globale covid, che è stato spifferato al pubblico , prevede la militarizzazione dei confinamenti e l’inizio degli espropri ai beni dei cittadini (iniziando dai ristoratori in crisi, esproprio in cambio del reddito di base universale) per il secondo semestre di quest’anno, allora hanno bisogno di peggiorare ulteriormente la crisi in modo da terrorizzare di più ancora la gente e fare loro accettare ogni cosa. Come?
Magari sabotando la supply chain, la catena degli approvvigionamenti globali attraverso un bel collasso delle infrastrutture informatiche per paralizzare banche, commerci, aeroporti, ecc.
Il World Economic Forum di Davos, infatti, sta già preparando una esercitazione che simula un attacco informatico globale che metterà fuori uso internet, denominata Cyber Polygon per il prossimo luglio.
Queste “esercitazioni” sono sempre da temere, in genere preparano o accompagnano grandi disastri. Come l’Event 201, l’esercitazione sponsorizzata da Bill Gates il 18 ottobre 2019 che simulava una pandemia globale. La gestione rovinosa dell’emergenza sanitaria, per fare più vittime possibile vietando le giuste cure e diffondendo apposta protocolli sanitari sbagliati, è stata programmata con largo anticipo e fin nei minimi particolari. Infatti, si è visto che gli stati occidentali si sono mossi tutti allo stesso modo, con poche eccezioni come la Svezia.
Ma l’élite globalista, sentendo minacciato il suo progetto di egemonia mondiale può anche spingersi oltre fino al punto da minacciare la Russia al punto tale da innescare la terza guerra mondiale. Non bisogna illudersi che abbiano degli scrupoli a farlo dopo quello che hanno fatto alle popolazioni in questi ultimi quattordici mesi.
Ecco dunque, che porre la questione dello status di Washington D.C. significa riflettere intorno ai destino di questa epoca che può essere di svolta, ma se le coscienze democratiche dei cittadini continueranno a stare in letargo, anche di nuove, enormi tragedie.