PD: abolire le primarie



Aldo Novellini    6 Aprile 2021       0

In meno di quindici anni di vita, tra titolari, per lo più scelti con le primarie, e semplici reggenti, il PD ha cambiato nove segretari. Cambiamenti oltretutto non tanto legati a mutamenti di linea politica (che negli anni è rimasta sostanzialmente tale e quale) quanto ad una cronica incapacità di darsi una guida stabile e a mantenerla per un certo tempo. Per di più alcuni di questi segretari, cessato il proprio mandato, hanno addirittura lasciato il partito. Una cosa surreale, se si pensa soltanto ai leader delle formazioni della cosiddetta Prima Repubblica.

Quali le ragioni di questa situazione? Si parla spesso delle correnti che corrodono il partito. Ma in fondo è normale che in una forza politica attestata sul 20-25 per cento vi siano sensibilità diverse. Tanto più in un partito come il PD dove sono confluite storie diverse, che per decenni si sono anche fortemente avversate. Normale comunque che vi sia una maggioranza ed una minoranza.

Il fatto è che nel PD chi conquista la maggioranza sovente fa l'asso pigliatutto e pretende pure di decidere le liste elettorali sulla base dei propri desiderata. Forse in casa dem servirebbe riprendere in mano il tanto vituperato manuale Cencelli, espressione di una cruda, ma altrettanto realistica, gestione del pluralismo interno che a tutti concedeva un po' di spazio.

E se fossero invece le primarie la causa di molti mali? A ben vedere sono un micidiale meccanismo dove, oltre agli iscritti, si fa pure l'errore di farvi partecipare anche la più vasta platea dei militanti, contribuendo già solo con questo ad indebolire la struttura stessa del partito. Se infatti chi sta fuori può decidere col proprio voto nientemeno che il leader, esattamente come chi prende la tessera, decade la funzione stessa di una formazione politica. Ma non basta.

Quando due o più dirigenti concorrono uno contro l'altro nelle primarie, affidandosi al voto plebiscitario dei militanti, diviene più che mai indispensabile distinguersi. E questo lo si fa amplificando qualsiasi differenza. Il che facilita le divisioni. Alla fine, dopo essersi combattuti come avversari, risulta difficile, se non proprio impossibile, trovare una convergenza tra vincitori e sconfitti, anche perché le primarie si rivelano assai più idonee ad incoronare un capo che non a consentire un franco dibattito tra le diverse anime del partito.

Chi vince, più che da segretario del partito si comporta da “uomo solo al comando”, i suoi sodali si dividono tutti i posti disponibili e chi viene escluso, perché non appartenente al cerchio del vincitore, ha due possibilità: acconciarsi a rimanere in posizione subordinata o uscire dal partito. La scissione diviene così un modo per sopravvivere politicamente in quanto entro il partito nessuno è in grado di fare un'accettabile sintesi. Cosa ben diversa, e feconda, da una mera unanimità di facciata, più consona ad un partito totalitario che non ad una normale forza democratica.

Stiamo estremizzando un po' le cose? Può darsi, ma a pensarci bene non è che si sia tanto lontani dal vero. Se il PD vuole tornare ad essere un partito capace di fare sintesi tra posizioni e sensibilità diverse ha una sola strada: abolire le primarie e ripristinare una normale vita politica, fondata sugli iscritti, sulle sezioni e su regolari congressi. Occorre tornare a logiche che permettano il confronto piuttosto che affidarsi a meccanismi che fomentano lo scontro.

Qualcuno dirà che si sta solo parlando di regole e non di contenuti, ma non va dimenticato che la forma è anche sostanza. Rimane ovviamente un'ultima notazione: tutto quanto si sta dicendo ha senso solo se chi sta nel PD continua davvero a credere nel progetto originario. Ma questo è un altro discorso.


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