In cosa Draghi fa la differenza



Vera Negri Zamagni    1 Aprile 2021       1

Tutti in Italia e all’estero hanno salutato l’assunzione di responsabilità del governo italiano da parte di Draghi con grande sollievo, come peraltro avevano salutato col medesimo sollievo la vittoria di Joe Biden alle elezioni americane. Perché? Dopo l’ubriacatura di slogan e promesse illusorie che i governi precedenti avevano rovesciato sulla popolazione italiana (come su quella americana), in primo luogo ciò che oggi vince è il realismo.

I problemi esistono e sono tutti molto bravi a denunciarli. Ciò che distingue il qualunquismo dalla buona politica è però che la buona politica si attrezza per risolverli e procede con determinazione, mettendo in campo gli strumenti più adatti e non facendo inutili proclami in corso d’opera. Rimproverano a Draghi di essere di poche parole. Ma ci rendiamo conto che i giorni hanno 24 ore per tutti e se uno butta via tante ore a sproloquiare, a farsi riprendere coi selfie, ad andare in televisione, a scrivere sui media, a spaccare un capello in quattro, il tempo per individuare le soluzioni, per scegliere i migliori collaboratori, per motivare ministri e dirigenti, per trovare l’accordo fra le varie proposte poi manca? La prima differenza di Draghi è proprio questa: parlare quando si ha qualcosa da dire e non per fare proclami.

La seconda differenza è data dalla tranquillità e sicurezza di comportamento, proprio di persona che ha accumulato conoscenza accoppiata con esperienza di amministrazione in posizioni di responsabilità. Oggi il mondo è non solo diventato più complicato, ma anche in rapido mutamento. Come affidare responsabilità di governo a persone senza arte né parte, solo perché sono riusciti a vincere qualche posizione di leadership partitica e una tornata elettorale? Qui viene sollevato un fondamentale problema della democrazia di oggi. La democrazia “elettorale” butta intere società alla mercé di risultati elettorali, che possono essere influenzati dai fattori più disparati, con risultati talora disperanti. Gli esempi si sprecano! È vero che tre-quattro-cinque anni dopo un’elezione disgraziata l’elettorato può comprendere gli errori fatti ed eleggere governi più validi, ma nel frattempo tali e tanti danni sono stati fatti da costringere i nuovi governi a cercare di rimediare, non avendo il tempo per lanciare progetti nuovi. È ormai noto in letteratura che i paesi che fioriscono sul lungo periodo non sono quelli che hanno intensi periodi di sviluppo seguiti da declini altrettanti consistenti, dovuti ai più svariati motivi (guerre, conflitti sociali, politiche monetarie e fiscali insostenibili, imprenditorialità inadeguata), ma sono quei paesi capaci di non disfare i risultati raggiunti e continuare a costruirci sopra. I casi negativi più drammatici sono quelli della gran parte dei paesi latino-americani, le cui economie sono sempre altalenanti e mai poste su un sentiero di sviluppo cumulativo.

Ma per governare processi cumulativi servono persone che non si perdono in chiacchiere, ma hanno una reale capacità di governo. Come si ottiene questa capacità? Con investimento nel proprio capitale umano e con la collaborazione con persone capaci. Ora, la democrazia elettorale di oggi non produce in generale questa capacità e si sta avvitando in guerre per bande anche all’interno dei partiti. Si veda il caso recente del PD, che per superare lo stallo in cui era finito è dovuto ricorrere ad un “esterno”, con un approccio non dissimile, mutatis mutandis, da quello che ha portato Draghi al governo. Si è arrivati al punto che molti lodano governi dittatoriali come quello cinese, perché lo vedono capace di prendere decisioni e continuare senza interruzioni su un sentiero accumulativo, senza considerare i gravi rischi della mancanza di libertà e di una pedissequa imitazione di modelli capitalistici occidentali di scarsa sostenibilità che il governo cinese presenta.

Non sarò io qui ad indicare come uscire da questa situazione che non può che portare all’affossamento della democrazia, come purtroppo si è già visto in passato in tanti paesi (l’Italia di Mussolini, la Germania di Hitler, la Spagna di Franco e tanti altri), ma è sotto gli occhi di tutti che un capo di governo come Draghi che ha le capacità di governare non sarebbe mai potuto essere nominato dal presente sistema partitico. Ci è voluta una gravissima crisi e la saggezza del nostro Presidente della Repubblica per arrivarci. Tutti notiamo la differenza, ma pochi si chiedono le implicazioni di questo paradosso e come discontinuare quella tendenza della politica attuale allo spiazzamento dei talenti che tanto ci affligge.

Ma vi è una terza differenza che è forse ancora più eclatante. La credibilità di una persona di spessore come Draghi ha rovesciato la posizione di un paese come l’Italia a livello internazionale. Il paese purtroppo resta quello che era, ma ha tante energie, professionalità, eccellenze che prima restavano represse e marginalizzate, ma ora vengono valorizzate dal governo. Sono energie di persone che desiderano contribuire ad un nuovo Rinascimento del paese, ma non sopportano di essere comandate da incompetenti, corrotti e soggetti esclusivamente interessati a mettere loro amici di scarso valore in posizioni strategiche.

Con questa nuova credibilità, Draghi può colloquiare con le istituzioni europee non al solito modo straccione dei politici italiani che chiedono sussidi col cappello in mano, pretendendo che l’Europa faccia qualcosa per l’Italia, ma con la dignità di un pari impegnato a dimostrare la responsabilità di contribuire alla soluzione di problemi comuni, facendo proposte e impegnando proprie risorse. La pandemia ha messo in sordina i sovranisti, perché è troppo evidente che nessuno si salva da solo, ma è una mentalità generale che va cambiata. Ciascuno si deve oggi chiedere come può contribuire a risolvere i tanti problemi che abbiamo piuttosto che fare schiamazzi su cosa gli altri devono fare per noi. Ebbene, Draghi questo sta facendo, proporre soluzioni.

È più che evidente che molti problemi richiederanno tempi assai più lunghi di quelli che questa legislatura offre a Draghi (sempre che poi lo lascino al suo posto fino alla scadenza naturale), ma se questo esperimento insegnasse qualcosa alla politica non solo italiana e si aprisse un cantiere di riflessione su come adeguare il funzionamento della democrazia a tempi tanto complessi come quelli attuali, davvero il futuro sarebbe meno desolante del passato e l’Italia potrebbe riprendere la sua posizione di nazione “produttiva” quale è sempre stata fin dall’epoca di Roma, di Venezia, di Firenze, con i suoi scienziati, letterati, navigatori, architetti, pittori, industriali, albergatori di cui dobbiamo andare fieri, ma che dobbiamo saper valorizzare.

(Tratto da www.politicainsieme.com)


1 Commento

  1. Sono contento di poter leggere parole come quelle di Vera Negri Zamagni. Dopo i rimpianti e le lamentazioni, legittime per altro, di quanti sottolineavano che “a Conte neppure l’onore delle armi”, le pacate considerazioni della Zamagni mi pare mettano bene a fuoco in che consista la “novità” Draghi. Del resto altri osservatori avevano richiamato l’attenzione su tale novità. Mattia Feltri in un articolo del 27 febbraio c.a. dal titolo “Se c’è Draghi è per sottrarre la politica al Sim Salabim”, scriveva su HuffPost:
    “Già emessa la sentenza da bar sul premier. Ma se è arrivato lui è perché la situazione è paurosamente complessa e dello slogan facilone non se ne poteva più. Per chiudere tutto non serviva Draghi, bastava Conte. Eccola lì la sentenza emessa dal bancone del bar da chi insiste a non capirci nulla, e precisamente a considerare la politica l’arte del sim salabim: era un fazzoletto, et voilà, è un mazzo di fiori.”
    Sofia Ventura, sempre su HuffPost, titolava il suo pezzo “ Mario Draghi, il premier che non vende pentole” che sviluppava così:
    “Abituati agli imbonitori Berlusconi, Renzi e Conte, rimaniamo stupiti: non vuole convincerci di esser il più figo di tutti. Il breve intervento di Mario Draghi e poi le sue risposte alle domande dei giornalisti, nonché il suo modo di porsi nel rispondere, educato e rispettoso delle reciproche funzioni, ha colpito tanti osservatori. Perché noi siamo abituati ai venditori di pentole. Non che tutti i nostri capi di governo della nuova era comunicativa italiana (ovvero dai primi anni Novanta) lo siano stati. Ma abbiamo avuto dei campioni a tal proposito, ognuno con un proprio stile: Berlusconi, Renzi, Conte. (…)
    Il terzo (anche lui, come i suoi predecessori, a suo modo maschera italiana) ha finto stile sobrio e compìto per produrre nella realtà una comunicazione tutta mirata alla messa in scena di sé e delle proprie mirabolanti abilità, con quei tratti da venditore – “e pensate!” “e immaginate!” – che nulla in fondo avevano da invidiare alla comunicazione renziana. La pochette al posto delle maniche di camicia arrotolate. L’elegante damerino al posto del gradasso.”
    Rimpianti, dunque, per il mancato onore delle armi a Conte? Nessuno!

Lascia un commento

La Tua email non sarà pubblicata.


*