Va apprezzata l’onestà intellettuale con cui Rosy Bindi, che ne è stata tra i più eminenti promotori, riconosce ed afferma che il PD non è mai nato.
Andrebbe aggiunto che la mancata integrazione, che l’on. Bindi constata e giustamente lamenta, tra gli indirizzi che vi convergono, in modo particolare la cultura politica del movimento cattolico-democratico e quella di ascendenza marxista, non è dovuta solo alla cattiva volontà o alla distratta precipitazione delle donne e degli uomini che hanno pensato di potergli dar vita.
Deriva soprattutto dalla difficoltà oggettiva a trovare una effettiva ed efficace conciliazione tra forze che, al di là della comune radice popolare, di un condiviso sentimento di giustizia e di solidarietà sociale, di una altrettanto piena fedeltà ai valori della Carta Costituzionale, fanno riferimento, in ultima istanza, ad una concezione dell’uomo, della vita e della storia sostanzialmente dissimile ed, a tratti, addirittura antitetica.
Si potrebbe ritenere che, nel contesto mutevole, in cui viviamo oggi, il riferimento alle culture fondative di movimenti politici che, nella concretezza dell’accadere quotidiano, devono incessantemente fare i conti con trasformazioni incalzanti, lasci il tempo che trova o, tutt’al più, evochi la risacca di antichi cascami ideologici o il trascinamento di valori e principi scontati, consegnati ad un Pantheon ideale, ma sostanzialmente non più “commerciabili” nella dialettica stringente di un tempo che, almeno prima della pandemia, sembrava preda di una accelerazione incontenibile. Ma non è così.
Anzi, quanto più i processi sociali sono integrati e rendono complesso, quasi inestricabile , il contesto in cui ci è dato vivere, tanto più gli indirizzi e le determinazioni che ciascuna forza politica deve assumere, a fronte della “liquidità” del nostro tempo, possono vantare una organicità che le renda comprensibili alla stessa opinione pubblica, a condizione che sappiano attingere la loro motivazione fin dall’istanza profonda ed ultima della identità da cui discendono.
In caso contrario, un tale partito si consegnerebbe ad un pragmatismo inconcludente. Senonché, le differenze che intercorrono tra forze politiche che siano espressione di culture anche radicalmente diverse, non sono affatto insuperabili e la storia del nostro Paese lo conferma. Purché di tali dissonanze si sia compiutamente consapevoli e ci si regoli di conseguenza.
Nel caso del PD, alla difficoltà di merito di cui sopra, si è sovrapposto un esiziale errore di metodo e quando si ledono i fondamentali della politica, ne deriva una sequela ininterrotta di conseguenza negative che si proiettano pericolosamente nel tempo, secondo un avvitamento a spirale difficile da troncare.
Quando, nel ’94 del secolo scorso, è baldanzosamente avanzata, secondo le sembianze di una sedicente forza liberale, una destra che non conoscevamo e che, da una parte ha sdoganato gli epigoni del Movimento Sociale, dall’altra ha offerto una funzione nazionale alla Lega padana, era ovvio che le grandi forze popolari che avevano fatto insieme la Costituzione o i loro eredi cogliessero immediatamente le ragioni di un impegno comune.
Senonché hanno commesso l’errore di “fondersi” in unico partito, anziché ricorrere al concetto di “coalizione” ed alla prassi che ne deriva. E non è stata cosa di poco contro.
Certi errori di forma sono, talvolta, tali da poter essere riassorbiti dalla sostanza pregnante di un forte, incalzante processo politico. In altre occasioni, la forma suborna la sostanza, la torce e la debilita fino a prevalere su di essa. Succede, insomma – come nel caso del PD – che in una “fusione” le differenze vanno necessariamente cancellate e se non c’è tempo di mediarle o addirittura sono sostanzialmente irriducibili, almeno su determinati versanti, si devono, per forza di cose, scopare sotto il tappeto di casa e da lì, via via, dapprima insensibilmente, poi in un progressivo crescendo, corrodono il tutto.
Al contrario, nella logica degasperiana della “coalizione”, le differenze originarie di cultura politica o di indirizzo progettuale e programmatico, in virtù di quel dato di autonomia che ciascuna forza contraente conserva, possono essere guardate francamente negli occhi, secondo quella piena consapevolezza della loro dissimilitudine che, da potenziale debolezza, le trasforma in elemento di chiarezza e, dunque, fattore di forza.
Le due culture di cui sopra, fuse precipitosamente in unico partito, si sono annichilite o almeno sterilizzate a vicenda, senza lasciare eredi ed, anzi, hanno determinato un vuoto di creatività, di cultura politica, di progettualità, al punto che del PD ne hanno fatto niente più che un mero “aggregato elettorale”, con tutte le conseguenze che ne sono derivate ed ancora in questi giorni ne conseguono.
La “rifondazione” del PD sarà allora affidata ad Enrico Letta. L’on. Bindi pare pensi piuttosto ad una prospettiva che vada oltre il PD, verso una riformulazione del centro-sinistra complessivamente inteso. Chi vivrà, vedrà.
Noi pensiamo, piuttosto, che sia necessario restituire l’Italia agli italiani ed avviare un processo di radicale trasformazione del Paese e del suo stesso sistema politico.
In quanto ai cattolici dovrebbero, dovunque siano collocati politicamente e pur senza, almeno in questa fase, mettere in discussione l’appartenenza politica che hanno liberamente scelto, affrontare due nodi, che solo apparentemente sembrano contraddirsi: da una parte assumere il loro pluralismo, anche politico, come un dato di fatto acquisito e, in definitiva, viverlo come una ricchezza piuttosto che come una iattura.
In secondo luogo, rivendicare la loro autonomia dalla dipendenza che, da quasi trent’ anni a questa parte, hanno sofferto – prigionia o schiavitù volontaria ? – da parte di altre cultura, a sinistra o piuttosto a destra che fossero.
Sono due nodi da sciogliere per aprire nuove prospettive. E’ tempo di rinunciare alle cipolle d’ Egitto, affrontare l’esodo e la traversata del deserto, alla ricerca di una nuova terra promessa, pur se incognita e tutta da costruire. E’ ora il momento propizio.
Quando imperversa una crisi ed i vecchi paradigmi vengono squadernati, è il momento di porre mano a costruirne di nuovi.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Andrebbe aggiunto che la mancata integrazione, che l’on. Bindi constata e giustamente lamenta, tra gli indirizzi che vi convergono, in modo particolare la cultura politica del movimento cattolico-democratico e quella di ascendenza marxista, non è dovuta solo alla cattiva volontà o alla distratta precipitazione delle donne e degli uomini che hanno pensato di potergli dar vita.
Deriva soprattutto dalla difficoltà oggettiva a trovare una effettiva ed efficace conciliazione tra forze che, al di là della comune radice popolare, di un condiviso sentimento di giustizia e di solidarietà sociale, di una altrettanto piena fedeltà ai valori della Carta Costituzionale, fanno riferimento, in ultima istanza, ad una concezione dell’uomo, della vita e della storia sostanzialmente dissimile ed, a tratti, addirittura antitetica.
Si potrebbe ritenere che, nel contesto mutevole, in cui viviamo oggi, il riferimento alle culture fondative di movimenti politici che, nella concretezza dell’accadere quotidiano, devono incessantemente fare i conti con trasformazioni incalzanti, lasci il tempo che trova o, tutt’al più, evochi la risacca di antichi cascami ideologici o il trascinamento di valori e principi scontati, consegnati ad un Pantheon ideale, ma sostanzialmente non più “commerciabili” nella dialettica stringente di un tempo che, almeno prima della pandemia, sembrava preda di una accelerazione incontenibile. Ma non è così.
Anzi, quanto più i processi sociali sono integrati e rendono complesso, quasi inestricabile , il contesto in cui ci è dato vivere, tanto più gli indirizzi e le determinazioni che ciascuna forza politica deve assumere, a fronte della “liquidità” del nostro tempo, possono vantare una organicità che le renda comprensibili alla stessa opinione pubblica, a condizione che sappiano attingere la loro motivazione fin dall’istanza profonda ed ultima della identità da cui discendono.
In caso contrario, un tale partito si consegnerebbe ad un pragmatismo inconcludente. Senonché, le differenze che intercorrono tra forze politiche che siano espressione di culture anche radicalmente diverse, non sono affatto insuperabili e la storia del nostro Paese lo conferma. Purché di tali dissonanze si sia compiutamente consapevoli e ci si regoli di conseguenza.
Nel caso del PD, alla difficoltà di merito di cui sopra, si è sovrapposto un esiziale errore di metodo e quando si ledono i fondamentali della politica, ne deriva una sequela ininterrotta di conseguenza negative che si proiettano pericolosamente nel tempo, secondo un avvitamento a spirale difficile da troncare.
Quando, nel ’94 del secolo scorso, è baldanzosamente avanzata, secondo le sembianze di una sedicente forza liberale, una destra che non conoscevamo e che, da una parte ha sdoganato gli epigoni del Movimento Sociale, dall’altra ha offerto una funzione nazionale alla Lega padana, era ovvio che le grandi forze popolari che avevano fatto insieme la Costituzione o i loro eredi cogliessero immediatamente le ragioni di un impegno comune.
Senonché hanno commesso l’errore di “fondersi” in unico partito, anziché ricorrere al concetto di “coalizione” ed alla prassi che ne deriva. E non è stata cosa di poco contro.
Certi errori di forma sono, talvolta, tali da poter essere riassorbiti dalla sostanza pregnante di un forte, incalzante processo politico. In altre occasioni, la forma suborna la sostanza, la torce e la debilita fino a prevalere su di essa. Succede, insomma – come nel caso del PD – che in una “fusione” le differenze vanno necessariamente cancellate e se non c’è tempo di mediarle o addirittura sono sostanzialmente irriducibili, almeno su determinati versanti, si devono, per forza di cose, scopare sotto il tappeto di casa e da lì, via via, dapprima insensibilmente, poi in un progressivo crescendo, corrodono il tutto.
Al contrario, nella logica degasperiana della “coalizione”, le differenze originarie di cultura politica o di indirizzo progettuale e programmatico, in virtù di quel dato di autonomia che ciascuna forza contraente conserva, possono essere guardate francamente negli occhi, secondo quella piena consapevolezza della loro dissimilitudine che, da potenziale debolezza, le trasforma in elemento di chiarezza e, dunque, fattore di forza.
Le due culture di cui sopra, fuse precipitosamente in unico partito, si sono annichilite o almeno sterilizzate a vicenda, senza lasciare eredi ed, anzi, hanno determinato un vuoto di creatività, di cultura politica, di progettualità, al punto che del PD ne hanno fatto niente più che un mero “aggregato elettorale”, con tutte le conseguenze che ne sono derivate ed ancora in questi giorni ne conseguono.
La “rifondazione” del PD sarà allora affidata ad Enrico Letta. L’on. Bindi pare pensi piuttosto ad una prospettiva che vada oltre il PD, verso una riformulazione del centro-sinistra complessivamente inteso. Chi vivrà, vedrà.
Noi pensiamo, piuttosto, che sia necessario restituire l’Italia agli italiani ed avviare un processo di radicale trasformazione del Paese e del suo stesso sistema politico.
In quanto ai cattolici dovrebbero, dovunque siano collocati politicamente e pur senza, almeno in questa fase, mettere in discussione l’appartenenza politica che hanno liberamente scelto, affrontare due nodi, che solo apparentemente sembrano contraddirsi: da una parte assumere il loro pluralismo, anche politico, come un dato di fatto acquisito e, in definitiva, viverlo come una ricchezza piuttosto che come una iattura.
In secondo luogo, rivendicare la loro autonomia dalla dipendenza che, da quasi trent’ anni a questa parte, hanno sofferto – prigionia o schiavitù volontaria ? – da parte di altre cultura, a sinistra o piuttosto a destra che fossero.
Sono due nodi da sciogliere per aprire nuove prospettive. E’ tempo di rinunciare alle cipolle d’ Egitto, affrontare l’esodo e la traversata del deserto, alla ricerca di una nuova terra promessa, pur se incognita e tutta da costruire. E’ ora il momento propizio.
Quando imperversa una crisi ed i vecchi paradigmi vengono squadernati, è il momento di porre mano a costruirne di nuovi.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Documento ineccepibile. Tuttavia non posso dimenticare che, almeno negli ultimi 25 anni, ci sono state molte persone, sia pure a diversi livelli di notorietà e/o autorevolezza, che hanno chiaramente avvertito gli amici in politica dei pericoli ora così ben riassunti da Galbiati. Ovviamente tali profeti sono stati ignorati (le “cipolle d’ Egitto sono attraenti…) ed ora per fare ciò che Galbiati auspica bisogna ricominciare daccapo. Limitatamente al PD penso che anche lo stimato Enrico Letta avrà grande difficoltà a risalire la china. Ci fosse INSIEME non più a livello embrionale si potrebbe avviare una collaborazione nella distinzione come auspica Galbiati. Non resta che sperare.
Il Patito Democratico secondo me è nato dal discorso del Lingotto di Veltroni che in maniera sfumanata echeggiava al Partito Democratico degli Usa. I nostalgici della “ditta” non gradirono e Veltroni fu logorato o si logorò da solo non avendo alle spalle l'”apparato”. Renzi, per evitare rischi pensò di ancorare il partito al socialismo europeo ma fu costretto alla resa dal suo eccesso di sicurezza e se ne è uscito anche per evitare di essere additato come il responsabile di tutti gli insuccessi ormai incombenti. I cattolici che hanno mantenuto l’adesione, compresa Rosi Bindi, sono sopravvissuti senza però alcun apporto di rinnovamento che la sbiadita gestione di Bersani è stata incapace di dare. Il compito di Enrico Letta sarà duro ma se non riuscirà a dare un'”anima” alla eterogeneità del gruppo sarà la fine.
Condivido pienamente l’articolo di Galbiati. Va riconosciuta l’onestà intellettuale della Bindi per le valutazioni sul PD che “non è mai nato”, anche se verrebbe da dire “meglio tardi che mai!”.