Sul famigerato debito pubblico



Daniele Ciravegna    10 Febbraio 2021       1

Da almeno quarant'anni il debito pubblico costituisce lo snodo che condiziona le scelte della politica economica italiana. Da un generico: «questo non si può fare perché l’eccessivo peso del debito pubblico non ce lo permette» a uno specifico: «quell’azione di politica fiscale – ad esempio, una politica fiscale espansiva, necessaria per far crescere domanda aggregata, PIL e occupazione – non è realizzabile perché creerebbe deficit nel bilancio pubblico, che farebbe aumentare il debito pubblico, il che è impensabile» ecc.

Gran parte di ciò che s’individua come necessario per il nostro Paese è bloccato per non creare preoccupazione agli investitori finanziari stranieri, che «potrebbero affossare la nostra economia» (quando poi la quota del debito pubblico posseduta dai non residenti non supera il terzo del totale, e di questo bisognerebbe tener conto anche quando si esecra il fatto che gli interessi sul debito pubblico italiano siano pari al 3-4 per cento del PIL: «un’insopportabile distruzione di ingenti risorse nazionali…»).

Per non parlare del fatto che «il debito pubblico supera il PIL, per cui non è sostenibile»; quando il rapporto fra debito pubblico e PIL è semplicemente un indicatore di dimensione del debito pubblico in termini relativi (come facevano un tempo i geografi che rendevano in termini relativi le grandezze economiche di territori differenti esprimendole per numero di abitanti o per kmq.) e non certo un indicatore di capacità di rimborso di un debito pubblico, poiché – quando il debito pubblico ha una certa dimensione – la predetta capacità non è data dal potenziale gettito di imposte dirette e indirette ordinarie: un ingente debito pubblico (grandezza stock) può essere ripagato, per via fiscale, solo con il ricorso a imposte sul patrimonio privato (anch’essa grandezza stock).

In effetti, di sicuro, il male effettivo del debito pubblico italiano sta nel blocco che esso ha imposto nel dibattito e nell’azione politica: un obiettivo intermedio che blocca il raggiungimento di obiettivi più importanti, quali la crescita del PIL, e occupazione elevata e di buona qualità, che concorrono a formare il bene comune.

Prima di approfondire la conoscenza del fenomeno del debito pubblico, delle sue cause e delle sue conseguenze, utilizziamo semplici considerazioni che riguardano lo stato di benessere di una persona, di una famiglia. A nessuno verrebbe in mente di valutare negativamente il comportamento di una famiglia che s’indebiti per acquistare una casa o un’impresa che s’indebiti per effettuare un investimento fonte di adeguati profitti. Forse più di uno criticherebbe una famiglia che s’indebitasse per acquistare droghe o un’impresa che s’indebitasse per finanziare un investimento fallimentare.

La questione va quindi posta, non in termini contabili di livello del debito, quanto in termini di qualità della spesa a fronte dell’indebitamento. Ovviamente c’è anche un’altra questione: il fatto che le finanze della famiglia siano in grado di sostenere l’operazione; cioè se essa è in grado di rimborsare il prestito e di pagare gli interessi convenuti: con altre parole, se il debito è sostenibile.

Passando al livello macro – quale è il debito pubblico – si può dire che il debito pubblico è un male, non in quanto esiste, ma in quanto, a fronte di esso, vi sia stato un impiego subottimale delle risorse reperite con l’indebitamento pubblico. È sicuramente un male se, per ipotesi, la spesa pubblica è meno produttiva, dal punto di vista del benessere collettivo, della spesa privata, ma quest’ipotesi è tutta da verificare.

Però, come sempre, le considerazioni a livello macro non sono semplicemente quelle del livello micro amplificate per via di un fattore dimensionale. Il debito pubblico, quando nasce e quando si estingue, ha rilevanti effetti redistributivi. Partendo dalla semplice osservazione che il settore pubblico s’indebita quando incassa (sotto forma di imposte, tasse e tariffe di pubblici esercizi) meno di quanto paga (per erogazione di servizi e prestiti, costruzione di opere pubbliche e altri investimenti e trasferimenti unilaterali a famiglie e imprese). Entrate e spese pubbliche che – in quanto i soggetti che contribuiscono alla formazione delle entrate non siano gli stessi a beneficio dei quali vengono effettuate le spese oppure lo siano in modo differente e per le prime e/o per le seconde – svolgono principalmente un’azione, oltre che di produzione o di stimolo alla produzione di certi beni, di redistribuzione del reddito disponibile per i singoli soggetti.

Il deficit del settore pubblico nasce perché lo Stato non ritiene opportuno o non si sente di far pagare dai contribuenti, o a coloro che usufruiscono di servizi pubblici, importi tali da coprire le spese, che non ritiene opportuno o non si sente di comprimere. Una diminuzione di queste ultime o un aumento delle entrare significherebbero una modificazione redistributiva dell’azione economica dello Stato; modificazione a danno di coloro che vedrebbero ridursi i benefici a essi derivanti dalle spese pubbliche per crediti, trasferimenti o servizi pubblici a basso o nullo prezzo, e a danno di coloro che sarebbero chiamati a pagare maggiori imposte, tasse o più care tariffe per servizi pubblici. Il permanere o l’espandersi del deficit pubblico significa mantenere o ampliare gli effetti redistributivi attivi per coloro che beneficiano della spesa pubblica (o che vengono a pagare minori imposte, tasse e tariffe più basse) senza chiedere ad altri soggetti di contribuire contemporaneamente, direttamente e coattivamente, al sostegno dei primi.

Se il deficit venisse coperto con l’emissione di nuova base monetaria (fatto però teoricamente non permesso nell’Area dell’euro) e provocasse, attraverso gli effetti che questa ha sulla domanda di beni, un aumento dell’attività produttiva a prezzi costanti, si avrebbero aumenti del reddito disponibile per i beneficiari del maggior prodotto reale attivato; quindi una redistribuzione in presenza di reddito reale più elevato. Se l’aumento della domanda di beni prodotti dalla maggior quantità di base monetaria determinasse aumento dell’indebitamento del sistema economico con il resto del mondo, si avrebbero effetti redistributivi con il resto del mondo: maggiori importazioni e maggior debito oggi, che comporteranno maggiori esportazioni a parità di importazioni, con il che il debito con l’estero sarà ripagato. Se conseguenza dell’espansione della base monetaria fosse l’inflazione dei prezzi, si avrebbe il formarsi dei fenomeni redistributivi tipici di uno stato inflazionistico: ci guadagnerebbe (perderebbe) chi percepisse redditi o possedesse attività destinati ad aumentare (diminuire) di valore in termini relativi, rispetto ad altri redditi o attività, per effetto dell’aumento generalizzato dei prezzi.

Se il deficit pubblico viene, invece, finanziato con aumento del debito pubblico, si ha semplicemente il rinvio a un domani degli effetti redistributivi dell’azione economica dello Stato. La parte dovuta alla spesa pubblica si attua oggi; la parte dovuta alle entrate viene rinviata; rinviata a danno di coloro che pagheranno imposte, tasse e tariffe tali da permettere il pagamento degli interessi e il rimborso del debito pubblico (e a favore relativo di coloro che non le pagheranno) o, nel caso di annullamento del debito pubblico, a danno di coloro cui lo Stato non rimborserà il prestito avuto (e a favore relativo di coloro che hanno il loro patrimonio impiegato in attività diverse dai crediti verso lo Stato annullati).

Più precisamente, effetti redistributivi si potranno avere al momento della cessazione del debito pubblico, il che dipenderà dalla via attraverso la quale avverrà questa estinzione e cioè:

a) con l’aumento dell’avanzo primario, per effetto di una politica fiscale restrittiva: dipenderà da chi dovrà concorrere all’aumento delle entrate pubbliche e da chi dovrà subire una diminuzione dei benefici derivanti dalla spesa pubblica ridotta. Azione redistributiva all’interno delle generazioni future non si avrebbe se l’estinzione del debito pubblico toccasse nella stessa misura tutti i cittadini; per esempio, pagando tutti imposte nella stessa misura. In questo caso, l’estinzione del debito pubblico porterebbe a un generalizzato decremento del reddito disponibile del settore privato e si potrebbe identificare in questa deflazione del reddito disponibile il peso che le generazioni presenti nel tempo in cui è attivato il debito lasciano alle generazioni future, che lo dovranno rimborsare. Ma se questa deflazione del reddito e della domanda aggregata non piacesse, basterebbe attuare una politica di espansione della domanda aggregata al tempo del rimborso del debito pubblico;

b) con la cessione di beni patrimoniali pubblici e utilizzo del ricavato per rimborsare il debito pubblico: il danno sarà a carico di coloro che godevano di servizi pubblici che svaniscano con la cessione delle attività patrimoniali dello Stato;

c) con la monetizzazione del debito pubblico (debito che viene rimborsato con creazione di nuova base monetaria): se quest’operazione creerà inflazione dei prezzi, varrà ciò che si è già detto supra riguardo agli infetti redistributivi possibili quando si ha inflazione dei prezzi;

d) con l’annullamento del debito pubblico o la sua ristrutturazione: saranno danneggiati i possessori di titoli del debito pubblico totalmente o parzialmente annullati o prolungati nella loro durata o che subiscono tagli sugli interessi fruttati dagli stessi.

L’accensione del debito pubblico non significa quindi un generico rinvio di oneri al futuro, a fronte di vantaggi presenti, ma il rinvio al futuro di parte dell’effetto redistributivo insito nell’azione economica dello Stato: azione redistributiva che si svolge all’interno di ogni generazione (quella in cui nasce il debito e quelle in cui esso viene estinto) e non fra generazione e generazione. Avere presente questo dovrebbe portare un po’ di serenità a coloro che vedono nel debito pubblico un fenomeno d’iniquità intergenerazionale, nel senso che, con l’indebitamento pubblico, «si trasferirebbero alle generazioni future gli oneri delle dilapidazioni fatte dalla generazione presente», o qualcosa del genere.

In termini di effetti di serenità, un aiuto dovrebbe derivare anche dall’avere presente che, se fosse vero che l’indebitamento pubblico costituisce un onere per chi sarà chiamato a pagare per la sua estinzione, si dovrebbe tener conto anche che, a fronte del debito stesso, c’è stata una spesa e questa avrebbe dovuto portare a un aumento della produttività del sistema, per cui le generazioni future riceverebbero, assieme dell’onere del debito, anche il beneficio della maggiore produttività. Si tratta di confrontare oneri e benefici e la sicura condanna del debito pubblico, in quanto esistente, avrebbe un fondamento solo se si assumessero, per definizione, nulli i benefici.

Azione redistributiva all’interno fra le generazioni di un paese si avrebbe però se il debito fosse emesso all’estero, per cui le generazioni future fossero richieste di restituire il credito avuto oggi dall’estero. L’accensione del debito pubblico e la sua estinzione porrebbero in atto una redistribuzione delle risorse fra il paese considerato e il resto del mondo: attiva per la generazione di oggi, la prima (poiché potrebbe godere di utilità pubbliche in misura maggiore delle contribuzioni a favore dello Stato); passiva per la generazione di domani, la seconda (poiché dovrà realizzare un saldo positivo delle partite correnti con l’estero per bilanciare la riduzione della sua posizione finanziaria netta con l’estero. Quindi una redistribuzione attraverso il tempo fra generazioni dello stesso paese. In effetti, solo se il debito pubblico è verso l’estero, il patrimonio netto aggregato del paese segna, per questa parte, un valore negativo che dovrà essere ripagato in futuro. Altrimenti, il debito dello Stato (e dei soggetti chiamati a fornire risorse per rimborsarlo) si compensa con il credito dell’insieme degli stessi operatori. A questo riguardo, mi ricordo di un noto imprenditore che, nel corso di una relazione, lamentava di essere oppresso dal fatto che, «dividendo il valore del debito pubblico italiano per il numero degli italiani, si otteneva che ognuno di noi era gravato di un debito pro capite di 20 milioni di lire», dimenticando di dire che, allo stesso tempo, ogni italiano aveva un credito medio pro capite di 14 milioni (poiché allora il debito verso l’estero era circa del 30 per cento).

Ancora una considerazione (non esaustiva) sul danno che il debito pubblico corrente potrebbe avere sulle generazioni future. Un debito cospicuo potrebbe arrecare un onere per le generazioni future qualora la presenza di questo debito venisse a limitare la possibilità di averne altro in più da parte delle generazioni future o, in altri termini, qualora la presenza di un elevato debito pubblico verso il resto del mondo portasse a più elevati tassi d’interesse che in futuro dovranno essere pagati sul debito attivato in passato e indicizzato ai tassi d’interesse e su quello che dovesse essere acceso in futuro.

Tutto ciò avendo considerato, rimane la domanda se è possibile attenuare il vincolo del debito pubblico in presenza di un rilevate debito pubblico o, in altri termini, come fare a permettere una politica fiscale espansiva senza far aumentare il debito pubblico. La risposta è che si può, e seguendo diverse vie.

Una via è data dal fare diretto riferimento al rapporto Debito pubblico / PIL (che non ha significato effettivo di per sé, ma che comunque viene diffusamente preso in considerazione). Precisamente che si continui ad aumentare il debito pubblico in conseguenza di un deficit di bilancio pubblico che aumenta e che, attivando un moltiplicatore della domanda aggregata che fa aumentare il PIL di due volte l’aumento del deficit pubblico, fa ridurre il rapporto Debito pubblico / PIL – ad esempio, 130/100 che diventa 131/102 = 1,28 e non invece che diventi 129/98 = 1,32, che si avrebbe se se si operasse per ridurre debito pubblico e PIL. Ma questo processo di riduzione del debito pubblico sarebbe di dimensioni contenute e comunque lento nel realizzarsi.

Altra via potrebbe essere un’azione politica concertata a livello europeo che veda il deficit e il debito pubblici calcolati al netto delle spese pubbliche d’investimento e quelle, anche correnti, per sanità, istruzione, giustizia, recupero dei patrimoni ambientali e architettonici; tutte spese che concorrono ad allungare il lato dell’offerta aggregata e non solo il lato della domanda aggregata, come fanno le altre spese correnti. Questa via viene a riconoscere che gli obiettivi e i vincoli di natura meramente quantitativi sono inadeguati; essi devono essere espressi anche in termini qualitativi. Ovviamente questo toglierebbe una parte rilevante del freno a una politica fiscale espansiva, ma farebbe aumentare il debito pubblico; la presenza di quest’ultimo aumento non andrebbe però a bloccare la prima.

Analogamente, la presenza del debito pubblico non andrebbe a indebolire la capacità di attivare una politica fiscale espansiva qualora fosse eliminato l’art. 123 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), che impone il divieto alla BCE e alle singole banche centrali dei singoli Paesi membri dell’«acquisto diretto di titoli del debito degli Stati membri e di tutti gli organismi di diritto pubblico o delle imprese pubbliche [esclusi gli enti creditizi] degli Stati membri», oltre che di concessioni agli stessi soggetti pubblici di «qualsiasi forma di facilitazione creditizia».

Questo divieto ha eliminato la possibilità che il deficit pubblico possa – come è invece lecito per gli stati al di fuori dell’UE (quindi Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Svizzera, Russia, Cina, Giappone, India, Australia, Brasile ecc.) – essere finanziato ricorrendo alla Banca Centrale del Paese, svolgendo quindi la funzione di prestatore di ultima istanza per lo Stato. È questa la conseguenza dell’approccio “ordoliberistico” che è prevalso nel Trattato di Maastricht, prodromo dell’ordinamento in campo monetario e finanziario dell’UE, basato sul credo che gli Stati sono soggetti pericolosi per la stabilità macroeconomica qualora possano contare sull’esistenza di un prestatore di ultima istanza a cui poter ricorrere. In assenza di quest’ultimo, si ha un rilevante vincolo per l’impiego della politica fiscale espansiva; vincolo che è stato però attenuato, per i paesi dell’Area dell’euro, con la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il quale può accordare linee di credito e prestiti (compresi acquisto di titoli del debito pubblico) agli Stati dell’Area dell’euro che abbiano difficoltà di finanziamento, ma non la fa creando nuova base monetaria – come lo farebbe la BCE – bensì attingendo risorse dai mercati finanziari.

Al fine di eliminare la spada di Damocle che pende sulla testa degli stati con forte debito pubblico è stato anche proposto che i titoli del debito pubblico, che la BCE acquista sui mercati secondari, vengano annullati o trasformati in rendita irredimibile con tasso d’interesse minimo, che la BCE retrocederebbe al singolo Stato, ciò che peraltro già oggi la BCE fa. La spada di Damocle scomparirebbe.

Un’altra via perseguibile ancora sarebbe evinta dallo Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC) e della BCE (art. 14, comma 4): «Le banche centrali nazionali possono svolgere funzioni diverse da quelle specificate nel presente Statuto, a meno che il Consiglio Direttivo decida, con la maggioranza dei due terzi dei votanti, che tali unzioni interferiscono con gli obiettivi e i compiti del SEBC. Tali funzioni sono svolte sotto la piena responsabilità delle banche centrali nazionali e non sono considerate come facenti parte del SEBC».

Mi domando come la maggioranza dei due terzi del Consiglio Direttivo del SEBC potrebbe – sul piano politico – cassare l’iniziativa della banca centrale di un Paese volta a evitare lo strangolamento della sua economia – con evidenti forti ricadute negative occupazionali e sociali – causato da una politica di austerità imposta dalle istituzioni dell’Unione Europea per rispettare supposti obiettivi di stabilità finanziaria che – alla luce di una corretta interpretazione teleologica dell’art. 3 del Trattato dell’UE (TUE) e sempre che si sia in presenza di stabilità dei prezzi – sono secondari rispetto agli obiettivi primari della piena occupazione e del progresso sociale, alla realizzazione dei quali gli stessi SEBC e BCE (ai sensi dell’art. 2 del proprio statuto) hanno il dovere di concorrere!

Ma perché lo Stato di un Paese dell’Unione Europea non può emettere, lui stesso, mezzi monetari a sola circolazione interna nel Paese stesso, con cui pagare merci, servizi e uso dei fattori produttivi acquisiti per produrre consumi pubblici o per realizzare investimenti pubblici o per trasferimenti a favore di famiglie e imprese interne e che lo Stato, per primo, accetta in pagamento di imposte, tasse e tariffe di servizi pubblici? Gli Stati e le banche centrali diverse dalla BCE non possono emettere banconote a corso legale per tutta l’Eurozona (art. 128 del TFUE), ma nulla vieta l’emissione di biglietti di Stato a sola circolazione interna al singolo Paese.

In altre parole, lo Stato crea una “criptomoneta” (la moneta legale rimane l’euro) emessa per finanziare una politica monetaria espansiva, a parità di moneta legale e senza che il deficit di bilancio vada a toccare la massa del debito pubblico redimibile. Criptomonete attualmente sono create solo da soggetti privati e non sono liberamente spendibili, ma hanno un campo d’impiego fissato dal soggetto che le crea e accettato da chi le utilizza. La criptomoneta creata dallo Stato potrebbe avere il vincolo dell’impiego limitato allo scambio di beni (merci e servizi) all’interno del Paese e il divieto dell’accesso ai mercati finanziari.

Sarebbe il modo per realizzare una politica fiscale espansiva senza creare né euro né debito pubblico redimibile e sottraendosi così alla morsa dei mercati finanziari internazionali. D’altra parte, perché ridurre la fattispecie della moneta ai soli debiti bancari (della Banca Centrale e delle banche ordinarie)?

Fattibile? Sì, lo dimostrano diversi casi nella storia. Il più rilevante, in epoca contemporanea, fu il Programma MEFO, creato da Hjalmar Schacht, Ministro dell’economia tedesco dal 1934 al 1937. Chi vendeva beni allo Stato tedesco non riceveva marchi, ma cambiali MEFO, che potevano circolare nell’economia ed essere scontate presso la Reichsbank, venendo a costituire uno strumento monetario parallelo. In questo modo, la spesa pubblica potè svolgere un’azione espansionistica senza far aumentare la circolazione monetaria legale, bloccata dall’austerità deflattiva del Governo Bruning, dopo la forte inflazione vissuta nel corso della Repubblica di Weimar, figlia delle sanzioni punitive contenute nel Trattato di Versailles del 1919. Il Programma MEFO costituì lo strumento per la rinascita dell’economia tedesca nel primo periodo del Regime nazista; strumento di crescita dell’economia e dell’occupazione ma, ahimè, anche del riarmo dello Stato nazista.

Ovviamente occorre essere molto attenti a non fare della moneta di Stato uno strumento che crei inflazione dei prezzi, come avvenne con gli assignat della Rivoluzione francese e con le monete inconvertibili dei Paesi belligeranti nel corso della Prima e della Seconda guerra mondiale. Occorre che sia gestito per stimolare la domanda aggregata, evitando però, ovviamente, che essa sia spinta oltre il potenziale produttivo del sistema economico. Lord Keynes riconobbe a Schacht di aver creato un meccanismo che consisteva «nel risolvere il problema eliminando l’uso di una moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto fra diverse unità economiche. In tal modo, riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l’apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando. Tale innovazione funzionò bene, straordinariamente bene».

Meccanismo pericoloso? Non di più dello strangolamento dell’economia da parte di un sistema che non permette a questa di uscire da uno stato di folle austerità, in un momento in cui l’economia soffre i una grande scarsità di domanda di beni prodotti rispetto alle risorse di lavoro e di capitale che ha a disposizione. Purché – vincolo che deve sempre esserci – i beni che vengono prodotti siano di elevata qualità personale e sociale.

È un meccanismo delicato, che occorre gestire molto accuratamente affinché non sfugga di mano. Che sia efficace dipende anche, in modo rilevante, dall’autorevolezza del Governo che lo mette in pratica; autorevolezza sia all’interno del Paese sia, ancor più oggigiorno, a livello europeo e mondiale.


1 Commento

  1. Un bellissimo articolo che farà meditare tutti i fautori di soluzioni semplicistiche in economia. Mi ricorda l’analogia con quanto succede in campo tecnico/energetico dove le soluzioni semplicistiche imperversano e dove l’equilibrio tra le varie fonti è sistematicamente ignorato.

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