2011-2021, tutto è cambiato in questo decennio, tranne la vocazione del centrosinistra a continuare a ripetere i propri errori. Allora sbagliò con Bersani a dare l’abbrivio al governo Monti anziché puntare al voto anticipato (creando le condizioni per l’exploit di Grillo), oggi lo fa con Zingaretti che, obtorto collo, è costretto a prendere atto della vittoria su tutti i fronti del corsaro della politica Renzi (e dei suoi sodali Verdini, Berlusconi e Salvini), e a digerire il sostegno a Draghi al posto del ricorso anticipato alle urne. Perché quest'ultima sarebbe la conclusione più lineare dell’esperienza del governo giallo-rosso: andare subito al voto con un’alleanza di centrosinistra allargata al Movimento Cinque Stelle con Giuseppe Conte candidato a premier e a capo di una propria lista.
Ma le analogie col 2011 finiscono qui. Allora veramente si sarebbe potuto ancora salvare l’Europa dei padri fondatori, contrastando sul nascere lo strapotere tedesco, ponendo un’alternativa secca: o trasferimenti fiscali all’interno dell’Eurozona oppure scioglimento dell’euro. Le cose andarono diversamente, la Germania impose l’austerità con la quale iniziò il crollo delle economie dei Paesi mediterranei, accompagnato dall’olocausto della Grecia. E come ringraziamento all’Italia, per essersi svenata pur di ricomporre i cocci del progetto europeista, Berlino impose alla guida del governo italiano un mero esecutore delle sue politiche austeritarie e colonizzatrici, il senatore Monti. Mossa mitigata solo in parte dalla contromossa del potere da sempre antitetico a quello tedesco, ovvero quello dei nostri amici e liberatori angloamericani, consistita nell’ottenimento della nomina a presidente della Banca centrale europea di un esponente di primissimo ordine del loro establishment, Mario Draghi.
Per capire in quale situazione ci siamo cacciati e con chi abbiamo a che fare, non bisogna mai dimenticare che senza Draghi, e il suo whatever it takes, l’euro sarebbe già imploso da tempo o in alternativa, per effetto di un rigorismo cieco, avremmo già avuto l’esplosione di rivolte sociali. La Germania infatti si conferma storicamente incapace di guida ogni qual volta conquista l’egemonia in Europa, e indisponibile a cambiare la propria linea. Per quest’ultima ragione, si potrebbe dire, paradossalmente, che il progetto europeo non potrà riprendere finché la Germania non verrà di nuovo, e meritatamente, smembrata in più parti.
Mentre Conte è stato il presidente del Consiglio, che come De Gasperi alla Conferenza di Parigi, ha cercato di ottenere la massima clemenza possibile dal rigore del piano pandemico globale, attuando restrizioni il meno possibile nocive dal punto di vista socioeconomico, e ha tergiversato sui presunti “aiuti europei” (MES, Recovery Plan) che in realtà costituiscono un cavallo di Troia per accentuare il condizionamento eurotedesco sul governo italiano (essendo più che sufficiente la garanzia BCE, guidata dalla francese di formazione americana Lagarde, sul nostro debito pubblico), Mario Draghi, se otterrà i voti necessari in parlamento, sarà il premier a cui toccherà una importante missione internazionale per conto del sistema di potere angloamericano (soprattutto britannico visto che la democrazia americana stenta ad uscire dallo stato comatoso in cui è precipitata dopo il voto): quella di fare da argine allo strapotere tedesco, un pericolo costante per l’Europa e per il mondo, accresciuto dalla sua stretta alleanza con la superpotenza cinese.
Se Draghi da premier si atterrà agli obiettivi da lui indicati pubblicamente dopo la conclusione del suo mandato alla BCE, come quello di politiche espansive finalizzate, questa volta, all’economia reale; le banche, finanziate dai governi, che erogano tutta la liquidità alle imprese necessaria alla ripresa, finirà inevitabilmente per porsi in rotta di collisione con la Germania. Il pensiero va in particolare a quanto Draghi scrisse sul “Financial Times” del 25 marzo 2020, sostenendo la necessità per gli Stati di fronte alla crisi pandemica e socioeconomica di fare molta spesa pubblica e pure in fretta, onde evitare che la situazione degeneri in modo “irreversibile”. Ciò equivale ad una aperta sedizione nei confronti dell’Europa “tedesca”, dove le suddette misure, al massimo le ha prese la Nazione egemone, ma sono state espressamente interdette agli altri Stati. E nel contempo significa, auspicabilmente in alleanza con gli altri Paesi del Sud Europa, porre in discussioni le basi su cui si fonda l’euro.
Si vedrà se la composita maggioranza che, eventualmente, lo sosterrà, permetterà a Draghi di arrivare a una tale resa dei conti definitiva con la Germania. Se dovesse riuscire nell’impresa “impossibile” (ma quanto mai auspicabile da tutti noi europeisti) di porre le basi per la messa in comune del debito, Mario Draghi diverrebbe il George Washington europeo. Altrimenti potrebbe comunque guadagnarsi un posto di rilievo fra i Padri della Patria. Perché quello che gli è stato affidato con saggezza e lungimiranza dal Capo dello Stato Mattarella, si presenta come un compito di portata storica in un’ora di eccezionale gravità.
Ma le analogie col 2011 finiscono qui. Allora veramente si sarebbe potuto ancora salvare l’Europa dei padri fondatori, contrastando sul nascere lo strapotere tedesco, ponendo un’alternativa secca: o trasferimenti fiscali all’interno dell’Eurozona oppure scioglimento dell’euro. Le cose andarono diversamente, la Germania impose l’austerità con la quale iniziò il crollo delle economie dei Paesi mediterranei, accompagnato dall’olocausto della Grecia. E come ringraziamento all’Italia, per essersi svenata pur di ricomporre i cocci del progetto europeista, Berlino impose alla guida del governo italiano un mero esecutore delle sue politiche austeritarie e colonizzatrici, il senatore Monti. Mossa mitigata solo in parte dalla contromossa del potere da sempre antitetico a quello tedesco, ovvero quello dei nostri amici e liberatori angloamericani, consistita nell’ottenimento della nomina a presidente della Banca centrale europea di un esponente di primissimo ordine del loro establishment, Mario Draghi.
Per capire in quale situazione ci siamo cacciati e con chi abbiamo a che fare, non bisogna mai dimenticare che senza Draghi, e il suo whatever it takes, l’euro sarebbe già imploso da tempo o in alternativa, per effetto di un rigorismo cieco, avremmo già avuto l’esplosione di rivolte sociali. La Germania infatti si conferma storicamente incapace di guida ogni qual volta conquista l’egemonia in Europa, e indisponibile a cambiare la propria linea. Per quest’ultima ragione, si potrebbe dire, paradossalmente, che il progetto europeo non potrà riprendere finché la Germania non verrà di nuovo, e meritatamente, smembrata in più parti.
Mentre Conte è stato il presidente del Consiglio, che come De Gasperi alla Conferenza di Parigi, ha cercato di ottenere la massima clemenza possibile dal rigore del piano pandemico globale, attuando restrizioni il meno possibile nocive dal punto di vista socioeconomico, e ha tergiversato sui presunti “aiuti europei” (MES, Recovery Plan) che in realtà costituiscono un cavallo di Troia per accentuare il condizionamento eurotedesco sul governo italiano (essendo più che sufficiente la garanzia BCE, guidata dalla francese di formazione americana Lagarde, sul nostro debito pubblico), Mario Draghi, se otterrà i voti necessari in parlamento, sarà il premier a cui toccherà una importante missione internazionale per conto del sistema di potere angloamericano (soprattutto britannico visto che la democrazia americana stenta ad uscire dallo stato comatoso in cui è precipitata dopo il voto): quella di fare da argine allo strapotere tedesco, un pericolo costante per l’Europa e per il mondo, accresciuto dalla sua stretta alleanza con la superpotenza cinese.
Se Draghi da premier si atterrà agli obiettivi da lui indicati pubblicamente dopo la conclusione del suo mandato alla BCE, come quello di politiche espansive finalizzate, questa volta, all’economia reale; le banche, finanziate dai governi, che erogano tutta la liquidità alle imprese necessaria alla ripresa, finirà inevitabilmente per porsi in rotta di collisione con la Germania. Il pensiero va in particolare a quanto Draghi scrisse sul “Financial Times” del 25 marzo 2020, sostenendo la necessità per gli Stati di fronte alla crisi pandemica e socioeconomica di fare molta spesa pubblica e pure in fretta, onde evitare che la situazione degeneri in modo “irreversibile”. Ciò equivale ad una aperta sedizione nei confronti dell’Europa “tedesca”, dove le suddette misure, al massimo le ha prese la Nazione egemone, ma sono state espressamente interdette agli altri Stati. E nel contempo significa, auspicabilmente in alleanza con gli altri Paesi del Sud Europa, porre in discussioni le basi su cui si fonda l’euro.
Si vedrà se la composita maggioranza che, eventualmente, lo sosterrà, permetterà a Draghi di arrivare a una tale resa dei conti definitiva con la Germania. Se dovesse riuscire nell’impresa “impossibile” (ma quanto mai auspicabile da tutti noi europeisti) di porre le basi per la messa in comune del debito, Mario Draghi diverrebbe il George Washington europeo. Altrimenti potrebbe comunque guadagnarsi un posto di rilievo fra i Padri della Patria. Perché quello che gli è stato affidato con saggezza e lungimiranza dal Capo dello Stato Mattarella, si presenta come un compito di portata storica in un’ora di eccezionale gravità.
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