Il rapporto ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) 2020 sul consumo di suolo in Italia ci dice che la progressiva cementificazione del territorio non si ferma, anche se rispetto agli anni del boom edilizio si osserva un certo rallentamento. Tuttavia, continuiamo a cementificare 2 m² di terreno al secondo, il che equivale ad altri 57 km² di territorio perduti nel corso dell’anno.
La cosa singolare, anzi forse l’aspetto più grave del problema, è che questa bulimia costruttiva è oramai totalmente disgiunta dalle esigenze effettive: aveva un senso costruire a ritmi elevati negli anni del dopoguerra, per riedificare un paese raso al suolo dagli eventi bellici, o negli anni del boom demografico, quando le famiglie si allargavano e la popolazione aumentava, o quando l’immigrazione interna spostava una massa di persone alle quali era poi necessario fornire una nuova abitazione. Ma oggi nulla di tutto questo si verifica, anzi da tempo l’offerta abitativa e la disponibilità di edifici è di gran lunga superiore alla domanda, eppure si continua a costruire, per alimentare un settore edilizio in costante crisi proprio a causa della saturazione del mercato.
Paradossalmente, si continua a cementificare per tenere in piedi l’industria del cemento e tutto quello che vi ruota intorno, malaffare compreso. Qualcosa di evidentemente insostenibile, anche perché tutto ciò comporta la continua erosione di terreni fertili, che fatalmente vengono sottratti ad altre attività produttive, come l’agricoltura o l’allevamento. Oppure, semplicemente, si finisce col perdere tutta quella serie di servizi ecosistemici che il suolo libero garantisce, dall’assorbimento delle acque piovane alla ricarica delle falde acquifere, dall’assorbimento dell’anidride carbonica alla tutela della biodiversità. Servizi che la natura ci fornisce gratuitamente ma che, se vengono a mancare, paghiamo molto cari, basti pensare all’incremento di eventi alluvionali dovuti in buona parte al mancato assorbimento delle acque piovane da parte di superfici un tempo libere e oggi impermeabilizzate da cemento e asfalto.
Ma analizziamo nel dettaglio questo “bollettino di guerra” che elenca i territori perduti.
In generale, il rapporto ISPRA ci segnala che, a fronte di 420.000 nuovi nati, nel 2019 abbiamo cementificato 57 milioni di metri quadri di suolo, ovvero 135 metri quadrati per ogni neonato. Le nuove costruzioni avanzano ovunque, anche nelle zone dichiarate a rischio sismico e idrogeologico, in barba al buon senso e alla prudenza. Persino nelle aree protette prosegue l’aggressione cementifera, anche se con ritmi dimezzati.
La Valle d’Aosta, che ha cementificato “solo” 3 ettari di territorio, avvicinandosi all’obbiettivo di “Consumo di suolo zero”, viene indicata come esempio virtuoso, ma non bisogna dimenticare che si tratta di una regione di piccole dimensioni e prevalentemente montuosa, dove il poco territorio pianeggiante è già pesantemente costruito e carico di infrastrutture.
Per contro, la Sicilia primeggia nell’edificazione in aree dichiarate a pericolosità idraulica media, ma la tendenza è diffusa ovunque, segno che le recenti tragedie non hanno insegnato nulla. I dati aggiornati al 2019 ci dicono che, a livello nazionale, risulta impermeabilizzato il 10% delle aree a pericolosità idraulica media P2 (con tempo di ritorno degli eventi catastrofici tra 100 e 200 anni) e quasi il 7% di quelle classificate a pericolosità elevata P3 (con tempo di ritorno tra 20 e 50 anni). La Liguria è la regione con il valore assoluto più alto di suolo impermeabilizzato in aree a pericolosità idraulica (quasi il 30%). Il cemento ricopre anche il 4% delle zone a rischio frana, il 7% di quelle a rischio sismico elevato e più del 4% di quelle a rischio sismico molto elevato.
Analizzando il dettaglio regionale, osserviamo che il Veneto, con 785 ettari edificati, è la regione che nel 2019 consuma più suolo (anche se meno che nel 2017 e 2018). A seguire Lombardia (+642 ettari), Puglia (+625), Sicilia (+611) ed Emilia-Romagna (+404). A livello comunale, è Roma a guidare la classifica, con +108 ettari, seguita da Cagliari (+58) e Catania (+48). Fanno meglio Milano, Firenze e Napoli, dove il consumo è inferiore a un ettaro, mentre Torino, dopo la decrescita registrata nel 2018, non riesce a confermare il trend positivo e riprende a costruire, perdendo 5 ettari di suolo naturale.
Come anticipato sopra, il consumo di suolo avanza anche nelle aree protette con 61,5 ettari di nuove costruzioni, valore dimezzato rispetto all’anno precedente, dei quali 14,7 ettari nel Lazio e 10,3 in Abruzzo. Va peggio lungo le coste che, pur essendo già edificate per circa un quarto della superficie totale, vedono un tasso di cementificazione doppio o triplo rispetto al resto del territorio.
La perdita costante di suolo fertile si traduce parallelamente in una diminuzione progressiva della produzione agricola. La stima ci dice che, tra il 2012 e il 2019, la perdita complessiva si aggira intorno ai 3.700.000 quintali, suddivisi in 2 milioni e mezzo di quintali di prodotti da seminativi, seguiti dalle foraggere (-710.000 quintali), dai frutteti (-266.000), dai vigneti (-200.000) e dagli oliveti (-90.000) con un danno economico valutato sui 7 miliardi di euro.
Sono dati che andrebbero tenuti in maggior considerazione quando si fanno le stime economiche. Infatti, se da un lato è vero che l’edilizia è in grado di creare molti posti di lavoro, motivo per cui si punta ostinatamente su questo settore nei momenti di crisi, è altrettanto vero che questa progressiva erosione di suolo fertile finisce col provocare perdite – produttive, economiche e non ultimo occupazionali – in altri comparti, a partire da quello agricolo fino ad arrivare a quello enogastronomico, passando per allevamento e industria della trasformazione alimentare.
Settori che rappresentano una voce fondamentale della nostra bilancia economica e che stiamo assurdamente indebolendo: vale la pena ricordare che l’Italia è famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari tipiche dei vari territori, per cui appare veramente insensato e controproducente continuare a sacrificare terreno fertile, magari per costruire centri commerciali dove smerciare prodotti di qualità mediocre e di provenienza straniera.
Nel conteggio costi / benefici bisogna poi inserire i vantaggi dei servizi ecosistemici citati in precedenza, forniti gratuitamente dai suoli naturali, ma che possono essere comunque valutati in termini economici su cifre dell’ordine dei miliardi di euro, che evidentemente sfumano con l’impermeabilizzazione dei terreni. Se poi aggiungiamo i danni degli eventi catastrofici, che ormai si ripetono con frequenza crescente e che vengono amplificati proprio dall’eccesso di cementificazione di un territorio già fragile per sua natura, ecco che i presunti vantaggi di questa politica del costruire a oltranza si rivelano del tutto inesistenti e sono invece le perdite a risultare maggiori.
Intendiamoci, nessuno intende bloccare il settore edile, perché significherebbe causare un notevole danno economico e soprattutto occupazionale. Semplicemente, è necessario indirizzare il lavoro in modo tale da garantire il consumo di suolo zero, ovvero edificando su terreni già impermeabilizzati e puntando sulle ristrutturazioni e riqualificazioni del patrimonio immobiliare esistente. Una fetta di mercato considerevole, che diventa ancor più appetibile con l’entrata in vigore del cosiddetto “superbonus” edilizio al 110%.
La cosa singolare, anzi forse l’aspetto più grave del problema, è che questa bulimia costruttiva è oramai totalmente disgiunta dalle esigenze effettive: aveva un senso costruire a ritmi elevati negli anni del dopoguerra, per riedificare un paese raso al suolo dagli eventi bellici, o negli anni del boom demografico, quando le famiglie si allargavano e la popolazione aumentava, o quando l’immigrazione interna spostava una massa di persone alle quali era poi necessario fornire una nuova abitazione. Ma oggi nulla di tutto questo si verifica, anzi da tempo l’offerta abitativa e la disponibilità di edifici è di gran lunga superiore alla domanda, eppure si continua a costruire, per alimentare un settore edilizio in costante crisi proprio a causa della saturazione del mercato.
Paradossalmente, si continua a cementificare per tenere in piedi l’industria del cemento e tutto quello che vi ruota intorno, malaffare compreso. Qualcosa di evidentemente insostenibile, anche perché tutto ciò comporta la continua erosione di terreni fertili, che fatalmente vengono sottratti ad altre attività produttive, come l’agricoltura o l’allevamento. Oppure, semplicemente, si finisce col perdere tutta quella serie di servizi ecosistemici che il suolo libero garantisce, dall’assorbimento delle acque piovane alla ricarica delle falde acquifere, dall’assorbimento dell’anidride carbonica alla tutela della biodiversità. Servizi che la natura ci fornisce gratuitamente ma che, se vengono a mancare, paghiamo molto cari, basti pensare all’incremento di eventi alluvionali dovuti in buona parte al mancato assorbimento delle acque piovane da parte di superfici un tempo libere e oggi impermeabilizzate da cemento e asfalto.
Ma analizziamo nel dettaglio questo “bollettino di guerra” che elenca i territori perduti.
In generale, il rapporto ISPRA ci segnala che, a fronte di 420.000 nuovi nati, nel 2019 abbiamo cementificato 57 milioni di metri quadri di suolo, ovvero 135 metri quadrati per ogni neonato. Le nuove costruzioni avanzano ovunque, anche nelle zone dichiarate a rischio sismico e idrogeologico, in barba al buon senso e alla prudenza. Persino nelle aree protette prosegue l’aggressione cementifera, anche se con ritmi dimezzati.
La Valle d’Aosta, che ha cementificato “solo” 3 ettari di territorio, avvicinandosi all’obbiettivo di “Consumo di suolo zero”, viene indicata come esempio virtuoso, ma non bisogna dimenticare che si tratta di una regione di piccole dimensioni e prevalentemente montuosa, dove il poco territorio pianeggiante è già pesantemente costruito e carico di infrastrutture.
Per contro, la Sicilia primeggia nell’edificazione in aree dichiarate a pericolosità idraulica media, ma la tendenza è diffusa ovunque, segno che le recenti tragedie non hanno insegnato nulla. I dati aggiornati al 2019 ci dicono che, a livello nazionale, risulta impermeabilizzato il 10% delle aree a pericolosità idraulica media P2 (con tempo di ritorno degli eventi catastrofici tra 100 e 200 anni) e quasi il 7% di quelle classificate a pericolosità elevata P3 (con tempo di ritorno tra 20 e 50 anni). La Liguria è la regione con il valore assoluto più alto di suolo impermeabilizzato in aree a pericolosità idraulica (quasi il 30%). Il cemento ricopre anche il 4% delle zone a rischio frana, il 7% di quelle a rischio sismico elevato e più del 4% di quelle a rischio sismico molto elevato.
Analizzando il dettaglio regionale, osserviamo che il Veneto, con 785 ettari edificati, è la regione che nel 2019 consuma più suolo (anche se meno che nel 2017 e 2018). A seguire Lombardia (+642 ettari), Puglia (+625), Sicilia (+611) ed Emilia-Romagna (+404). A livello comunale, è Roma a guidare la classifica, con +108 ettari, seguita da Cagliari (+58) e Catania (+48). Fanno meglio Milano, Firenze e Napoli, dove il consumo è inferiore a un ettaro, mentre Torino, dopo la decrescita registrata nel 2018, non riesce a confermare il trend positivo e riprende a costruire, perdendo 5 ettari di suolo naturale.
Come anticipato sopra, il consumo di suolo avanza anche nelle aree protette con 61,5 ettari di nuove costruzioni, valore dimezzato rispetto all’anno precedente, dei quali 14,7 ettari nel Lazio e 10,3 in Abruzzo. Va peggio lungo le coste che, pur essendo già edificate per circa un quarto della superficie totale, vedono un tasso di cementificazione doppio o triplo rispetto al resto del territorio.
La perdita costante di suolo fertile si traduce parallelamente in una diminuzione progressiva della produzione agricola. La stima ci dice che, tra il 2012 e il 2019, la perdita complessiva si aggira intorno ai 3.700.000 quintali, suddivisi in 2 milioni e mezzo di quintali di prodotti da seminativi, seguiti dalle foraggere (-710.000 quintali), dai frutteti (-266.000), dai vigneti (-200.000) e dagli oliveti (-90.000) con un danno economico valutato sui 7 miliardi di euro.
Sono dati che andrebbero tenuti in maggior considerazione quando si fanno le stime economiche. Infatti, se da un lato è vero che l’edilizia è in grado di creare molti posti di lavoro, motivo per cui si punta ostinatamente su questo settore nei momenti di crisi, è altrettanto vero che questa progressiva erosione di suolo fertile finisce col provocare perdite – produttive, economiche e non ultimo occupazionali – in altri comparti, a partire da quello agricolo fino ad arrivare a quello enogastronomico, passando per allevamento e industria della trasformazione alimentare.
Settori che rappresentano una voce fondamentale della nostra bilancia economica e che stiamo assurdamente indebolendo: vale la pena ricordare che l’Italia è famosa nel mondo per le sue eccellenze alimentari tipiche dei vari territori, per cui appare veramente insensato e controproducente continuare a sacrificare terreno fertile, magari per costruire centri commerciali dove smerciare prodotti di qualità mediocre e di provenienza straniera.
Nel conteggio costi / benefici bisogna poi inserire i vantaggi dei servizi ecosistemici citati in precedenza, forniti gratuitamente dai suoli naturali, ma che possono essere comunque valutati in termini economici su cifre dell’ordine dei miliardi di euro, che evidentemente sfumano con l’impermeabilizzazione dei terreni. Se poi aggiungiamo i danni degli eventi catastrofici, che ormai si ripetono con frequenza crescente e che vengono amplificati proprio dall’eccesso di cementificazione di un territorio già fragile per sua natura, ecco che i presunti vantaggi di questa politica del costruire a oltranza si rivelano del tutto inesistenti e sono invece le perdite a risultare maggiori.
Intendiamoci, nessuno intende bloccare il settore edile, perché significherebbe causare un notevole danno economico e soprattutto occupazionale. Semplicemente, è necessario indirizzare il lavoro in modo tale da garantire il consumo di suolo zero, ovvero edificando su terreni già impermeabilizzati e puntando sulle ristrutturazioni e riqualificazioni del patrimonio immobiliare esistente. Una fetta di mercato considerevole, che diventa ancor più appetibile con l’entrata in vigore del cosiddetto “superbonus” edilizio al 110%.
Sentiamo continuamente parlare di “sviluppo sostenibile”, ma dubito che la più parte di chi ne parla sappia che cosa significhi. Certamente comprende la tutela del suolo agricolo, forestale ed anche di quel libero suolo improduttivo che garantisce l’assorbimento delle acque piovane. L’obiettivo consumo di suolo zero è una priorità insieme alla progressiva marcata riduzione delle emissioni di CO2 e all’arresto della deforestazione nelle aree tropicali ed equatoriali. Ricordiamoci che il tempo per raggiungere tali obiettivi non è illimitato perché il processo di deterioramento ambientale e climatico corre veloce (più dell’innovazione tecnologica tesa a contenerlo) sicché di tempo per agire potrebbe non essercene più molto, prima che certi processi diventino irreversibili.
QUALI POLITICI E ECONOMISTI DEBBONO DARE DELLE RISPOSTE E SOLUZIONI CONCRETE? IN QUESTO CLIMA DI LITIGIOSITA’ CONTINUO, AL BENE COMUNE CHI PENSA? CHI LEGGE LE VOSTRE ANALISI? PERCHE’LA TV PUBLICA NON PORTA A CONOSCENZA E PRENDE POSIZIONE SU QUESTI TEMI? GRAZIE
E un’emergenza di cui la maggioranza silenziosa poco si preoccupa a causa della complice disinformazione dei media unita alla disattenzione della politica troppo impegnata dai suoi giochetti di (sotto)potere. Perché non chiediamo alla TV di stato di pubblicare anche i dati esposti nell’esemplare articolo di Graziano? In fondo non ha il consumo di suolo caratteri pandemici come ol Covid-19 sui cui effetti riceviamo ansiogeni aggiornamenti quotidiani?