Che fine hanno fatto le riforme? Dovevano essere la premessa, la condizione essenziale per accedere ai fondi europei, l’esigenza primaria del Paese, il primo impegno del governo, la ragione stessa dei partiti, l’esigenza avvertita da tutti. Ma che fine hanno fatto?
La presidente della Commissione Europea Ursula van der Leyen, bontà sua, lo ha ripetuto in una conferenza all’Università Bocconi di Milano: “Solo con le giuste riforme l’Italia può ripartire”.
Anche Draghi lo ripeteva sempre quando era presidente della Banca Centrale Europea e comperava titoli “what ever it takes” ma ammoniva: se non si fanno le riforme tutto questo non basta. Lo stesso presidente Mattarella non perde occasione per ricordarlo in ogni intervento importante. E così le categorie sociali con in testa il neo presidente degli industriali Carlo Bonomi, che vorrebbero dipingere come il disturbatore di turno e che invece si limita con fermezza a chiedere quello che governo e partiti avevano promesso.
Eppure di riforme ne parlano tutti e tutti i giorni, persino coloro che dovrebbero farle e si limitano invece ad evocarle ad ogni occasione, come l’onorevole Di Maio che è al governo ormai da tempo e nella intervistona al “Foglio” dice che bisogna fare le riforme. Tutti insieme, maggioranza e opposizioni, cioè l’intera classe politica militante che sembra un mondo ormai non più emendabile, incapace di uscire dagli stanchi e trafelati riti di gestione dell’esistente.
A ben vedere le premesse c’erano tutte per muoversi, dai lavori della Commissione Colao spariti nel nulla, ai pretenziosi “Stati generali” voluti da Conte e rimasti pure sulla carta. Sarebbe stato sufficiente cominciare sul serio a lavorare su alcuni schemi di legge-delega: la riforma della pubblica amministrazione, quella della giustizia penale e civile, la riforma del mercato del lavoro e quella della scuola tanto per citare i settori che frenano la crescita del Paese e dove sono più evidenti i ritardi. Né si dica che la colpa è del Covid che ha bloccato tutto, anche se ha richiesto e richiede l’impegno quotidiano del governo. Certo un po’ meno quello dei parlamentari e dei partiti.
Il confronto in questi giorni riguarda altro: l’improbabile rimpasto di governo; una nuova legge elettorale; i veti dei Cinque Stelle; il nuovo “ Fondo Salva Stati” o MES per il quale eravamo arrivati addirittura in procinto di porre il veto a Bruxelles per la riforma (ipotesi per fortuna caduta). Anche per i progetti da presentare in Europa (in ritardo, come al solito) per non perdere l’opportunità senza precedenti di massicci investimenti pubblici e privati si discute di una “cabina di regia” composta dal presidente, due ministri e sei manager. Nemmeno li sfiora la possibilità di coinvolgere l’opposizione e magari anche i poteri locali in questa scelta per dare un significato comune e forte alla grande occasione per il Paese.
Si parla, a due giorni dalla scadenza del contratto di affitto vigente con la multinazionale Mittal, sulla sorte della ex Ilva di Taranto, la grande acciaieria che lentamente si sta spegnendo, dove sembra ormai deciso l’intervento dello Stato nel capitale con una quota rilevante, alla faccia delle privatizzazioni che dopo lo scempio di Alitalia sembrano riportarci indietro nel tempo cioè alla pratica delle sovvenzioni pubbliche. Altro che riforme, “questi cercano una birreria” avrebbe detto Cossiga.
Intanto l’attuale funzionamento della pubblica amministrazione, non quella degli alti livelli, ma quella degli sportelli e degli uffici periferici suscita la rabbia degli utenti perchè riesce a bloccare anche i “ristori” decisi dal governo con i dipendenti che a metà lavorano in smart working, cioè da casa, e nello stesso tempo minacciano uno sciopero. Intanto della riforma di alcuni nodi del funzionamento della giustizia, dopo la tempesta sul CSM, è tutto finito e non se ne parla più. Intanto il mercato del lavoro è ingessato, e tutelati continuano ad essere solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato con regolare contratto e non anche l’esercito in crescita dei precari, tanto per citarne un aspetto. Per non parlare dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
Le riforme aspettano, come il tenente Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati che tutti i giorni scrutava l’orizzonte dalla fortezza Bastiani, in una sterminata landa desertica, in attesa di un segnale che non veniva mai.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
La presidente della Commissione Europea Ursula van der Leyen, bontà sua, lo ha ripetuto in una conferenza all’Università Bocconi di Milano: “Solo con le giuste riforme l’Italia può ripartire”.
Anche Draghi lo ripeteva sempre quando era presidente della Banca Centrale Europea e comperava titoli “what ever it takes” ma ammoniva: se non si fanno le riforme tutto questo non basta. Lo stesso presidente Mattarella non perde occasione per ricordarlo in ogni intervento importante. E così le categorie sociali con in testa il neo presidente degli industriali Carlo Bonomi, che vorrebbero dipingere come il disturbatore di turno e che invece si limita con fermezza a chiedere quello che governo e partiti avevano promesso.
Eppure di riforme ne parlano tutti e tutti i giorni, persino coloro che dovrebbero farle e si limitano invece ad evocarle ad ogni occasione, come l’onorevole Di Maio che è al governo ormai da tempo e nella intervistona al “Foglio” dice che bisogna fare le riforme. Tutti insieme, maggioranza e opposizioni, cioè l’intera classe politica militante che sembra un mondo ormai non più emendabile, incapace di uscire dagli stanchi e trafelati riti di gestione dell’esistente.
A ben vedere le premesse c’erano tutte per muoversi, dai lavori della Commissione Colao spariti nel nulla, ai pretenziosi “Stati generali” voluti da Conte e rimasti pure sulla carta. Sarebbe stato sufficiente cominciare sul serio a lavorare su alcuni schemi di legge-delega: la riforma della pubblica amministrazione, quella della giustizia penale e civile, la riforma del mercato del lavoro e quella della scuola tanto per citare i settori che frenano la crescita del Paese e dove sono più evidenti i ritardi. Né si dica che la colpa è del Covid che ha bloccato tutto, anche se ha richiesto e richiede l’impegno quotidiano del governo. Certo un po’ meno quello dei parlamentari e dei partiti.
Il confronto in questi giorni riguarda altro: l’improbabile rimpasto di governo; una nuova legge elettorale; i veti dei Cinque Stelle; il nuovo “ Fondo Salva Stati” o MES per il quale eravamo arrivati addirittura in procinto di porre il veto a Bruxelles per la riforma (ipotesi per fortuna caduta). Anche per i progetti da presentare in Europa (in ritardo, come al solito) per non perdere l’opportunità senza precedenti di massicci investimenti pubblici e privati si discute di una “cabina di regia” composta dal presidente, due ministri e sei manager. Nemmeno li sfiora la possibilità di coinvolgere l’opposizione e magari anche i poteri locali in questa scelta per dare un significato comune e forte alla grande occasione per il Paese.
Si parla, a due giorni dalla scadenza del contratto di affitto vigente con la multinazionale Mittal, sulla sorte della ex Ilva di Taranto, la grande acciaieria che lentamente si sta spegnendo, dove sembra ormai deciso l’intervento dello Stato nel capitale con una quota rilevante, alla faccia delle privatizzazioni che dopo lo scempio di Alitalia sembrano riportarci indietro nel tempo cioè alla pratica delle sovvenzioni pubbliche. Altro che riforme, “questi cercano una birreria” avrebbe detto Cossiga.
Intanto l’attuale funzionamento della pubblica amministrazione, non quella degli alti livelli, ma quella degli sportelli e degli uffici periferici suscita la rabbia degli utenti perchè riesce a bloccare anche i “ristori” decisi dal governo con i dipendenti che a metà lavorano in smart working, cioè da casa, e nello stesso tempo minacciano uno sciopero. Intanto della riforma di alcuni nodi del funzionamento della giustizia, dopo la tempesta sul CSM, è tutto finito e non se ne parla più. Intanto il mercato del lavoro è ingessato, e tutelati continuano ad essere solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato con regolare contratto e non anche l’esercito in crescita dei precari, tanto per citarne un aspetto. Per non parlare dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
Le riforme aspettano, come il tenente Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati che tutti i giorni scrutava l’orizzonte dalla fortezza Bastiani, in una sterminata landa desertica, in attesa di un segnale che non veniva mai.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
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