La pandemia ci interroga sulla libertà



Giuseppe Ladetto    1 Dicembre 2020       0

Nei discorsi dei protagonisti della politica, non solo italiana, ricorre continuamente il termine libertà. Ma a quale libertà si fa riferimento?

Nel pieno della pandemia, di fronte alle misure di “confinamento” (lockdown per chi ha dimenticato il vocabolario italiano) tese a limitare la diffusione del contagio, abbiamo sentito da molti denunciare la perdita della libertà e accuse di autoritarismo nei confronti di quanti hanno introdotto o giustificato dette misure. Ne deduco che ci siano in giro idee molto diverse su che cosa voglia dire libertà.

La libertà, nella classica definizione adottata dai liberali, significa poter fare tutto quanto il singolo individuo desidera fin tanto che ciò non limiti la libertà degli altri. I comportamenti che favoriscono il contagio certamente ledono la salute e di conseguenza limitano la libertà altrui. Pertanto, tale definizione sembra fare chiarezza.

Tuttavia, fra quanti rifiutano le misure di contenimento, non mancano coloro che non riescono a vedere la relazione tra tali misure e il contagio. Questo fatto lascia perplessi per la miopia che caratterizza tali persone, ma considerando la questione su un piano più ampio e più generale, si fanno evidenti limiti e lacune che non rendono più adeguato il concetto di libertà caro ai liberali.

Infatti, ha scritto Hans Jonas che la tecnica moderna, insieme alla globalizzazione, ha enormemente dilatato la distanza temporale e spaziale tra le nostre azioni e gli effetti prodotti, sicché oggi diventa sempre più difficile collegare cause ed effetti. I nostri atti quotidiani possono aver ricadute negative in Paesi lontani, o andare in futuro a gravare pesantemente sui nostri nipoti e pronipoti, senza che ce ne rendiamo conto. I singoli individui non sono pertanto più in grado di valutare tutte le conseguenze dei loro atti, e quindi non possono sapere se e di quanto questi entrino in conflitto con la libertà altrui. Inoltre, la nostra responsabilità non riguarda solo gli altri esseri umani, ma l'intero creato.

Occorre quindi cercare una nuova definizione della libertà, impresa ardua anche per qualificati uomini di pensiero, e quindi totalmente al di fuori delle mie capacità. Possiamo tuttavia considerare un altro aspetto della questione. La libertà (come è oggi concepita) può entrare in conflitto con riferimenti o valori altrettanto degni di considerazione. In primo luogo con l'eguaglianza.

Tuttavia i liberali non vedono opposizione tra eguaglianza e libertà, perché l’eguaglianza è da loro concepita come condizione di fronte alla legge, o, al massimo, è intesa rispetto ai punti di partenza, mentre non riguarda le condizioni di vita. Ma la sola eguaglianza di fronte alla legge è palesemente insufficiente, e inoltre finisce per non essere reale per i soggetti socialmente più deboli. Altrettanto irrealizzabile è l'eguaglianza dei punti di partenza perché sono troppi e non governabili i fattori che determinano la formazione della persona umana, e del giovane in particolare.

Anni fa, Walter Veltroni disse di voler combattere la povertà e non la ricchezza, ricevendo applausi dai molti vip che amano definirsi progressisti. Forse alludeva a una povertà assoluta, da terzo mondo, di cui non mancano esempi nel nostro Paese, fortunatamente al momento ancora limitati. Tuttavia, oggi nel ricco Occidente, la povertà è da intendersi sempre in senso relativo. Attiene alle differenze, nasce dal confronto con gli altri. In una società dove il messaggio dei media propone, come accessibili a tutti, gli stili di vita fondati sulla ricchezza e sul possesso di status symbol, povertà vuole dire restare indietro, essere esclusi da questa società del successo e dei consumi. Combattere la povertà non significa solo accrescere le possibilità di quanti stanno più in basso, ma richiede di realizzare più eguaglianza diminuendo le distanze, e quindi limitando la ricchezza eccessiva. Ricordo che Adriano Olivetti introdusse nelle sue aziende il moltiplicatore dieci per definire la distanza massima tra gli stipendi dei dirigenti e il salario degli operai di più bassa categoria.

C'è poi il conflitto tra la libertà e la sicurezza. Con quest'ultimo termine non si intende il solo aspetto relativo all’ordine pubblico, perché la sicurezza abbraccia anche la certezza e l’affidabilità del lavoro, il poter far conto su mezzi di sostentamento adeguati, la solidità dei legami familiari, il possedere punti di riferimento certi nell’ambiente sociale in cui si vive. La crescita della libertà, sia nella sfera economica che in quella esistenziale, indebolisce la sicurezza in tutti i suoi aspetti, e viceversa.

La libertà intesa come rifiuto dei legami che ostacolano la realizzazione dei propri progetti di vita si accompagna male anche con la fratellanza che implica sempre il farsi carico dei problemi di chi ci è vicino, con tutti gli obblighi e le rinunce che ciò comporta. La fratellanza infatti ci riconduce alla comunità (una comunità di destino secondo la definizione di Stefano Zamagni), in cui l’aiuto reciproco è un dovere, così come è un diritto ricevere l’aiuto richiesto, senza mettere in campo alcuna valutazione dei vantaggi e degli oneri che ne possono conseguire. Tuttavia, della comunità oggi non rimane molto, ma coloro che sentono come un peso anche il poco che ne resta (come i liberisti e i libertari) inevitabilmente mettono da parte la fratellanza insieme all'eguaglianza. E altrettanto si può dire riguardo a quanti sono sempre disponibili a cogliere le opportunità ovunque si presentino, non manifestando più alcun sentimento di appartenenza a qualsivoglia luogo e tipo di comunità.

Viene da chiedersi se tutti quanti assumono la libertà come valore prioritario siano consapevoli della contrapposizione in cui essa si trova con gli altri valori citati e, in caso affermativo, se ritengano necessario definire dei punti di equilibrio tra i riferimenti, ciò che sarebbe molto ragionevole.

Si tratta però di una impresa non facile perché non esistono punti di equilibrio universalmente validi. Le culture e le storie dei vari popoli conducono a valutazioni differenti, ciò che rende assurda la pretesa occidentale di imporre a tutti la propria scala di valori e i propri modi di vita.

Oltre a ciò, c'è un altro aspetto che assume rilevanza all'interno di ogni Paese. Zygmunt Bauman ci ha detto (come ho già riferito in altro scritto) che il rapporto di segno negativo esistente tra libertà e sicurezza assume rilevanza diversa percorrendo la scala sociale. Ai vertici, fra i membri dell’élite, la crescita della libertà incide minimamente sulla perdita di sicurezza; al contrario, al fondo della scala sociale, la crescita della libertà ha effetti dirompenti sulle condizioni di sicurezza considerata in tutti i suoi aspetti. Ne consegue che la libertà è posta come obiettivo prioritario da chi vive nel benessere, mentre viene messa in subordine alla sicurezza da chi lotta quotidianamente con grande difficoltà per sopravvivere. La stessa cosa accade nel rapporto tra libertà ed eguaglianza. Le élite nel definire un equilibrio pongono l'accento soprattutto sulla libertà; i ceti popolari sull'eguaglianza.

È compito della politica definire il punto di equilibrio (o realizzare un compromesso) tra i valori in questione sapendo che è pressoché impossibile trovare una soluzione che soddisfi tutte le categorie sociali e quanti hanno dell'essere umano differenti concezioni. Quindi, a seconda di dove fisseranno il punto di equilibrio, le forze politiche si definiranno rispetto al potenziale elettorato.

Qui la classica distinzione destra-sinistra non sembra essere di aiuto. Ad esempio, se consideriamo la coppia libertà-sicurezza, la vecchia dicotomia, per la quale la sicurezza è di destra e la libertà è di sinistra, non funziona più. Infatti, sono proprio i ceti che tradizionalmente si riconoscevano nella sinistra a privilegiare oggi la sicurezza, mentre, all'estrema destra, si rifiutano, in nome della libertà, gli obblighi posti dalla pandemia. Nella dicotomia libertà-eguaglianza, un tempo le destre si schieravano per la libertà, le sinistre per l'eguaglianza. Oggi, invece, la libertà individuale sembra essere diventata una priorità anche per larga parte della sinistra.

È opinione di molti che, nella ricerca degli eventuali punti di equilibrio tra i valori citati, le attese della classe media (definita l'indispensabile sostegno delle istituzioni liberaldemocratiche) debbano costituire il riferimento privilegiato. Di qui l'importanza del “centro”, non solo punto intermedio tra destra e sinistra, ma naturale area in cui si riconosce la predetta categoria sociale. Tuttavia, oggi, la classe media è in crisi, si assottiglia, e parte di essa ha abbandonato l'area “moderata” per assumere posizioni di contestazione di un'élite mondialista che, con le continue aperture, la ha penalizzata. Ne consegue che il “centro” perde di importanza: non è più la posizione strategica indispensabile per ogni coalizione.

Quindi le forze politiche, per essere credibili, dovranno abbandonare le generiche indicazioni di valori, e caratterizzarsi proprio in base al peso relativo che daranno a ciascuno di questi. In particolare, il richiamo a una libertà non definita nei suoi contenuti e nei rapporti con gli altri valori finisce per essere semplice retorica.

In materia, merita attenzione quanto ha scritto il cardinale Ratzinger (non ancora Pontefice): “Il concetto di libertà nell’epoca moderna ha assunto diversi tratti mitici. La libertà non di rado viene concepita in modo anarchico e semplicemente anti-istituzionale, e così diviene un idolo: la libertà umana può essere sempre solo la libertà del giusto rapportarsi reciproco, la libertà nella giustizia, altrimenti diventa menzogna e conduce alla schiavitù”.


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