Giuseppe Ladetto, nel suo ultimo articolo qui pubblicato, con grande chiarezza pone e contestualizza in termini geopolitici la questione fondamentale: dove sta andando l’Europa? Una domanda elusa anche di fronte all’emergenza sanitaria, ma alla quale è impossibile sottrarsi per uscire dalla inaudita crisi in cui ci troviamo. La sua conclusione, che è nel contempo una proposta, è quella di invocare una sorta di cooperazione rafforzata attorno al motore franco-tedesco capace di superare l’immobilismo dell’UE a 27, alimentato anche dalla diversità di impegno nel progetto europeo dei Paesi dell’Est.
Si tratta di una prospettiva senz’altro suggestiva ma, a mio modesto avviso, forse non altrettanto praticabile, per mancanza di alcuni presupposti. La prima condizione, infatti, dovrebbe esser quella di avere una Germania capace di fare sintesi degli interessi diversi e talora contrapposti tra Frugali e Mediterranei. Dopo la riunificazione tedesca, invece, si è visto anziché una Germania all’angolo, una Nazione che da subito ha preso le redini della casa comune europea, esercitando la sua guida nell’unico modo in cui appare capace di farlo: condividendo le regole del mercantilismo e dell’ordoliberismo, per lei favorevoli o addirittura vitali, a tutti gli altri partner dell’UE, con un impatto maggiore per quelli nell’Eurozona.
Da questo sono nati gli squilibri strutturali che hanno reso più accidentato il sentiero europeo in questo secolo: l’aumento delle divergenze fra Stati, frutto di regole economiche e monetarie che hanno determinato un continuo trasferimento di ricchezza dalle aree più periferiche a quella centrale.
Una dinamica che – dispiace molto doverlo riconoscere – non è cambiata neanche all’insorgere della crisi pandemica. Gli accordi europei del luglio scorso rappresentano sicuramente un passo in avanti sotto diversi punti di vista (e soprattutto per un futuribile esito finale legato alla restituzione dei debiti che non esclude l’opzione della loro condivisione a livello comunitario) ma non sfuggono ai limiti insiti della guida tedesca dell’Europa, che si è verificata nell’ultimo ventennio. Tali “aiuti europei” o sono sovvenzioni, e dunque partite di giro, soldi degli stati membri versati al bilancio dell’Unione, oppure sono debiti che andranno restituiti. E le risorse mobilitate attraverso il Next Generations Eu sono complessivamente nell’ordine di alcune centinaia di miliardi a fronte di necessità di qualche migliaia.
Il fattore veramente nuovo ed efficace, credo invece che non vada ricercato nella disponibilità tedesca a farsi carico dei problemi, che si è vista poco, bensì nell’azione esercitata dalla BCE come prestatrice di ultima istanza, di fatto e nonostante i divieti e i limiti cui deve sottostare.
L’attualità lo conferma. Il ricorso al MES viene ormai respinto da tutti, compreso dal presidente Conte per l’Italia. È iniziata pure la fuga dal Recovery Fund, con Portogallo e Spagna che già intendono rinunciare alla parte a debito (70 miliardi per Madrid) di tale fondo, e con la Francia che sembra orientata a fare altrettanto. Nel contempo nel solo anno in corso la BCE ha comprato 210 miliardi di titoli italiani, con una previsione d’acquisto per l’anno prossimo di circa 150. E così Francoforte fa per tutti i Paesi. Questi sono i veri aiuti europei. E per questa via che si arriva all’unità europea, con la condivisione del debito.
Ma la Germania lo vuole veramente oppure il suo disegno è un altro, magari in compagnia dei miliardari delle Big Tech e della Cina comunista? Se il governo di Berlino crede di più nella prospettiva di una Germania europea, anziché in quella di un’Europa tedesca, ha l’occasione di dimostrarlo in questa delicatissima fase, accettando che la BCE si comporti come tutte le altre banche centrali del pianeta. Se invece rispunteranno le sirene di Karlsruhe, vale a dire i paletti alla monetizzazione del debito, allora, ogni ulteriore passo in quella direzione comporterà rischi di tenuta sociale, economica e finanche democratica per i Paesi meridionali.
È fuori discussione l’enorme influenza che avranno le vicende elettorali americane sui futuri sviluppi del percorso di integrazione europea. Ma il vero ostacolo all’unità europea mi pare rimanga la Germania, non gli Stati Uniti, i quali di fronte ad una concreta volontà di europeizzazione da parte tedesca non potrebbero che prenderne atto.
Si tratta di una prospettiva senz’altro suggestiva ma, a mio modesto avviso, forse non altrettanto praticabile, per mancanza di alcuni presupposti. La prima condizione, infatti, dovrebbe esser quella di avere una Germania capace di fare sintesi degli interessi diversi e talora contrapposti tra Frugali e Mediterranei. Dopo la riunificazione tedesca, invece, si è visto anziché una Germania all’angolo, una Nazione che da subito ha preso le redini della casa comune europea, esercitando la sua guida nell’unico modo in cui appare capace di farlo: condividendo le regole del mercantilismo e dell’ordoliberismo, per lei favorevoli o addirittura vitali, a tutti gli altri partner dell’UE, con un impatto maggiore per quelli nell’Eurozona.
Da questo sono nati gli squilibri strutturali che hanno reso più accidentato il sentiero europeo in questo secolo: l’aumento delle divergenze fra Stati, frutto di regole economiche e monetarie che hanno determinato un continuo trasferimento di ricchezza dalle aree più periferiche a quella centrale.
Una dinamica che – dispiace molto doverlo riconoscere – non è cambiata neanche all’insorgere della crisi pandemica. Gli accordi europei del luglio scorso rappresentano sicuramente un passo in avanti sotto diversi punti di vista (e soprattutto per un futuribile esito finale legato alla restituzione dei debiti che non esclude l’opzione della loro condivisione a livello comunitario) ma non sfuggono ai limiti insiti della guida tedesca dell’Europa, che si è verificata nell’ultimo ventennio. Tali “aiuti europei” o sono sovvenzioni, e dunque partite di giro, soldi degli stati membri versati al bilancio dell’Unione, oppure sono debiti che andranno restituiti. E le risorse mobilitate attraverso il Next Generations Eu sono complessivamente nell’ordine di alcune centinaia di miliardi a fronte di necessità di qualche migliaia.
Il fattore veramente nuovo ed efficace, credo invece che non vada ricercato nella disponibilità tedesca a farsi carico dei problemi, che si è vista poco, bensì nell’azione esercitata dalla BCE come prestatrice di ultima istanza, di fatto e nonostante i divieti e i limiti cui deve sottostare.
L’attualità lo conferma. Il ricorso al MES viene ormai respinto da tutti, compreso dal presidente Conte per l’Italia. È iniziata pure la fuga dal Recovery Fund, con Portogallo e Spagna che già intendono rinunciare alla parte a debito (70 miliardi per Madrid) di tale fondo, e con la Francia che sembra orientata a fare altrettanto. Nel contempo nel solo anno in corso la BCE ha comprato 210 miliardi di titoli italiani, con una previsione d’acquisto per l’anno prossimo di circa 150. E così Francoforte fa per tutti i Paesi. Questi sono i veri aiuti europei. E per questa via che si arriva all’unità europea, con la condivisione del debito.
Ma la Germania lo vuole veramente oppure il suo disegno è un altro, magari in compagnia dei miliardari delle Big Tech e della Cina comunista? Se il governo di Berlino crede di più nella prospettiva di una Germania europea, anziché in quella di un’Europa tedesca, ha l’occasione di dimostrarlo in questa delicatissima fase, accettando che la BCE si comporti come tutte le altre banche centrali del pianeta. Se invece rispunteranno le sirene di Karlsruhe, vale a dire i paletti alla monetizzazione del debito, allora, ogni ulteriore passo in quella direzione comporterà rischi di tenuta sociale, economica e finanche democratica per i Paesi meridionali.
È fuori discussione l’enorme influenza che avranno le vicende elettorali americane sui futuri sviluppi del percorso di integrazione europea. Ma il vero ostacolo all’unità europea mi pare rimanga la Germania, non gli Stati Uniti, i quali di fronte ad una concreta volontà di europeizzazione da parte tedesca non potrebbero che prenderne atto.
Dario Fabbri ha scritto, su La Stampa del 22/5/20, che “gli Stati Uniti, per volontà degli apparati federali, si mantengono ostili alla Russia perché temono che riconoscere il Cremlino come partner legittimo metterebbe a rischio il loro controllo sull’Europa, tuttora il continente decisivo del pianeta.” Da questa affermazione emergono due cose. 1) La Russia è uno spauracchio che l’America agita per giustificare e mantenere salda in Europa la sua presenza militare unitamente al controllo politico. 2) A decidere la politica estera del paese, sono gli apparati federali, in particolare quelli securitari. Un cambio di presidenza (oggi come ieri) non muta nella sostanza la politica del paese, che è dettata dalle ragioni su cui si regge il suo status di grande potenza con l’ambizione di mantenere ancora a lungo la condizione di paese leader planetario. Ciò riguarda anche l’atteggiamento americano verso l’Europa (ancora oggi il continente decisivo del pianeta), che non è mutato nel tempo e che alcuni anni fa, Barbara Spinelli ha così sintetizzato : “Questo matrimonio europeo non s’ha da fare né domani, né mai”.
Faccio inoltre una considerazione riguardante l’economia, malgrado sia per me un terreno ostico in cui mi avventuro con difficoltà. Da quanto ho avuto modo di leggere in materia, mi sono fatto la convinzione che a dettar legge in questo ambito continui ad essere quel finanzcapitalismo di stretta marca anglosassone che ha inondato il mondo di segni monetari che circolano senza produrre né beni materiali, né servizi reali. Mi pare invece che la Germania abbia dato vita a quel capitalismo sociale di mercato più attento alle esigenze delle imprese manifatturiere ed alle strategie economiche a lungo termine, capace di mantenere un dialogo con il sindacato e le comunità territoriali (poteri regionali e locali, e società civile). Forse l’economia sociale di mercato può coesistere con logiche di sapore mercantilistico, ma comunque la preferisco ad un liberismo sfrenato.
La politica internazionale si regge in gran parte su equilibri delicatissimi, contorti e ambigui, generati da una rivalità fra le potenze di tutti contro tutti. Questo non è necessariamente un male, se le opposte ambizioni sono dosate come i diversi ingredienti di una pietanza che è l’interesse universale alla pace.
Dunque vi sono senz’altro gli elementi descritti dal Fabbri, la cui visione, a mio avviso, si fonda su un presupposto che non trova conferma nei fatti, che la Germania possa costituire il motore dell’unificazione europea.
Nel contempo coesistono come in un gioco di specchi, dinamiche in antitesi a quelle indicate dall’amico Ladetto. Se è vero che gli Stati Uniti tendono ad agitare strumentalmente lo spauracchio della Russia, nel contempo si deve rilevare una mai superata ambiguità tedesca e dunque dell’Ue (nonostante i significativi distinguo di Francia e Italia) nei confronti della Russia. Non solo Washington ma anche Berlino usa la Russia. La usa, appoggiando i timori della Polonia, dei Baltici, dell’Ucraina occidentale circa una presunta minaccia russa, e in tal modo cerca di legare a sè lo spazio di mezzo europeo, che continua a considerare come Lebensraum. L’ambizione della Germania, delle élites attuali che hanno sostituito la classe dirigente del dopoguerra, quella dei Brandt e dei Kohl che perseguiva una Germania europea anziché un’Europa tedesca, è l’egemonia euroasiatica, dando come acquisito ormai il proprio controllo sull’intera Europa. Si tratta di un progetto revanchista e nazionalista, camuffato da argomenti falsamente europeisti. E l’alleanza con la Cina costituisce per la Germania lo strumento per lanciare la sfida frontale agli Stati Uniti, riaprendo in sostanza la Seconda Guerra Mondiale.
Vista da Mosca la questione appare nei seguenti termini: la Russia alla fine teme di più le mire da superpotenza globale della Germania, che compete nello stesso angolo di mondo della Russia, piuttosto che la contrapposizione con gli Stati Uniti con i quali, dopotutto, può coesistere.
Purtroppo, l’economia non fa che aggiungere benzina sul fuoco a un quadro geopolitico già di per sè incendiario, esacerbato, se possibile, dalla pandemia. Il modello renano di capitalismo, certamente preferibile a quello anglosassone, appartiene ormai a un’altra epoca. La Germania in questo secolo ha messo il turbo alla sua economia con le armi di una competizione commerciale internazionale sleale, basata sulla deflazione salariale e sul soffocamemto delle altre maggiori economie europee sue dirette concorrenti attraverso politiche monetarie di favore. Il successo tedesco, anche ai nostri giorni, appare innegabile. Ma è un trionfo che sta comportando la frantumazione per collasso economico e sociale dell’Unione Europea e che sta mettendo, ancora una volta, a dura prova il mantenimento della pace mondiale. Nella società tedesca, per fortuna, non mancano le forze consapevoli del fatto che queste politiche alla fine si ritorceranno duramente contro la Germania: con quelle forze occorre riannodare il dialogo per fare insieme quel salto di qualità che serve per un’Europa unita: la condivisione del debito e la definitiva rinuncia alle suggestioni imperiali di singoli Paesi membri.
Concordo con l’amico Davicino che la politica internazionale si regga su equilibri delicatissimi, contorti e ambigui. Ho segnalato in un mio precedente articolo le ambiguità e le contraddizioni della politica tedesca nei confronti della Russia. Mi lascia invece perplesso l’affermazione che Mosca tema più Berlino di quanto la preoccupi l’ostilità americana; ed altrettanto l’ipotesi di alleanza tra Germania e Cina. In questi giorni, sono stati firmati importanti accordi tra Russia e Cina, aperti anche ad una collaborazione sul terreno militare, un fatto che indica chiaramente quale sia la minaccia comune avvertita dai due Paesi.
Su La Stampa del 4/7/2020, Lucio Caracciolo ha scritto che, al di là delle mosse che sono dettate sul momento da esigenze particolari, tipo la campagna elettorale di Trump che lo induce ad inasprire lo scontro con Pechino, “per le élite strategiche di Washington questa è la partita del secolo. Perderla significa rinunciare al primato mondiale….L’obiettivo è chiaro: abbattere il regime del Partito comunista e frammentare la Cina, riportandola alla condizione di totale inconsistenza geopolitica sperimentata per il secolo del disonore, fra metà Ottocento e metà Novecento. Consapevole di ciò Xi Jinping è sulla difensiva: sollecita l’orgoglio patriottico e mobilita le masse nel sacro richiamo alla protezione del territorio nazionale”.
Rispetto alla Russia, qualche tempo fa, Jean de Gliniasty, già ambasciatore francese a Mosca, ha ricordato che negli USA è sempre vigente la dottrina Brzezinski per la quale è indispensabile privare la Russia del controllo di Ucraina e Bielorussia per ridimensionarne il ruolo di grande potenza.
Disgregare la Cina, così come la Russia, è l’obiettivo di chi vuole mantenere la leadership planetaria. Francamente ritengo illusorio immaginare che in questo disegno imperiale ci sia spazio per un’Europa unificata che inevitabilmente si sottrarrebbe al controllo del Paese egemone superandolo in vari ambiti.
Ritengo che la prospettiva geopolitica che traspare dal quadro dialettico Ladetto – Davicino non sia confortante. Tutte le nazioni del mondo (associate o meno in alleanze più o meno ormai tendenti alla destrutturazione) sembrano sempre più avviate, in un quadro sempre più dinamico, ma, almeno apparentemente, scarsamente tendente ad essere semplificatorio e solidamente costruttivo di nuovi ordini, al carpe diem, al vivere alla giornata escogitando, a seconda delle situazioni, abbozzi di politica internazionale i cui effetti sembrano destinati, giorno per giorno, ad apparire sempre meno dotati di un credibile ubi consistam. Il caso fortutito e la forza maggiore (condizioni dell’ambiente naturale in primis) sembrano tenere in mano la situazione, che così, geopoliticamente, sembra ormai ridursi a diversive scaramucce quotidiane (Francia, Turchia, etc.) di paesi che, a torto o a ragione, si ritengono dotate di una certa “muscolarità”, col risultato che sembra restare aperta ad ogni possibile previsione (rectius: imprevedibilità) a medio o lungo termine.