Interpretare gli umori popolari presume sensibilità e talento, sosteneva il grande attore teatrale Piero Mazzarella. Questo assioma vale anche in politica: il riscontro del voto referendario e di quello regionale ci induce a pensare che la lungimiranza non sempre coincide con i risultati attesi: il voto è condizionato da contingenze persino imprevedibili, ciò che è accaduto negli ultimi mesi, l’incidenza della pandemia, le paure e le emotività, direi il soggettivo e il relativo piuttosto che le stime oggettive e i sondaggi. Ho notato una grande ansia anticipatoria per l’esito del voto: una rincorsa ad azzeccare pronostici, le simulazioni del voto, le proiezioni, e prima di tutto questo le attese nella loro apparente logica evidenza.
Nulla è andato come ci si attendeva: speriamo che questo induca aruspici e maghi degli scenari postumi a più miti pretese. Sarebbe l’ora che la gente andasse al seggio in pace senza l’assillo dell’induzione coatta.
La vittoria del Sì era scontata, ma il recupero del No ha avuto le sembianze di un fiume carsico che ha attraversato il Paese: si può anche affermare che mentre il si era atteso come esito ineludibile di una lunga deriva di protesta contro la casta, il lento crescere del No è stato il risultato di un ripensamento, di una riflessione, un voto di testa e non di pancia. Come nei fatti grandi e piccoli della Storia l’alternanza di ragioni e di mistificazione potrà recare disegni imperscrutabili: i 5Stelle hanno battuto il tasto dei privilegi da cancellare ma non credo che i ragionamenti di Sabino Cassese, Cesare Mirabelli, Carlo Cottarelli, Romano Prodi, Valter Veltroni, Pierferdinando Casini e poi Liliana Segre, l’appello di don Ciotti celassero reconditi progetti di restaurazione né che fossero ispirati a moti di ribellione giacobini.
Va detto che in Parlamento si era votata in fretta una legge (poi sottoposta a referendum confermativo) sull’onda di suggestioni emotive piuttosto che di riflessioni pacate e ispirate a gradualità e a una chiara visione del ‘dopo’. È successo persino che chi aveva votato No alla Camere si sia convertito a un furtivo si dell’ultima ora, peraltro non suffragato dall’adesione del proprio elettorato: si è calcolato che il 55 % degli elettori PD abbia depositato nell’urna un voto di dissenso verso il risucchio demagogico dell’alleato di governo. Di converso – osserverebbe Machiavelli – il Sì dei due leader del centrodestra ha sparigliato le carte tra gli elettori leghisti e di FDI, tanto è verso che il No è risultato vincente in Veneto e Friuli, note roccaforti destrorse. È successo di tutto anche nel voto regionale: unire un referendum nazionale al rinnovo di 6 Regioni non è stata una scelta ortodossa, si sono mescolate scelte di fondo come i futuri assetti parlamentari con le preponderanti figure dei Governatori, una personalizzazione del voto oltre le alleanze e i singoli schieramenti. Una storia già vista e vissuta proprio in piena pandemia, per le note contrapposizioni e i distinguo sui DPCM governativi, con relativi forti contenziosi e dissensi nelle scelte operative.
Certamente l’esecutivo e il suo premier escono rafforzati poiché non si è consolidata una spinta alternativa: il centrodestra governa più Regioni, gli equilibri si sono ribaltati ma resta predominante la richiesta di stabilità. Esce sconfitta l’Italia a regime parlamentare e si rafforza la deriva localistica e di decentramento autarchico. Compulsioni contraddittorie che necessiteranno di una ricomposizione. Nonostante lacune, incertezze e ritardi (sulle scuole, ad esempio, e non è poco) Conte porta a casa un risultato che evidenzia la mancanza di vie altrimenti praticabili, il Recovery Fund e – ci si augura – il MES imporranno una trasparenza e una decisione nelle scelte che l’Europa ci impone. Permangono le contraddizioni sul dopo voto referendario: il rischio è di transitare da una casta ad una supercasta a impronta oligarchica: da troppi anni i nomi dei leader nei simboli di partito esprimono una concezione proprietaria del potere: sapere che il DDL di riforma elettorale depositato alla Camera dal Governo prevede i listini bloccati e l’esclusione delle preferenze comporta il rischio di una democrazia decapitata proprio nel suo focus generativo, “quel potere che appartiene al popolo”, come recita la Costituzione. Qui i giochi si faranno duri e rischiosi e non è detto che tutto ciò che ora appare assodato e in discesa non trovi ostacoli capaci di creare scompensi sui principi fondamentali del nostro assetto istituzionale. Mattarella vigila pensoso ma ci sono molte mine vaganti intorno a lui. Cosi, dopo aver ancora una volta sentito dire che hanno vinto tutti e aver ridotto il discrimine tra il Sì e il No alle categorie del giusto e dello sbagliato, del buono e del cattivo, si riposizionano tutti ai nastri di partenza: nella parcellizzazione del voto che sarà ulteriormente implementata dalla scelta del proporzionale c’è spazio per tutte le soluzioni. Resta il fatto che la democrazia della Terza Repubblica è altrettanto bloccata quanto lo erano il bipartitismo imperfetto e il bipolarismo mai decollato.
Aspettando Godot ognuno può dire ciò che vuole e paventare scenari fantasmagorici: in questa dissolvenza di alleanze e di emergenza di primazie ci starebbe pure il ritorno di un centro popolare e moderato, che porti stabilità e visione di un modello sociale che nessuno adesso riesce ad esprimere.
Nulla è andato come ci si attendeva: speriamo che questo induca aruspici e maghi degli scenari postumi a più miti pretese. Sarebbe l’ora che la gente andasse al seggio in pace senza l’assillo dell’induzione coatta.
La vittoria del Sì era scontata, ma il recupero del No ha avuto le sembianze di un fiume carsico che ha attraversato il Paese: si può anche affermare che mentre il si era atteso come esito ineludibile di una lunga deriva di protesta contro la casta, il lento crescere del No è stato il risultato di un ripensamento, di una riflessione, un voto di testa e non di pancia. Come nei fatti grandi e piccoli della Storia l’alternanza di ragioni e di mistificazione potrà recare disegni imperscrutabili: i 5Stelle hanno battuto il tasto dei privilegi da cancellare ma non credo che i ragionamenti di Sabino Cassese, Cesare Mirabelli, Carlo Cottarelli, Romano Prodi, Valter Veltroni, Pierferdinando Casini e poi Liliana Segre, l’appello di don Ciotti celassero reconditi progetti di restaurazione né che fossero ispirati a moti di ribellione giacobini.
Va detto che in Parlamento si era votata in fretta una legge (poi sottoposta a referendum confermativo) sull’onda di suggestioni emotive piuttosto che di riflessioni pacate e ispirate a gradualità e a una chiara visione del ‘dopo’. È successo persino che chi aveva votato No alla Camere si sia convertito a un furtivo si dell’ultima ora, peraltro non suffragato dall’adesione del proprio elettorato: si è calcolato che il 55 % degli elettori PD abbia depositato nell’urna un voto di dissenso verso il risucchio demagogico dell’alleato di governo. Di converso – osserverebbe Machiavelli – il Sì dei due leader del centrodestra ha sparigliato le carte tra gli elettori leghisti e di FDI, tanto è verso che il No è risultato vincente in Veneto e Friuli, note roccaforti destrorse. È successo di tutto anche nel voto regionale: unire un referendum nazionale al rinnovo di 6 Regioni non è stata una scelta ortodossa, si sono mescolate scelte di fondo come i futuri assetti parlamentari con le preponderanti figure dei Governatori, una personalizzazione del voto oltre le alleanze e i singoli schieramenti. Una storia già vista e vissuta proprio in piena pandemia, per le note contrapposizioni e i distinguo sui DPCM governativi, con relativi forti contenziosi e dissensi nelle scelte operative.
Certamente l’esecutivo e il suo premier escono rafforzati poiché non si è consolidata una spinta alternativa: il centrodestra governa più Regioni, gli equilibri si sono ribaltati ma resta predominante la richiesta di stabilità. Esce sconfitta l’Italia a regime parlamentare e si rafforza la deriva localistica e di decentramento autarchico. Compulsioni contraddittorie che necessiteranno di una ricomposizione. Nonostante lacune, incertezze e ritardi (sulle scuole, ad esempio, e non è poco) Conte porta a casa un risultato che evidenzia la mancanza di vie altrimenti praticabili, il Recovery Fund e – ci si augura – il MES imporranno una trasparenza e una decisione nelle scelte che l’Europa ci impone. Permangono le contraddizioni sul dopo voto referendario: il rischio è di transitare da una casta ad una supercasta a impronta oligarchica: da troppi anni i nomi dei leader nei simboli di partito esprimono una concezione proprietaria del potere: sapere che il DDL di riforma elettorale depositato alla Camera dal Governo prevede i listini bloccati e l’esclusione delle preferenze comporta il rischio di una democrazia decapitata proprio nel suo focus generativo, “quel potere che appartiene al popolo”, come recita la Costituzione. Qui i giochi si faranno duri e rischiosi e non è detto che tutto ciò che ora appare assodato e in discesa non trovi ostacoli capaci di creare scompensi sui principi fondamentali del nostro assetto istituzionale. Mattarella vigila pensoso ma ci sono molte mine vaganti intorno a lui. Cosi, dopo aver ancora una volta sentito dire che hanno vinto tutti e aver ridotto il discrimine tra il Sì e il No alle categorie del giusto e dello sbagliato, del buono e del cattivo, si riposizionano tutti ai nastri di partenza: nella parcellizzazione del voto che sarà ulteriormente implementata dalla scelta del proporzionale c’è spazio per tutte le soluzioni. Resta il fatto che la democrazia della Terza Repubblica è altrettanto bloccata quanto lo erano il bipartitismo imperfetto e il bipolarismo mai decollato.
Aspettando Godot ognuno può dire ciò che vuole e paventare scenari fantasmagorici: in questa dissolvenza di alleanze e di emergenza di primazie ci starebbe pure il ritorno di un centro popolare e moderato, che porti stabilità e visione di un modello sociale che nessuno adesso riesce ad esprimere.
Mi piace questa bella analisi. Semplice e accessibile a tutti. Condivido pienamente ogni parola. Grazie