Ha scosso il mondo di centrosinistra, e in particolare il PD, l'editoriale del direttore di “La Repubblica” Maurizio Molinari che ha schierato il suo giornale sul fronte del NO al prossimo referendum per il taglio del numero di parlamentari. Scelta significativa per un giornale che nel 2016 aveva pesantemente appoggiato la proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi.
Il 20 e 21 settembre gli italiani sono chiamati alle urne – in coincidenza con le elezioni amministrative e regionali – per esprimersi sul referendum che propone di modificare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione al fine di ridurre il numero dei parlamentari: da 630 a 400 alla Camera dei Deputati, da 315 a 200 al Senato. La necessità di un taglio degli eletti in Parlamento è stata più volte sollevata in passato nell'ambito di proposte di riforma perché va incontro ad esigenze di riduzione dei costi della politica e di maggiore efficienza delle istituzioni rappresentative.
Si tratta di tesi serie, fondate e condivise da un gran numero di cittadini ma questo referendum costituzionale non consente di premiarle, realizzarle, per il semplice motivo che il taglio dei parlamentari è lineare, a sé stante, e non è incluso in una riforma che consente di sfruttare la riduzione per rendere il Parlamento più efficiente e rappresentativo.
Sono molte e significative le lacune create da questo taglio privo di una cornice di riforma costituzionale. Innanzitutto, ridurre i parlamentari senza rivedere le funzioni del Parlamento – a cominciare da numero e ruolo delle commissioni – significa innescare un domino di difficoltà e di impasse dagli esiti imprevedibili. In secondo luogo, creare collegi più grandi senza affiancare garanzie per le minoranze apre la strada a campagne elettorali dove la disponibilità di risorse economiche sarà determinante per il risultato, ed il rapporto fra eletti ed elettori si indebolirà, fino al punto che nelle Regioni più piccole si creerà una situazione maggioritaria de facto.
C'è poi la questione dei delegati regionali, che partecipano all'elezione del Capo dello Stato, perché al momento sono 60 su circa mille parlamentari ma se questi ultimi diventassero 600, il loro ruolo assumerebbe un peso senza precedenti nella Storia repubblicana in vista della scelta del successore di Sergio Mattarella, prevista all'inizio del 2022.
E ancora: le cronache degli ultimi anni suggeriscono come la debolezza strategica del Parlamento non è tanto nel numero quanto nella qualità di chi lo compone. Ovvero, il vulnus è nella selezione di deputati e senatori. Sul fronte del miglioramento della qualità degli eletti e delle attività del Parlamento il referendum del 20-21 settembre non garantisce nulla a fronte di risparmi netti che, secondo l'Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli, ammontano a 57 milioni l'anno e 285 milioni a legislatura ovvero una cifra significativamente più bassa di quella enfatizzata dai sostenitori della riforma - 500 milioni a legislatura - e pari ad appena lo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana.
In assenza di un quadro di riforma il taglio dei parlamentari si trasforma in una semplice riduzione numerica incapace di rispondere alla necessità di avere un Parlamento più efficiente. Per questo più esponenti del Pd hanno parlato di "minaccia per la democrazia" trattandosi di un taglio non compensato da un riassetto oculato. Ad avvantaggiarsi da tale scenario sono solo le istanze populiste, presenti nei settori più diversi della politica, che vedono in Montecitorio e Palazzo Madama istituzioni da ridimensionare, senza troppi complimenti e in tempi rapidi all'unico fine di premiare la protesta.
Una vittoria del Sì gonfierebbe dunque le vele dei populisti in un momento in cui sono in difficoltà perché da un lato la Lega di Matteo Salvini perde consensi non essendo riuscita a dare una risposta convincente all'emergenza Covid 19 e dall'altro il Movimento Cinque Stelle ha perso il ruolo di primo partito del Paese ed ha scelto la via dei compromessi entrando in un governo – ed alleandosi nelle urne – con una forza politica tradizionale come il PD. Nell'Italia laboratorio del populismo europeo, le forze che vinsero le elezioni del 4 marzo 2018 sono in affanno e sostengono, entrambe, il referendum del taglio senza riforma per riguadagnare forza e slancio. Ma ciò che giova a tali interessi di parte indebolisce le istituzioni repubblicane.
Per queste ragioni l'opinione del nostro giornale è contraria ad un referendum privo di una cornice di riforma.
Chi ha proposto la consultazione con l'intento di rafforzare il Parlamento aveva – ed ha ancora – il dovere di accompagnarla ad una legge di riforma mirata a migliorare costi, qualità ed efficienza del Parlamento della Repubblica. In presenza di tale legge il referendum diventerebbe un tassello strategico di un mosaico più ambizioso e ci troverebbe favorevoli. Perché la Costituzione è un documento vivo, che può essere sempre migliorato. Ma in assenza di tutto ciò sarà vero l'esatto contrario: il referendum farà gioire per una notte chi ritiene che le riforme si fanno a colpi di machete o che basta una legge per battere la povertà. Dunque, indebolirà e non rafforzerà le istituzioni repubblicane da cui dipende la tutela delle nostre libertà fondamentali.
È un grave errore pensare che il puro e semplice taglio numerico dei rappresentanti in Parlamento renda più efficace e funzionante la nostra democrazia rappresentativa: questa visione semplicistica di una riforma costituzionale nasce dalla convinzione che esistano delle scorciatoie populiste per ridisegnare le istituzioni, senza curarsi troppo delle conseguenze.
Noi riteniamo invece che una riforma costituzionale sia e resti uno strumento formidabile per rafforzare le istituzioni ma a patto di valutarne ogni implicazione.
Il 20 e 21 settembre gli italiani sono chiamati alle urne – in coincidenza con le elezioni amministrative e regionali – per esprimersi sul referendum che propone di modificare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione al fine di ridurre il numero dei parlamentari: da 630 a 400 alla Camera dei Deputati, da 315 a 200 al Senato. La necessità di un taglio degli eletti in Parlamento è stata più volte sollevata in passato nell'ambito di proposte di riforma perché va incontro ad esigenze di riduzione dei costi della politica e di maggiore efficienza delle istituzioni rappresentative.
Si tratta di tesi serie, fondate e condivise da un gran numero di cittadini ma questo referendum costituzionale non consente di premiarle, realizzarle, per il semplice motivo che il taglio dei parlamentari è lineare, a sé stante, e non è incluso in una riforma che consente di sfruttare la riduzione per rendere il Parlamento più efficiente e rappresentativo.
Sono molte e significative le lacune create da questo taglio privo di una cornice di riforma costituzionale. Innanzitutto, ridurre i parlamentari senza rivedere le funzioni del Parlamento – a cominciare da numero e ruolo delle commissioni – significa innescare un domino di difficoltà e di impasse dagli esiti imprevedibili. In secondo luogo, creare collegi più grandi senza affiancare garanzie per le minoranze apre la strada a campagne elettorali dove la disponibilità di risorse economiche sarà determinante per il risultato, ed il rapporto fra eletti ed elettori si indebolirà, fino al punto che nelle Regioni più piccole si creerà una situazione maggioritaria de facto.
C'è poi la questione dei delegati regionali, che partecipano all'elezione del Capo dello Stato, perché al momento sono 60 su circa mille parlamentari ma se questi ultimi diventassero 600, il loro ruolo assumerebbe un peso senza precedenti nella Storia repubblicana in vista della scelta del successore di Sergio Mattarella, prevista all'inizio del 2022.
E ancora: le cronache degli ultimi anni suggeriscono come la debolezza strategica del Parlamento non è tanto nel numero quanto nella qualità di chi lo compone. Ovvero, il vulnus è nella selezione di deputati e senatori. Sul fronte del miglioramento della qualità degli eletti e delle attività del Parlamento il referendum del 20-21 settembre non garantisce nulla a fronte di risparmi netti che, secondo l'Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli, ammontano a 57 milioni l'anno e 285 milioni a legislatura ovvero una cifra significativamente più bassa di quella enfatizzata dai sostenitori della riforma - 500 milioni a legislatura - e pari ad appena lo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana.
In assenza di un quadro di riforma il taglio dei parlamentari si trasforma in una semplice riduzione numerica incapace di rispondere alla necessità di avere un Parlamento più efficiente. Per questo più esponenti del Pd hanno parlato di "minaccia per la democrazia" trattandosi di un taglio non compensato da un riassetto oculato. Ad avvantaggiarsi da tale scenario sono solo le istanze populiste, presenti nei settori più diversi della politica, che vedono in Montecitorio e Palazzo Madama istituzioni da ridimensionare, senza troppi complimenti e in tempi rapidi all'unico fine di premiare la protesta.
Una vittoria del Sì gonfierebbe dunque le vele dei populisti in un momento in cui sono in difficoltà perché da un lato la Lega di Matteo Salvini perde consensi non essendo riuscita a dare una risposta convincente all'emergenza Covid 19 e dall'altro il Movimento Cinque Stelle ha perso il ruolo di primo partito del Paese ed ha scelto la via dei compromessi entrando in un governo – ed alleandosi nelle urne – con una forza politica tradizionale come il PD. Nell'Italia laboratorio del populismo europeo, le forze che vinsero le elezioni del 4 marzo 2018 sono in affanno e sostengono, entrambe, il referendum del taglio senza riforma per riguadagnare forza e slancio. Ma ciò che giova a tali interessi di parte indebolisce le istituzioni repubblicane.
Per queste ragioni l'opinione del nostro giornale è contraria ad un referendum privo di una cornice di riforma.
Chi ha proposto la consultazione con l'intento di rafforzare il Parlamento aveva – ed ha ancora – il dovere di accompagnarla ad una legge di riforma mirata a migliorare costi, qualità ed efficienza del Parlamento della Repubblica. In presenza di tale legge il referendum diventerebbe un tassello strategico di un mosaico più ambizioso e ci troverebbe favorevoli. Perché la Costituzione è un documento vivo, che può essere sempre migliorato. Ma in assenza di tutto ciò sarà vero l'esatto contrario: il referendum farà gioire per una notte chi ritiene che le riforme si fanno a colpi di machete o che basta una legge per battere la povertà. Dunque, indebolirà e non rafforzerà le istituzioni repubblicane da cui dipende la tutela delle nostre libertà fondamentali.
È un grave errore pensare che il puro e semplice taglio numerico dei rappresentanti in Parlamento renda più efficace e funzionante la nostra democrazia rappresentativa: questa visione semplicistica di una riforma costituzionale nasce dalla convinzione che esistano delle scorciatoie populiste per ridisegnare le istituzioni, senza curarsi troppo delle conseguenze.
Noi riteniamo invece che una riforma costituzionale sia e resti uno strumento formidabile per rafforzare le istituzioni ma a patto di valutarne ogni implicazione.
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