Referendum: NO senza se e senza ma



Andrea Piraino    11 Agosto 2020       3

L’avvicinarsi della data di celebrazione del referendum sul taglio dei parlamentari induce sempre più esponenti di partito, in particolare dell’area di centrosinistra, a interrogarsi circa la permanente validità della decisione di mantenere una posizione favorevole riguardo la riduzione a 400 deputati e a 200 senatori del numero dei componenti di Camera e Senato. In casa PD il movimento è diventato così consistente che il segretario Nicola Zingaretti non ha potuto evitare di manifestare pubblicamente le perplessità che attraversano tutto il partito. In verità, connesse al fatto che l’ultimo voto positivo che il partito aveva espresso in Parlamento in favore della riforma, dopo tre successive votazioni negative, era legato all’accordo di governo per modificare in senso proporzionale la legge elettorale. Cosa che, invece, sembra sempre più lontana e, comunque, non più all’ordine del giorno prima del voto popolare. Anche se, dopo l’apertura di Forza Italia per bocca di Renato Brunetta a votare il proporzionale, Matteo Renzi è sceso a più miti consigli e, pur ribadendo che “noi siamo per il maggioritario”, si è dichiarato pronto “se altri vogliono il proporzionale” ad aprire la discussione sul punto. Naturalmente, con la garanzia dell’abbassamento della soglia di sbarramento, almeno di un punto o meglio di due punti percentuali, dall’attuale limite fissato al 5%.

Comunque sia, quel che si registra è la grande incertezza che serpeggia sempre più insistentemente fra i parlamentari di quasi tutte le formazioni politiche e, soprattutto, l’arricchirsi dell’elenco di intellettuali e personalità delle più diverse appartenenze che ogni giorno dichiarano che voteranno contro la riforma del taglio dei parlamentari. “Non voglio assecondare pulsioni populiste. Voterò no!” proclama Pierluigi Castagnetti. E Mario Tronti, dopo aver dichiarato “pure io”, aggiunge che “dietro c’è un disegno antiparlamentare pericoloso”. Come del resto padre Bartolomeo Sorge sj che in un suo tweet scrive: “tagliare i parlamentari senza riforma elettorale vuol dire mutilare la nostra bella Costituzione”; per questo “voto no! allo scempio”. Ancora più decisa la posizione del senatore Tommaso Nannicini, che addirittura si è posto alla testa del Comitato democratico per il No! ed ha chiesto a Zingaretti di lasciare libertà di coscienza agli iscritti PD. E quella del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. Per finire alla lapidaria affermazione di Massimo Cacciari, secondo il quale “la riduzione dei parlamentari è un attacco alla democrazia rappresentativa”.

Né a frenare questo trend può essere evocata l’attuazione degli altri ‘correttivi’ che al momento della stipula del patto di governo del Conte bis furono concordati fra le forze politiche che costituiscono la maggioranza. Come per la riforma elettorale in senso proporzionale, anche per le altre due riforme costituzionali previste (l’equiparazione dell’età dell’elettorato attivo e passivo tra Camera e Senato e l’eliminazione della ripartizione dei seggi per il Senato su base regionale), infatti, non si registra alcun reale passo in avanti. Per cui difficilmente si può ritenere che la riduzione dei deputati e dei senatori non intaccherà profondamente l’equilibrio dell’assetto istituzionale e politico del nostro Paese, mettendo a rischio in entrambe le Camere la piena rappresentanza di tutte le forze politiche e di tutte le regioni, in particolare, di quelle più piccole.

Circostanza che i fautori di questo cambiamento (i 5 Stelle) non solo non hanno mai cercato di evitare ma hanno pervicacemente magnificato in quanto connessa, nella loro visione, a una diversa forma della democrazia non più legata ai partiti politici popolari e alla rappresentanza ma strutturata secondo un rapporto immediato del popolo con i vari leader politici che in questo modo non hanno bisogno di intermediazione alcuna e attraverso i nuovi media e i social network esercitano in modo più trasparente il potere, governando meglio le istituzioni dello stato.

Il tutto perciò secondo il modello di quella che è stata chiamata popolocrazia che trasforma i partiti in comitati (di dirigenti) che controllano ferreamente i centri di potere del sistema pubblico e, per mantenere il consenso, si affidano ai nuovi strumenti di comunicazione che indeboliscono lo spirito partecipativo ed esaltano la personalizzazione del potere.

È insomma la nuova democrazia “del pubblico” quella da cui deriva l’idea del taglio dei parlamentari. Per la quale il rapporto con la società e gli elettori viene sempre più consegnato ai media e ai sondaggi. Con il risultato che lo spazio della rappresentanza si restringe sempre di più ed inoltre si struttura come “scambio diretto fra leader e opinione pubblica”.

Né a questa situazione, che configurerebbe una vera e propria deriva democratica, vale opporre che la vigenza, a motivo dell’art. 67 della Costituzione, del divieto di mandato imperativo rende insignificante l’osservazione, perché tra eletto ed elettore non esiste alcun rapporto. Infatti, vero è che per l’eletto non si configura alcun vincolo giuridico al rispetto di indicazioni particolari di interessi provenienti dai propri elettori. Ma questo non significa che non esista il rapporto politico che naturalmente lega i parlamentari al proprio partito ed al corpo elettorale consentendo agli uni e agli altri di partecipare e condividere le stesse scelte. Lo conferma chiaramente la Costituzione all’art. 49 quando riconosce ai cittadini associati in partiti di avere il diritto di concorrere a determinare la politica nazionale. E dunque, non c’è dubbio che ogni ipotesi di riduzione del numero dei parlamentari finirebbe per avere effetti non irrilevanti in ordine al rapporto tra questi ultimi e il corpo elettorale.

Non solo. Ma, tra questi effetti da non trascurare, vi sarebbe poi da considerare l’incidenza sui collegi uninominali di Camera e Senato che arriverebbero a comprendere in media 400mila cittadini a fronte degli attuali 250mila per la Camera e oltre 800mila invece degli attuali 500mila per il Senato. Con almeno due ordini di conseguenze: il primo, inerente il sistema di comunicazione necessario ai candidati durante le campagne elettorali che, richiedendo una provvista adeguata di risorse economiche, potrebbe aprire le competizioni elettorali all’incursione di gruppi finanziari e centri di interessi in grado di condizionare la preferenza politica degli elettori e così falsare la scelta del candidato; il secondo, riguardante la facilità di ‘oscurare’ i candidati deboli sotto il profilo delle capacità finanziarie e delle disponibilità comunicative, consolidando così le già robuste tendenze alla verticalizzazione del sistema politico-istituzionale e al rafforzamento delle leadership nazionali.

Ma la conseguenza più paradossale di questa non auspicabile riduzione dei componenti delle due Camere è invero quella dell’innalzamento della soglia di sbarramento implicita che impedirebbe sicuramente l’accesso alla rappresentanza in parlamento delle formazioni politiche di minore consistenza e pregiudicherebbe irrimediabilmente la rappresentatività delle stesse assemblee legislative. Con il pericolo, tra l’altro, di incrementare i movimenti extraparlamentari capaci di innescare situazioni di pericolosa instabilità nelle istituzioni politico-sociali.

In ogni caso, degli obiettivi perseguiti dalla riforma – e cioè la migliore funzionalità, il maggiore prestigio e il contenimento dei costi del Parlamento – nessuno sembra giustificare il sacrificio richiesto alla rappresentatività di quest’ultimo e soprattutto il restringimento della democrazia che indiscutibilmente si verrebbe a determinare. Intanto, con riferimento al risparmio di spesa che si otterrebbe è stato calcolato che rispetto al bilancio dello stato esso sarebbe dello 0,01% e quindi semplicemente ridicolo.

Poi, per quanto riguarda il maggiore prestigio e l’autorevolezza parlamentare, bisogna stare attenti a non confondere la considerazione riconosciuta alla funzione con la aspirazione elitaria di chi è chiamato ad esercitarla, secondo una consolidata ed ancora persistente concezione della politica come potere. Infine, in ordine al migliore esercizio delle funzioni, stante che l’unica dimensione sulla quale la riduzione dei componenti del Parlamento sembra possa avere conseguenze è quella temporale, c’è da chiedersi se sia questo l’unico o, quanto meno, il principale modo per accorciare i tempi della produzione normativa e, in maniera più radicale, se sia proprio il caso di assecondare anche in questo campo istituzionale la deriva “velocista” che caratterizza la società attuale o non piuttosto sarebbe opportuno riconsiderare con nuova consapevolezza il prudente meccanismo disegnato dalla Costituzione che non per nulla ha previsto una camera “di riflessione” come il Senato.

In conclusione, una sì vasta riduzione del numero dei componenti delle due Camere, peraltro sconnessa da qualsiasi altra modifica del bicameralismo “perfetto” dell’attuale ordinamento, lungi dall’apportare significativi miglioramenti al sistema della rappresentanza appare piuttosto destinata ad immettervi ulteriori elementi di criticità indebolendo il rapporto tra eletti ed elettori e comprimendo gli spazi di presenza dei partiti più piccoli. Così da favorire, come detto, ulteriori fenomeni di verticalizzazione del sistema politico-istituzionale e di consolidamento di una classe politica già di per sé ampiamente autoreferenziale.

Né, infine, a cancellare tutto ciò può valere il meccanicistico collegamento di questo brutale ridimensionamento della composizione delle due Camere con la riforma proporzionale del sistema elettorale. Tale scelta, infatti, a parte la inevitabile riproposizione dei vecchi vizi del proporzionale, non potrebbe comunque mai evitare la caduta di quello che è il profondo rapporto di rappresentanza, potremmo dire: ‘verticale’ tra eletto ed elettori. Il che significa, che se quanto ora detto è vero, la posizione da assumere nei confronti del referendum che si terrà il 20/21 settembre prossimi non potrà essere determinata dal rispetto o meno dell’accordo per riformare l’attuale legge elettorale ma dovrà senz’altro essere assunta per le ragioni che si è cercato di illustrare. E, quindi, non potrà che essere espressa da un chiaro NO!: senza “se” e senza “ma”.

(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)


3 Commenti

  1. Al di la’ della necessaria riforma elettorale ( e’ troppo fantasioso pensare a un sistema proporzionale puro che, se portasse all’ingovernabilita e al conseguente scioglimento delle camere, dovrebbe prevedere nell’ambito della durata naturale della legislatura la chiamata alle urne con un sistema maggioritario uninominale secco senza correttiv?) forse e’ giunto il momento di regolamentare le modalita’ di gestione dei partiti, anche per evitare derive populiste e per allenare i futuri rappresentanti del popolo a vivere la democrazia nel loro partito (esempio come si elegge il o i leader, fatto che metterebbe in crisi la maggior parte delle forze politiche che vanno per la maggiore..). Convinto No al referendum. Ps: se viene a mancare il quorum?

  2. Cari amici, io voterò sì al taglio numerico dei parlamentari, che ho sempre sostenuto da quarant’anni a questa parte insieme con altri studiosi e cittadini. Certo, ho sempre pensato a un taglio di diversa dimensione (cinquecento deputati e duecentocinquanta senatori) ma il taglio proposto mi pare meglio del mantenimento dell’attuale situazione. Intanto non sorrido affatto per la levità del risparmio sul costo del parlamento: nessun risparmio è risibile quando anche soltanto un cittadino possa grazie ad esso ritrovare la dignità di un reddito. Ma le ragioni portanti della mia adesione al sì sono nell’analisi tecnica che mi ha sempre portato a considerare tecnicamente fonte di minore efficienza (e spesso di fatto anche di minore trasparenza) proprio l’elevatissimo numero dei parlamentari. Capisco bene che non si tratta “soltanto” di riduzione numerica, ma di contestuale adeguamento del meccanismo elettorale: io sono anche per la unicameralità del parlamento, e per un sistema elettorale a collegi uninominali con drastica riduzione del numero di firme da raccogliere per potersi candidare. La riduzione del numero dei parlamentari è un passo di questa auspicata più contestuale rivisitazione del nostro sistema di democrazia, ma è un passo che ha anche un suo valore a prescindere dagli altri passi coerentemente collegabili. Voterò dunque sì.

  3. Come avevo già avuto modo di esprimere a marzo (prima della comunicazione di slittamento del referendum) confermo il NO, senza se e senza ma. Una considerazione però è necessaria e dovrebbe essere assodata: la Politica è servizio, o almeno dovrebbe esserlo e se non lo è diventa “politica” con tutto quanto ne deriva e che ha dato origine all’allontanamento, all’avversione o addirittura al disprezzo verso certe forme ed attività della medesima. In virtù di ciò e tenendo fermo sia il criterio fondamentale della necessaria rappresentatività dei parlamentari sia il principio del contenimento dei costi della politica diventa fondamentale abbattere le indennità (e vitalizi). Da fonti giornalistiche di pochi anni fa in Italia le indennità dei parlamentari superano del 50/60% la media europea. Una riduzione in proporzione sarebbe poi anche auspicabile per consiglieri, assessori, presidenti delle Regioni. E forse il distacco dalla gente inizierebbe a ridursi.

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