L’accordo europeo del 21 luglio scorso ha individuato i criteri per una risposta comune di fronte all’emergenza in atto su tanti fronti (economico, sociale, sanitario, internazionale), puntando a innescare un processo che possa sfociare in una qualche forma di condivisione del rischio tra i Paesi membri dell’UE. Si tratta di un accordo molto positivo che però implica passaggi complessi (come regolamenti attuativi, approvazione del 27 parlamenti nazionali), tempi lunghi, e consta di risorse pur impegnative ma insufficienti e provenienti solo da nuova tassazione o da contributi nazionali. Il presupposto per la futura riuscita di questo piano europeo era che si disinnescasse la questione di un possibile conflitto tra la Banca centrale europea e i trattati europei, evocato dalla Corte costituzionale tedesca, in modo tale da consentire la continuazione dei programmi straordinari di creazione di liquidità senza limitazioni né di quantità né di durata.
Ebbene questo è avvenuto, per decisione politica della Germania che ha riconosciuto la congruità con i trattati europei delle scelte dell'Istituto centrale, guidato dalla francese Christine Lagarde.
Le ripercussioni di questa scelta sono enormi anche per il nostro Paese. Vi sono due possibili vie da intraprendere.
La prima è quella che, piuttosto inspiegabilmente a mio parere, sta seguendo il ministro dell’economia Gualtieri, supportato dal Partito Democratico, Renzi e persino da Berlusconi: fare finta di niente, minimizzare l’“ombrello” creato dalla BCE, continuare a ricorrere all’emissione di titoli di stato in misura molto inferiore di Francia, Spagna e della stessa Germania, puntando tutto sul Recovery Fund e sugli altri strumenti europei, tra cui il fondo SURE e il MES. Facendo in tal modo una rischiosa scommessa: che siano, da soli, sufficienti a rilanciare l’economia i suddetti finanziamenti strutturali mirati in pochi esclusivi ambiti. Ma in questo modo si potrebbe dare una risposta inadeguata alla questione della ripresa dei consumi, della domanda interna, presupposto per il rilancio economico e sociale. Perché le risorse del Recovery Fund, compresa la parte di sovvenzioni (grants) sono generate dai contributi degli Stati e dunque non consentono l’adozione di significative misure anticicliche a livello macroeconomico. Da soli questi “aiuti europei” rischiano di causare una duplice eterogenesi dei fini, almeno in Italia. La prima è quella che siccome, come ha osservato Guido Bodrato, in un suo recente articolo su queste colonne, l’UE ci chiederà conto degli obiettivi raggiunti con l’impiego dei fondi erogati, questa è la sfida politica a cui dobbiamo rispondere. Tuttavia alcune tra le condizioni e raccomandazioni europee, come la riduzione del nostro debito pubblico anche attraverso nuovi tagli su sanità e pensioni, la maggior competitività da raggiungere anche con ulteriori flessibilizzazione del mercato del lavoro e moderazione salariale, condurranno a effetti prociclici, di aggravamento della crisi, tali da indebolire i benefici del Recovery Fund. L’altro tipo di eterogenesi dei fini in caso di solo utilizzo di quelle risorse europee, è che esse sono vincolate a precisi ambiti, come digitale e green, ma il loro rimborso sarà a carico della collettività, determinando così un aumento della pressione fiscale per finanziare tali investimenti, al punto da aggravare la recessione anziché contribuire a superarla.
L’altra via da percorrere dopo la “vittoria”, decretata dalla stessa Germania, della BCE sulla Corte di Karlsruhe, consiste nel ritenere che solo con massicce politiche espansive che ridiano fiato a famiglie e imprese sarà possibile uscire da una deflazione di portata storica, che a ogni passo successivo rischia di deflagrare, come il porto di Beirut, nell’inferno (senza più uscita incruenta) della stagflazione. Per questo appare necessario e urgente un cambio di marcia nell’emissione di titoli pubblici in misura adeguata alla situazione. Nei momenti di recessione va allentata la stretta fiscale, potenziato il welfare, aumentati gli investimenti e gli stimoli all'economia. E questo lo si può realizzare, in tempo utile, non tra un anno o più, quando potrebbe risultare dolorosamente tardi, sia rivolgendosi al vasto pubblico dei risparmiatori italiani sia sfruttando la certa garanzia della BCE sul nostro debito.
Se c’è una battaglia che appartiene al dna dei cattolici-democratici, degli eredi della sinistra democristiana credo sia proprio quella per politiche neokeynesiane e per la monetizzazione del debito commisurata alla ripresa, alla sopravvivenza e al rilancio della classe media, dalla cui tenuta dipende la ripresa del Paese e il rilancio del progetto europeo.
Ora l’Europa lo consente più che mai: sta a noi cogliere l’occasione.
Ebbene questo è avvenuto, per decisione politica della Germania che ha riconosciuto la congruità con i trattati europei delle scelte dell'Istituto centrale, guidato dalla francese Christine Lagarde.
Le ripercussioni di questa scelta sono enormi anche per il nostro Paese. Vi sono due possibili vie da intraprendere.
La prima è quella che, piuttosto inspiegabilmente a mio parere, sta seguendo il ministro dell’economia Gualtieri, supportato dal Partito Democratico, Renzi e persino da Berlusconi: fare finta di niente, minimizzare l’“ombrello” creato dalla BCE, continuare a ricorrere all’emissione di titoli di stato in misura molto inferiore di Francia, Spagna e della stessa Germania, puntando tutto sul Recovery Fund e sugli altri strumenti europei, tra cui il fondo SURE e il MES. Facendo in tal modo una rischiosa scommessa: che siano, da soli, sufficienti a rilanciare l’economia i suddetti finanziamenti strutturali mirati in pochi esclusivi ambiti. Ma in questo modo si potrebbe dare una risposta inadeguata alla questione della ripresa dei consumi, della domanda interna, presupposto per il rilancio economico e sociale. Perché le risorse del Recovery Fund, compresa la parte di sovvenzioni (grants) sono generate dai contributi degli Stati e dunque non consentono l’adozione di significative misure anticicliche a livello macroeconomico. Da soli questi “aiuti europei” rischiano di causare una duplice eterogenesi dei fini, almeno in Italia. La prima è quella che siccome, come ha osservato Guido Bodrato, in un suo recente articolo su queste colonne, l’UE ci chiederà conto degli obiettivi raggiunti con l’impiego dei fondi erogati, questa è la sfida politica a cui dobbiamo rispondere. Tuttavia alcune tra le condizioni e raccomandazioni europee, come la riduzione del nostro debito pubblico anche attraverso nuovi tagli su sanità e pensioni, la maggior competitività da raggiungere anche con ulteriori flessibilizzazione del mercato del lavoro e moderazione salariale, condurranno a effetti prociclici, di aggravamento della crisi, tali da indebolire i benefici del Recovery Fund. L’altro tipo di eterogenesi dei fini in caso di solo utilizzo di quelle risorse europee, è che esse sono vincolate a precisi ambiti, come digitale e green, ma il loro rimborso sarà a carico della collettività, determinando così un aumento della pressione fiscale per finanziare tali investimenti, al punto da aggravare la recessione anziché contribuire a superarla.
L’altra via da percorrere dopo la “vittoria”, decretata dalla stessa Germania, della BCE sulla Corte di Karlsruhe, consiste nel ritenere che solo con massicce politiche espansive che ridiano fiato a famiglie e imprese sarà possibile uscire da una deflazione di portata storica, che a ogni passo successivo rischia di deflagrare, come il porto di Beirut, nell’inferno (senza più uscita incruenta) della stagflazione. Per questo appare necessario e urgente un cambio di marcia nell’emissione di titoli pubblici in misura adeguata alla situazione. Nei momenti di recessione va allentata la stretta fiscale, potenziato il welfare, aumentati gli investimenti e gli stimoli all'economia. E questo lo si può realizzare, in tempo utile, non tra un anno o più, quando potrebbe risultare dolorosamente tardi, sia rivolgendosi al vasto pubblico dei risparmiatori italiani sia sfruttando la certa garanzia della BCE sul nostro debito.
Se c’è una battaglia che appartiene al dna dei cattolici-democratici, degli eredi della sinistra democristiana credo sia proprio quella per politiche neokeynesiane e per la monetizzazione del debito commisurata alla ripresa, alla sopravvivenza e al rilancio della classe media, dalla cui tenuta dipende la ripresa del Paese e il rilancio del progetto europeo.
Ora l’Europa lo consente più che mai: sta a noi cogliere l’occasione.
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