Il prodotto della modernità “aberrante”



Giuseppe Ladetto    3 Agosto 2020       1

Il sociologo Manuel Castells (lo riportava Oreste Calliano in un commento a un articolo) ci rammentava che il capitalismo era stato realizzato da contadini dediti al duro lavoro dei campi, artigiani forgiati dai capo-lavori, professionisti stimati, giudici integerrimi, maestri vocati a formare le nuove generazioni, sacerdoti che univano spiritualità e ruolo sociale, e si chiedeva quale società costruiranno coloro che sono educati nella società capitalistica. Potrei rispondere che basterebbe guardarsi attorno per vederlo, ma veniamo al nocciolo della questione.

In passato, la maggior parte dell’umanità viveva in comunità, villaggi, quartieri. La trasmissione della cultura da una generazione all’altra avveniva per via orale e soprattutto attraverso l’esempio offerto dalla famiglia e dai membri della comunità. Tale forma di trasmissione, pur essendo prevalentemente unidirezionale (dai vecchi e dagli adulti ai giovani e ai bambini), consentiva tuttavia forme di interazione, di contraddittorio, non relegando i discenti a un ruolo meramente passivo.

Con l'introduzione della stampa, si è diffusa la comunicazione scritta. La lettura porta messaggi da luoghi lontani nel tempo e nello spazio; consente di riflettere, di pensare, lascia spazio all’immaginazione, stimola il pensiero concettuale. Il libro, in particolare con l'introduzione della stampa, è stato un fatto rivoluzionario, avendo introdotto idee nuove in ambiti chiusi, e avendo fortemente contribuito alla loro diffusione. Ma la lettura di libri e poi di giornali ha riguardato, fino al 19° secolo, quasi esclusivamente una élite. Le contestazioni dei modi di vita tradizionali, le idee nuove, le mode che ne sono scaturite hanno inizialmente interessato le sole élite (in genere aperte al “nuovo”), senza direttamente coinvolgere la gran parte della popolazione. Poiché anche i fatti culturali sono soggetti a “selezione naturale”, quanto si è rivelato inutile o dannoso, nei gruppi ristretti di persone che lo avevano praticato, è presto caduto “di moda”, mentre quanto di nuovo si è rivelato valido e durevole si è poi lentamente trasferito al resto della società. In questo modo, i cambiamenti si sono realizzati gradualmente e sono risultati gestibili. Inoltre, questo lento e selettivo trasferimento dei fenomeni nuovi ha consentito, ancora nella prima fase di sviluppo del capitalismo industriale, quella stratificazione e convivenza di differenti valori culturali di cui parla Castells.

Con l'avvento della televisione, il quadro è profondamente mutato perché la diffusione delle informazioni e dei modi di vita dettati dal “nuovo” raggiungono immediatamente tutti. La televisione offre modelli a cui conformarsi che si sostituiscono a quelli offerti in passato nell’ambito familiare e comunitario; modelli che vengono subito fatti propri da chi è più in vista sulla ribalta planetaria e rapidamente si trasmettono alle masse senza essere sottoposti ad alcun filtro o passaggio selettivo, sicché anche i comportamenti più irresponsabili si impongono e si diffondono nella società. Ciò inoltre conduce a una omologazione che tende a mettere ai margini chi non è “alla moda”, limitando la circolazione delle idee non conformiste.

Il linguaggio televisivo, a differenza della scrittura, è rapido, non induce alla riflessione; colpisce con le immagini più che con le parole e disabitua a misurarsi con i concetti; è unidirezionale e non lascia spazio al dibattito; deve inoltre essere semplice, non impegnativo, generico, preconfezionato per tutti i palati (dall’America al Giappone): è quindi atto solo a trasmettere messaggi di scarsa qualità, privi di ogni problematicità. In questo senso, il mezzo televisivo influisce di per se stesso sulla qualità del contenuto della comunicazione, impoverendolo. Tuttavia anche il contenuto conta: basti pensare a come i mezzi di comunicazione sono utilizzati nelle società autoritarie rispetto a quelle di mercato, liberaldemocratiche. In entrambe, viene conculcata una ideologia: nelle prime, in forma martellante e palesemente didascalica; nelle seconde, condizionando i gusti ed i comportamenti con la pubblicità, sollecitando gli appetiti (sesso, beni di facile accesso, denaro ecc.) ed esaltando l’individualismo.

Ma chi decide il contenuto dei messaggi proposti? Da sempre, chi detiene il potere e chi interpreta gli interessi delle classi dominanti. Quale è, oggi, il messaggio preminente nel mondo globalizzato? La crescita economica è una priorità a cui va tutto sacrificato, perché ci mette a disposizione sempre più beni e servizi, e nel contempo consente grandi guadagni agli esponenti della finanza, il perno intorno a cui ruota il variegato mondo del potere. Il messaggio trasmesso invita a rompere i vincoli che legano ad appartenenze (familiari, nazionali, religiose, culturali) in nome della libertà individuale, dei diritti della persona, ma soprattutto perché il mercato esige l’omologazione, cioè consumatori fatti in serie come i prodotti che offre.

Questo è il contenuto della comunicazione da cui viene plasmata la massa della gente. Non c’è da meravigliarsi se, dai più, la libertà venga attualmente intesa come assenza di limitazioni, come il diritto a soddisfare ogni pretesa, come irresponsabilità.

Oggi, tuttavia ci viene detto che la televisione conta di meno, specialmente per i giovani: siamo nell'epoca della rete; troviamo ogni cosa su di essa. Internet fa credere di essere in grado di sapere tutto perché dà le risposte a ogni quesito.

Malgrado nella rete non manchino le sciocchezze, è tuttavia impossibile convincere una persona che quanto vi ha trovato possa essere sbagliato o inesatto. Così per chi crede di poter sapere tutto, non c'è più la necessità di studiare, di imparare o di informarsi. In tal modo, la cultura (l'insieme del bagaglio di esperienze, di elaborazioni e di conoscenze) non ha più ragione di essere.

Viene detto che in rete si comunica fra persone, si dibatte, si progetta, e quindi non esiste più il pericolo di essere manipolati, condizionati e omologati come accadeva quando la comunicazione televisiva era dominante. Non sono un frequentatore assiduo della rete per confermare o meno questo giudizio, ma mi pare che le idee e soprattutto i valori che circolano in tale mezzo siano sempre gli stessi: quelli veicolati dai media portavoce degli attuali detentori del potere, sicché il mondo odierno continua a diventare sempre più omologato.

Il fatto nuovo è che questa tecnica informatica non solo domina il mondo, ma ne crea uno fittizio. I giovani ormai abitano sempre più una sfera virtuale che li rende estranei alla realtà in cui fisicamente vivono. Navigando su internet, quanto vedono vuole avere la concretezza della realtà tangibile e non lascia spazio ad alcuna attività intellettuale, ciò che contribuisce ulteriormente a renderli manipolabili da un potente apparato tecnico governato da una esigua cerchia di tecnocrati.

I giovani che sono nati con internet e lo hanno frequentato fin da bambini desiderano restare ad abitare la realtà virtuale perché dà loro sicurezza, non pone obblighi e dinieghi; promette un futuro in cui tutti i problemi troveranno una soluzione, in genere di natura tecnica. Ma dai fatti della vita vengono presto le smentite delle promesse del mondo virtuale, e questo fatto incide negativamente sull'esistenza delle persone. Inoltre, vivere in una dimensione virtuale atemporale, senza avere nell'oggi ambizioni, progetti, scopi, non consente di avere una vita vera, coerente con quanto da secoli ha caratterizzato la condizione umana.

Quali possono essere le conseguenze della piena affermazione di questa concezione della vita individuale in scarso rapporto con la realtà? Credo siano pesantemente negative come si evidenzia nella società occidentale in cui si è già notevolmente affermata.

È venuta meno la capacità di svolgere lavori manuali, artigianali, concreti, ancorati al mondo reale che è anche e soprattutto materiale (dobbiamo infatti ricorrere agli immigrati per la più parte di tali attività). La fuga nel virtuale e la specializzazione oggi imperante hanno inoltre spento nei più la capacità di arrangiarsi, e hanno reso la gente inadatta ad affrontare i compiti e le azioni che nelle società “arretrate” imponevano le esigenze di vita quotidiana, e che una eventuale futura crisi potrebbe nuovamente richiedere.

Di fronte alla crisi climatica e alle altre criticità che si prospettano, fino a ieri ritenevo inadeguata l'attuale capacità di reazione, di iniziativa e di impegno di larga parte degli abitanti dei Paesi occidentali, che in notevole misura hanno perso il senso del dovere, del sacrificio e della responsabilità. Sono il prodotto di quella “modernizzazione aberrante”, denunciata da Jurgen Habermas, che vede i cittadini delle società liberali benestanti trasformati in individui chiusi in se stessi, attenti solo al proprio interesse e incapaci di farsi carico della collettività.

Nei giorni della pandemia però ho dovuto in parte ricredermi. Tutti abbiamo avuto modo di vedere e di ammirare quanti, in Italia, hanno lottato in prima linea contro l'epidemia manifestando un senso del dovere che sembrava diventato merce rara. Inoltre, di fronte agli obblighi e alle rinunce imposti dalla necessità di limitare la diffusione del contagio, un numero consistente degli italiani, nella prima fase del confinamento, si è conformato alle disposizioni dettate dalle autorità, malgrado i vertici politici delle istituzioni si siano mossi in ritardo, rivelando indecisione e improvvisazione, mentre le trafile burocratiche delle decisioni operative si sono, come sempre, mostrate lente, farraginose e attente solo alle procedure formali.

Stiamo parlando di un momento difficile, ma limitato nel tempo. Già nella seconda fase del contenimento della pandemia, molti, in particolare giovani, si sono espressi per il “liberi tutti” mettendo da parte le precauzioni ancora necessarie. I più, inoltre, si pongono come aspettativa il ritorno agli stili di vita precedenti l'arrivo del coronavirus. Invece la pandemia è stato un forte segnale che qualche cosa non va, un segnale che si aggiunge ad altre manifestazioni delle criticità prodotte da uno sviluppo che non accetta limiti.

È quindi necessario un cambio di rotta che inevitabilmente inciderà fortemente sui modi di vita di tutte le persone, imponendo non solo sacrifici e rinunce, ma soprattutto un radicale mutamento di ciò che oggi si intende per libertà: fare tutto quello che piace in nome della realizzazione di se stessi senza curarsi delle conseguenze sulla natura e sulle comunità in cui viviamo.


1 Commento

  1. Condivido appieno quanto espresso da Ladetto in questo articolo.
    Temo però che il cambio di rotta non potrà essere facile ed indolore in quanto solo sbattendo il naso nel sistema attuale, difficilmente modificabile a tavolino, si potrà costruirne un altro partendo da tutt’altri principi rispetto a quelli (falliti) imperanti. Chi non è convinto che, in astratto, la “decrescita felice” sia la via da seguire ma chi, in concreto, non è convinto che gli equilibri politici ed economici non sarebbero in grado di reggerla? Il “non pensare” denunciato da Ladetto è il narcotico con cui si nasconde che l’umanità in futuro potrebbe trovarsi nella condizione dell’asino di Buridano: nè un pianeta vivibile nè un soddisfacimento, equamente distribuito, dei bisogni di base, necessari per una comune, umanamente possibile, felicità.

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