Prendo spunto da un tweet di Guido Bodrato di questi giorni.
Perché – si è chiesto – un soggetto politico che teme la soglia del 5 per cento in un eventuale nuovo sistema proporzionale preferisce un sistema di tipo maggioritario?
Bodrato si è risposto: perché vuole negoziare il suo piccolo consenso al massimo delle potenzialità, nell’ipotesi che possa magari essere determinate.
Ha colto uno dei punti essenziali di difficoltà e di stallo nella strategia di ricostruzione della rappresentanza dopo la crisi della cosiddetta Seconda Repubblica. Essa infatti non ha prodotto forme nuove di partiti plurali, capaci di coltivare e valorizzare le diverse culture politiche, autonome nella loro esistenza politica organizzata, ma “federate” nel perseguimento di una comune proposta di Governo.
E neppure – almeno nel campo del centrosinistra – ha saputo far crescere l’esperienza delle coalizioni. Difficile infatti che essa potesse convivere con l’idea di un Partito a vocazione maggioritaria, convinto di rappresentare tutte le identità del proprio “campo”, salvo formazioni satelliti o “liste aggregate” a immagine e somiglianza dei leader locali o nazionali di volta in volta proposti.
Le cose potevano andare diversamente?
Certo che sì. Se l’Ulivo avesse continuato nella sua impostazione originaria pensata, mi risulta, da Beniamino Andreatta (qualcosa di più di una semplice coalizione elettorale ma qualcosa di meno di un partito unico) e se non fosse prevalsa la scelta della “reductio ad unum” con la nascita del PD e con la conseguente fine della Margherita, che – sempre Andreatta – ipotizzava invece dovesse evolvere verso una sorta di CDU italiana.
Ma ragionare con il senno di poi non ha molto senso, compreso per chi, come il sottoscritto, queste cose le ha sempre pensate, dette e testimoniate anche quando sembrava che il vento andasse inesorabile in altra direzione.
Torno a quanto scritto dal saggio Bodrato.
Grave temere oggi una legge proporzionale con lo sbarramento alto. È l’unico modo per ricostruire un legame tra cittadini ed elettori (magari con il superamento delle liste bloccate che hanno portato in Parlamento non certo le migliori competenze) e per dare forza ad un quadro di rappresentanza politica potenzialmente alternativo alla suggestione nazionalista, demagogica e di destra.
Ed è anche l’unico modo per far sì che le tante formazioni nazionali e locali che si contendono oggi, con risultati non lusinghieri almeno sul piano quantitativo, lo spazio elettorale e politico popolare e liberal-democratico (parlo di quelle che mantengono il “confine a destra” di degasperiana memoria, delle altre non mi interessa) siano indotte a ritrovarsi assieme in una proposta innovativa, unitaria, capace di evocare una idea di futuro per il Paese, oltre i limiti del tatticismo e della aspirazione ai “partitini personali”.
Ciò chiama in causa anche noi popolari di ispirazione cattolico democratica, da anni ormai alla ricerca di una nuova cifra di presenza politica. Noi dobbiamo definire il nostro “ubi consistam” identitario, sulla base del Manifesto Zamagni. Dobbiamo impostare una “costituente popolare” a breve, come mi pare che sia negli obiettivi dichiarati di Politica Insieme e di altri. Nella chiarezza politica e al riparo da tentazioni nostalgiche e di fatto orientate ad un “centro” permeabile dalle istanze della destra.
Ma dovremmo lavorare nel contempo a costruire una “area politico-elettorale” più ampia rispetto a noi, che possa dare voce e rappresentanza ai tanti cittadini che non vogliono cedere alla destra (vedendone i pericoli sul piano europeo e su quello dei valori civili e comunitari); non credono ad una semplice alleanza fatta dal PD e da suoi eventuali “satelliti”; non pensano che sulla cultura grillina, pur portatrice di stimoli anche interessanti, possa innestarsi una prospettiva di governo del Paese.
Serve dunque voglia di “esserci” come soggetto autonomo ed organizzato (perché senza identità la politica non esiste) ma anche voglia di “condividere” e di costruire assieme ad altri uno spazio politico-elettorale.
I valori antichi di democrazia comunitaria, di europeismo adulto, di lotta alle disuguaglianze, di autonomia della società e dei territori, di rispetto delle Istituzioni e della loro efficienza, di scommessa sull’intrapresa privata e cooperativa, assieme a quelli più nuovi di difesa del creato e di “umanizzazione” delle tecnologie digitali sono la base di una possibile “piattaforma neo-popolare” potenzialmente in grado di dare un contributo importante alla rappresentanza politica, anche oltre il perimetro della nostra pur essenziale cifra identitaria.
Del resto – mi viene in mente leggendo un tweet di Lucio D’Ubaldo sulla situazione politica americana – noi in Italia abbiamo molti piccoli Trump, alcuni Sanders, qualche (improbabile) aspirante Degasperi, ma non abbiamo un Joe Biden. Ci tocca trovarlo (lavorando dal basso).
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Perché – si è chiesto – un soggetto politico che teme la soglia del 5 per cento in un eventuale nuovo sistema proporzionale preferisce un sistema di tipo maggioritario?
Bodrato si è risposto: perché vuole negoziare il suo piccolo consenso al massimo delle potenzialità, nell’ipotesi che possa magari essere determinate.
Ha colto uno dei punti essenziali di difficoltà e di stallo nella strategia di ricostruzione della rappresentanza dopo la crisi della cosiddetta Seconda Repubblica. Essa infatti non ha prodotto forme nuove di partiti plurali, capaci di coltivare e valorizzare le diverse culture politiche, autonome nella loro esistenza politica organizzata, ma “federate” nel perseguimento di una comune proposta di Governo.
E neppure – almeno nel campo del centrosinistra – ha saputo far crescere l’esperienza delle coalizioni. Difficile infatti che essa potesse convivere con l’idea di un Partito a vocazione maggioritaria, convinto di rappresentare tutte le identità del proprio “campo”, salvo formazioni satelliti o “liste aggregate” a immagine e somiglianza dei leader locali o nazionali di volta in volta proposti.
Le cose potevano andare diversamente?
Certo che sì. Se l’Ulivo avesse continuato nella sua impostazione originaria pensata, mi risulta, da Beniamino Andreatta (qualcosa di più di una semplice coalizione elettorale ma qualcosa di meno di un partito unico) e se non fosse prevalsa la scelta della “reductio ad unum” con la nascita del PD e con la conseguente fine della Margherita, che – sempre Andreatta – ipotizzava invece dovesse evolvere verso una sorta di CDU italiana.
Ma ragionare con il senno di poi non ha molto senso, compreso per chi, come il sottoscritto, queste cose le ha sempre pensate, dette e testimoniate anche quando sembrava che il vento andasse inesorabile in altra direzione.
Torno a quanto scritto dal saggio Bodrato.
Grave temere oggi una legge proporzionale con lo sbarramento alto. È l’unico modo per ricostruire un legame tra cittadini ed elettori (magari con il superamento delle liste bloccate che hanno portato in Parlamento non certo le migliori competenze) e per dare forza ad un quadro di rappresentanza politica potenzialmente alternativo alla suggestione nazionalista, demagogica e di destra.
Ed è anche l’unico modo per far sì che le tante formazioni nazionali e locali che si contendono oggi, con risultati non lusinghieri almeno sul piano quantitativo, lo spazio elettorale e politico popolare e liberal-democratico (parlo di quelle che mantengono il “confine a destra” di degasperiana memoria, delle altre non mi interessa) siano indotte a ritrovarsi assieme in una proposta innovativa, unitaria, capace di evocare una idea di futuro per il Paese, oltre i limiti del tatticismo e della aspirazione ai “partitini personali”.
Ciò chiama in causa anche noi popolari di ispirazione cattolico democratica, da anni ormai alla ricerca di una nuova cifra di presenza politica. Noi dobbiamo definire il nostro “ubi consistam” identitario, sulla base del Manifesto Zamagni. Dobbiamo impostare una “costituente popolare” a breve, come mi pare che sia negli obiettivi dichiarati di Politica Insieme e di altri. Nella chiarezza politica e al riparo da tentazioni nostalgiche e di fatto orientate ad un “centro” permeabile dalle istanze della destra.
Ma dovremmo lavorare nel contempo a costruire una “area politico-elettorale” più ampia rispetto a noi, che possa dare voce e rappresentanza ai tanti cittadini che non vogliono cedere alla destra (vedendone i pericoli sul piano europeo e su quello dei valori civili e comunitari); non credono ad una semplice alleanza fatta dal PD e da suoi eventuali “satelliti”; non pensano che sulla cultura grillina, pur portatrice di stimoli anche interessanti, possa innestarsi una prospettiva di governo del Paese.
Serve dunque voglia di “esserci” come soggetto autonomo ed organizzato (perché senza identità la politica non esiste) ma anche voglia di “condividere” e di costruire assieme ad altri uno spazio politico-elettorale.
I valori antichi di democrazia comunitaria, di europeismo adulto, di lotta alle disuguaglianze, di autonomia della società e dei territori, di rispetto delle Istituzioni e della loro efficienza, di scommessa sull’intrapresa privata e cooperativa, assieme a quelli più nuovi di difesa del creato e di “umanizzazione” delle tecnologie digitali sono la base di una possibile “piattaforma neo-popolare” potenzialmente in grado di dare un contributo importante alla rappresentanza politica, anche oltre il perimetro della nostra pur essenziale cifra identitaria.
Del resto – mi viene in mente leggendo un tweet di Lucio D’Ubaldo sulla situazione politica americana – noi in Italia abbiamo molti piccoli Trump, alcuni Sanders, qualche (improbabile) aspirante Degasperi, ma non abbiamo un Joe Biden. Ci tocca trovarlo (lavorando dal basso).
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
L’ultima frase apre uno spiraglio su un’orizzonte da troppo tempo dimenticato o comunque non esplorato: quello dei programmi e delle azioni volte a generare cultura e condurre a programmi di formazione (a meno che non si continui a considerare tali i “sabati” milanesi!)
Nel dramma del ventennio fascista ci fu tempo per riconsiderare idee e svolgere azioni di orientamento profondo e formazione: da questo nacque la Costituzione: poi, rapidamente, il nulla: crisi dell’Azione Cattolica, e altrettanto delle strutture del PCI destinate alla istruzione dei giovani. Tutto giustificato! da un lato il Concilio che poneva nuovi problemi di orientamento, dall’altra – dopo Yalta – giusta crisi del PCI: ma da allora, tutta la ricerca del nuovo si è orientata alla creazione di nuove strutture adatte alla dialettica politica, cioè all’esercizio dei rapporti di forza, mentre il dibattito culturale sempre più ridotto a disputa – magari televisiva – oppure disperso nella grande nebulosa della dinamica culturale in atto nella società, ma senza quel prezioso passaggio un tempo costituito dalle strutture in grado di trasferire i messaggi sul piano della formazione personale e comune.
Non rimpiango l’Azione Cattolica, di cui ho vissuto in pieno le fasi conflittuali che ne risolsero negativamente il percorso, ma patisco il vuoto che ne è conseguito.
Ogni volta che vedo proposto un nuovo organismo politico, soffro dell’assenza di idee che lo precedano con iniziative di formazione culturale capaci di operare su periodi più lunghi almeno del ciclo elettorale e con obiettivi non limitati alla formazione di “quadri” destinati a carriere di partito (così morì buona parte dell’AC) ma capaci di proporre idee, sostenere dibattito e confronto, riprodursi in nuove forze capaci di scelte autonome e culturalmente giustificate.
Chissà se il prossimo futuro ci aprirà prospettive in questo senso.