Ho ascoltato recentemente una riflessione di Giuseppe De Rita che considera imparagonabile l’attuale fase critica, economica e sociale, post-pandemica con il periodo di ricostruzione del dopoguerra.
Mi è venuto in mente quando mi raccontò delle notti trascorse a guardare le ellissi sul soffitto per le allucinazioni dovute alla fame: una metafora significativa per rappresentare un’idea di Paese distrutto e ridotto alla miseria. Guardandoci intorno e valutando i danni dello tsunami provocati dal Covid-19, anche nella loro proiezione nel medio-lungo periodo ci rendiamo conto che le due epoche non sono comparabili.
Allora si ripartiva da zero, oggi non siamo nelle condizioni di vedere rimosso del tutto ciò che lentamente abbiamo costruito: l’economia, l’industria, le tutele sociali, persino le rendite accumulate dalla “società signorile di massa” di cui ci parla il sociologo Luca Ricolfi (nella sua ultima definizione divenuta “società parassita di massa”), ciò che osserviamo intorno a noi nella realtà e nella virtualità dell’esistenza, tutto ci spiega di due condizioni storiche diverse, di un certo benessere raggiunto.
Ed è proprio il lungo periodo di ricostruzione post-bellica che enfatizza il disagio provocato dal dover rinunciare ad abitudini, conquiste, condizioni di vita di un contesto antropologico consolidato.
Ci sono limitazioni oggettive nei comportamenti individuali e collettivi, basti pensare al distanziamento e al non potersi dare la mano, due situazioni che si protrarranno per lungo tempo, ma le automobili circolano, gli aerei volano, le navi solcano i mari, i supermercati garantiscono l’approvvigionamento necessario (basta avere i soldi), la moda soddisfa le esigenze quotidiane dei tanti e il lusso dei pochi, la sanità ha dimostrato di funzionare, la DAD ha sostituito le lezioni frontali grazie alla straordinaria evoluzione tecnica, tecnologica e digitale, perché smartphone e tablet non smettono di funzionare.
Certo, l’ascensore sociale è fermo ma può ripartire, il lavoro manca ma una politica economica oculata potrebbe redistribuire redditi e tutele sociali e dare liquidità alle imprese, l’allungamento dell’età della vita determina problematiche nuove cui la medicina e l’welfare possono metter mano.
Eppure, paradossalmente l’evocazione di un paragone – tra l’allora e l’oggi- che De Rita ha spiegato essere illogico e improponibile ha i suoi fondamenti: è proprio lo spaesamento dovuto al venir meno di certezze considerate acquisite che evoca la paura di non farcela e il panico di un imminente futuro catastrofico.
Due condizioni del presente – attingendo ancora a piene mani dal De Rita-pensiero – rendono problematico immaginare modelli sociali sostenibili: le disuguaglianze sociali e la lenta estinzione della biodiversità ambientale che coinvolge anche l’essere umano: e la pandemia in atto ne è prova eloquente e conseguenza, insieme.
C’è poi quella che considero una differenza di fondo che separa il dopoguerra dal presente: a quel tempo era l’Italia intera che voleva crescere e creare benessere, la politica la guidava ed era capace di scelte coraggiose: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il piano casa, il lavoro (anche doppio-triplo) che si spalmava sui vari gradini dei target sociali: soprattutto era la “motivazione” la molla che spingeva verso la crescita e la diffusione del benessere, il desiderio di impegnarsi, la voglia di farcela.
La spinta motivazionale rende ragione ad una spiegazione che oggi ci sfugge: il considerare le idee di soggettività e comunità come motore della ricostruzione. Nell’immediato dopoguerra si sperava nella ricostruzione, c’era un senso di comunità e condivisione, adesso ci si sente soli e impotenti, c’è chi si suicida per la disperazione. Oggi siamo annichiliti dal decadimento della politica, nessuno è capace di proporre modelli di sviluppo sociale, la burocrazia è cresciuta a dismisura, fino a soffocare in una spirale autoreferenziale quella motivazione che era un tempo il motore della crescita.
Quando la politica è in crisi, “arrocca” e verticalizza sempre: da qui il gap che cresce tra Paese legale e Paese reale. Essa è stata attraversata in questi anni da un progressivo impoverimento culturale che l’ha resa acefala, da una corruzione dilagante, da una personalizzazione che ha sostituito gli ideali con le opinioni.
Per questo, anche se non è storicamente corretto il paragone che De Rita censura, prevalgono sfiducia e depressione, solitudini siderali, egoismo, narcisismo, indifferenza.
L’assenza di motivazione prende corpo in un vuoto abissale di valori e di luoghi comuni.
Immaginando che ciò che è (o può essere) oggettivato governi il presente e il futuro riempiendoci di progetti, algoritmi e documenti tecnici elaborati da esperti che la sostituiscono, la politica finisce per diventare una cosa inutile, formale, sganciata dalla vita che pulsa in ogni soggettività, sia essa la start-up che vuole provarci, la memoria degli anziani che ricorda e insegna, la voglia di vivere dei giovani, di metter su famiglia, di guardare al domani.
A cosa serve formalizzare nuovi, inutili tavoli di concertazione, invocare un’unità che non esiste più in un mondo frantumato, immaginare che siano gli “stati generali” la rappresentazione iconica della ripartenza, se la politica non sa, non conosce, non impara, non decide, abbandona la competenza strada facendo e delega la responsabilità che le pertiene a soggetti esterni che non vanno oltre l’ipertrofia di piste, tracce, schemi, diagrammi, documenti che nessuno riuscirà mai ad applicare?
Riservandosi il compiacimento di organizzare l’ennesima sfilata o il nuovo testo unico dello scibile umano.
I veri “stati generali” sono il Parlamento eletto dal popolo sovrano.
Per questo, caro Presidente De Rita ha forse ragione Lei: il continuismo è tenacia che ricompone le discontinuità e l’oggi è migliore dell’ieri. Basta essere capaci di fare sintesi efficaci.
Non aveva dunque torto Voltaire quando affermava: “Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile”? Non esistendo un anno zero questo aforisma ci ricorda che tutto è ciclico e relativo.
Resta il fatto che in molti, in tanti, in troppi abbiamo la sensazione di essere seduti su un cumulo di macerie, senza avere il cemento per rimetterle insieme.
Mi è venuto in mente quando mi raccontò delle notti trascorse a guardare le ellissi sul soffitto per le allucinazioni dovute alla fame: una metafora significativa per rappresentare un’idea di Paese distrutto e ridotto alla miseria. Guardandoci intorno e valutando i danni dello tsunami provocati dal Covid-19, anche nella loro proiezione nel medio-lungo periodo ci rendiamo conto che le due epoche non sono comparabili.
Allora si ripartiva da zero, oggi non siamo nelle condizioni di vedere rimosso del tutto ciò che lentamente abbiamo costruito: l’economia, l’industria, le tutele sociali, persino le rendite accumulate dalla “società signorile di massa” di cui ci parla il sociologo Luca Ricolfi (nella sua ultima definizione divenuta “società parassita di massa”), ciò che osserviamo intorno a noi nella realtà e nella virtualità dell’esistenza, tutto ci spiega di due condizioni storiche diverse, di un certo benessere raggiunto.
Ed è proprio il lungo periodo di ricostruzione post-bellica che enfatizza il disagio provocato dal dover rinunciare ad abitudini, conquiste, condizioni di vita di un contesto antropologico consolidato.
Ci sono limitazioni oggettive nei comportamenti individuali e collettivi, basti pensare al distanziamento e al non potersi dare la mano, due situazioni che si protrarranno per lungo tempo, ma le automobili circolano, gli aerei volano, le navi solcano i mari, i supermercati garantiscono l’approvvigionamento necessario (basta avere i soldi), la moda soddisfa le esigenze quotidiane dei tanti e il lusso dei pochi, la sanità ha dimostrato di funzionare, la DAD ha sostituito le lezioni frontali grazie alla straordinaria evoluzione tecnica, tecnologica e digitale, perché smartphone e tablet non smettono di funzionare.
Certo, l’ascensore sociale è fermo ma può ripartire, il lavoro manca ma una politica economica oculata potrebbe redistribuire redditi e tutele sociali e dare liquidità alle imprese, l’allungamento dell’età della vita determina problematiche nuove cui la medicina e l’welfare possono metter mano.
Eppure, paradossalmente l’evocazione di un paragone – tra l’allora e l’oggi- che De Rita ha spiegato essere illogico e improponibile ha i suoi fondamenti: è proprio lo spaesamento dovuto al venir meno di certezze considerate acquisite che evoca la paura di non farcela e il panico di un imminente futuro catastrofico.
Due condizioni del presente – attingendo ancora a piene mani dal De Rita-pensiero – rendono problematico immaginare modelli sociali sostenibili: le disuguaglianze sociali e la lenta estinzione della biodiversità ambientale che coinvolge anche l’essere umano: e la pandemia in atto ne è prova eloquente e conseguenza, insieme.
C’è poi quella che considero una differenza di fondo che separa il dopoguerra dal presente: a quel tempo era l’Italia intera che voleva crescere e creare benessere, la politica la guidava ed era capace di scelte coraggiose: la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il piano casa, il lavoro (anche doppio-triplo) che si spalmava sui vari gradini dei target sociali: soprattutto era la “motivazione” la molla che spingeva verso la crescita e la diffusione del benessere, il desiderio di impegnarsi, la voglia di farcela.
La spinta motivazionale rende ragione ad una spiegazione che oggi ci sfugge: il considerare le idee di soggettività e comunità come motore della ricostruzione. Nell’immediato dopoguerra si sperava nella ricostruzione, c’era un senso di comunità e condivisione, adesso ci si sente soli e impotenti, c’è chi si suicida per la disperazione. Oggi siamo annichiliti dal decadimento della politica, nessuno è capace di proporre modelli di sviluppo sociale, la burocrazia è cresciuta a dismisura, fino a soffocare in una spirale autoreferenziale quella motivazione che era un tempo il motore della crescita.
Quando la politica è in crisi, “arrocca” e verticalizza sempre: da qui il gap che cresce tra Paese legale e Paese reale. Essa è stata attraversata in questi anni da un progressivo impoverimento culturale che l’ha resa acefala, da una corruzione dilagante, da una personalizzazione che ha sostituito gli ideali con le opinioni.
Per questo, anche se non è storicamente corretto il paragone che De Rita censura, prevalgono sfiducia e depressione, solitudini siderali, egoismo, narcisismo, indifferenza.
L’assenza di motivazione prende corpo in un vuoto abissale di valori e di luoghi comuni.
Immaginando che ciò che è (o può essere) oggettivato governi il presente e il futuro riempiendoci di progetti, algoritmi e documenti tecnici elaborati da esperti che la sostituiscono, la politica finisce per diventare una cosa inutile, formale, sganciata dalla vita che pulsa in ogni soggettività, sia essa la start-up che vuole provarci, la memoria degli anziani che ricorda e insegna, la voglia di vivere dei giovani, di metter su famiglia, di guardare al domani.
A cosa serve formalizzare nuovi, inutili tavoli di concertazione, invocare un’unità che non esiste più in un mondo frantumato, immaginare che siano gli “stati generali” la rappresentazione iconica della ripartenza, se la politica non sa, non conosce, non impara, non decide, abbandona la competenza strada facendo e delega la responsabilità che le pertiene a soggetti esterni che non vanno oltre l’ipertrofia di piste, tracce, schemi, diagrammi, documenti che nessuno riuscirà mai ad applicare?
Riservandosi il compiacimento di organizzare l’ennesima sfilata o il nuovo testo unico dello scibile umano.
I veri “stati generali” sono il Parlamento eletto dal popolo sovrano.
Per questo, caro Presidente De Rita ha forse ragione Lei: il continuismo è tenacia che ricompone le discontinuità e l’oggi è migliore dell’ieri. Basta essere capaci di fare sintesi efficaci.
Non aveva dunque torto Voltaire quando affermava: “Tutto è bene, tutto va bene, tutto va per il meglio possibile”? Non esistendo un anno zero questo aforisma ci ricorda che tutto è ciclico e relativo.
Resta il fatto che in molti, in tanti, in troppi abbiamo la sensazione di essere seduti su un cumulo di macerie, senza avere il cemento per rimetterle insieme.
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