Negli anni Sessanta, il riformismo dei governi di centro-sinistra si era prefissato l’attuazione di un radicale cambiamento amministrativo a supporto delle nuove metodologie di programmazione e di controllo della spesa pubblica (L.Lanzillotta, Il paese delle mezze riforme, ed. Passigli). Si cercò di introdurre nell’amministrazione un nuovo strumento di governo, con obiettivi, atti amministrativi e legislativi da adottare secondo un chiaro quadro programmatico.
Citando vari documenti (la Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, il Rapporto di Pasquale Saraceno, il Piano Giolitti), Linda Lanzillotta evidenzia la comune consapevolezza che, senza una profonda trasformazione della pubblica amministrazione, non sarebbe realizzabile una efficace gestione della spesa pubblica. Altrettanto indispensabile è la necessità di forti investimenti nell’organizzazione e nella formazione professionale.
Senza questi presupposti, le riforme erano destinate a fallire. Così accadde e contribuì ad esaurire la spinta riformatrice degli anni Sessanta nella Pubblica Amministrazione, e portò alla conclusione della esperienza di programmazione economica già nei primi anni Settanta. Negli anni successivi, la produzione normativa divenne sempre meno chiara, di difficile comprensione non solo per i comuni cittadini a cui erano rivolte le leggi, ma anche per gli operatori dell’amministrazione pubblica chiamati ad applicarle. Le leggi e i relativi decreti attuativi erano scritti con formulazioni illeggibili e macchinose, tali da rendere di difficile comprensione il testo legislativo e pregiudicarne l’attuazione. Se allarghiamo un attimo la visuale (cfr Ralf Dahrendorf, Dopo la democrazia, Ed. Laterza) il problema non è solo italiano.
È tutto il modello occidentale di democrazia con il relativo sistema di pubblica amministrazione ad essere sottoposto a una profonda revisione, per effetto della internazionalizzazione e della globalizzazione dei processi produttivi. Ne consegue che le amministrazioni pubbliche, che hanno supportato le democrazie occidentali, sono entrate in crisi. È indubbio che il modello di democrazia occidentale stia oggi vivendo un periodo di grande difficoltà, per gli effetti delle dinamiche dei nuovi sviluppi economici. Per i Paesi europei, il quadro politico è radicalmente cambiato: chi detiene il potere non è più in Europa, ma negli USA, in Cina, altrove. È emersa una nuova classe globale, cosmopolita, transnazionale, ricca, molto potente. Un piccolo gruppo di capitalisti esprime la nuova forza della produzione mondiale, cavalcando l’onda della tecnologia digitale, del “5G”, delle tecnologie verdi etc.
La nuova classe sociale (Global Class) non è più espressione della cultura umanistica e scientifica propria della storia dell’Europa Occidentale, e non si riconosce più negli attuali apparati amministrativi formatisi nel solco della tradizione francese e germanica. L’odierna Global Class si è formata, piuttosto, a una scuola anglo-statunitense, e si muove su nuove linee transnazionali di prodotto e di processi produttivi indipendenti e liberi dalla sovranità dei singoli stati. In tempi recenti anche la Pubblica Amministrazione italiana si è dovuta confrontare con una dura competizione tra forze economiche internazionali, per il predominio del nuovo mondo tecnologico, del “5G”, delle telecomunicazioni, delle nuove vie digitali, ecc. Il vetusto modello amministrativo di tradizione bonapartista o austro-germanica, che in Italia è alla base dell’applicazione di origine piemontese, mostra tutta la sua inadeguatezza e contraddizione rispetto al nuovo sistema mondiale, che punta invece alla realizzazione dei suoi processi di accumulazione internazionali.
Il nodo del problema, a mio parere, non è, come si pensa comunemente, un eccesso di burocrazia: al contrario, abbiamo una notevole carenza di burocrati all’altezza dei nuovi compiti che si affacciano su uno scenario sempre più esteso, ben oltre i modesti confini nazionali. Lo si è potuto constatare anche recentemente, nella gestione degli aiuti ai vari ceti produttivi e sociali messi in ginocchio dalla pandemia: parlare di “inefficienza” sembra un eufemismo. Il quadro è aggravato dalla debolezza del sistema dei partiti che dovrebbero dare l’indirizzo politico alla amministrazione pubblica.
Non c’è una leadership politica che sappia tenere insieme i molteplici interessi economici e sociali, col risultato di indebolire ulteriormente lo Stato: l’Amministrazione Pubblica sembra affondare nelle sabbie mobili dei vari decreti, norme, regolamenti sfornati a pioggia dagli uffici legislativi dei vari Ministeri.
C’è una parvenza di “luce in fondo al tunnel”? Diciamo che siamo di fronte a una imperdibile opportunità, grazie alla notevole immissione di liquidità che ci arriva, alla fine, proprio da quell’Europa tanto bistrattata dall’italica opposizione. Una opportunità per la ripresa di un disegno riformatore che operi una sintesi tra la tradizione giuridica , che appartiene al nostro DNA, e l’esigenza di una nuova capacità di gestione manageriale dell’offerta pubblica.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Citando vari documenti (la Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, il Rapporto di Pasquale Saraceno, il Piano Giolitti), Linda Lanzillotta evidenzia la comune consapevolezza che, senza una profonda trasformazione della pubblica amministrazione, non sarebbe realizzabile una efficace gestione della spesa pubblica. Altrettanto indispensabile è la necessità di forti investimenti nell’organizzazione e nella formazione professionale.
Senza questi presupposti, le riforme erano destinate a fallire. Così accadde e contribuì ad esaurire la spinta riformatrice degli anni Sessanta nella Pubblica Amministrazione, e portò alla conclusione della esperienza di programmazione economica già nei primi anni Settanta. Negli anni successivi, la produzione normativa divenne sempre meno chiara, di difficile comprensione non solo per i comuni cittadini a cui erano rivolte le leggi, ma anche per gli operatori dell’amministrazione pubblica chiamati ad applicarle. Le leggi e i relativi decreti attuativi erano scritti con formulazioni illeggibili e macchinose, tali da rendere di difficile comprensione il testo legislativo e pregiudicarne l’attuazione. Se allarghiamo un attimo la visuale (cfr Ralf Dahrendorf, Dopo la democrazia, Ed. Laterza) il problema non è solo italiano.
È tutto il modello occidentale di democrazia con il relativo sistema di pubblica amministrazione ad essere sottoposto a una profonda revisione, per effetto della internazionalizzazione e della globalizzazione dei processi produttivi. Ne consegue che le amministrazioni pubbliche, che hanno supportato le democrazie occidentali, sono entrate in crisi. È indubbio che il modello di democrazia occidentale stia oggi vivendo un periodo di grande difficoltà, per gli effetti delle dinamiche dei nuovi sviluppi economici. Per i Paesi europei, il quadro politico è radicalmente cambiato: chi detiene il potere non è più in Europa, ma negli USA, in Cina, altrove. È emersa una nuova classe globale, cosmopolita, transnazionale, ricca, molto potente. Un piccolo gruppo di capitalisti esprime la nuova forza della produzione mondiale, cavalcando l’onda della tecnologia digitale, del “5G”, delle tecnologie verdi etc.
La nuova classe sociale (Global Class) non è più espressione della cultura umanistica e scientifica propria della storia dell’Europa Occidentale, e non si riconosce più negli attuali apparati amministrativi formatisi nel solco della tradizione francese e germanica. L’odierna Global Class si è formata, piuttosto, a una scuola anglo-statunitense, e si muove su nuove linee transnazionali di prodotto e di processi produttivi indipendenti e liberi dalla sovranità dei singoli stati. In tempi recenti anche la Pubblica Amministrazione italiana si è dovuta confrontare con una dura competizione tra forze economiche internazionali, per il predominio del nuovo mondo tecnologico, del “5G”, delle telecomunicazioni, delle nuove vie digitali, ecc. Il vetusto modello amministrativo di tradizione bonapartista o austro-germanica, che in Italia è alla base dell’applicazione di origine piemontese, mostra tutta la sua inadeguatezza e contraddizione rispetto al nuovo sistema mondiale, che punta invece alla realizzazione dei suoi processi di accumulazione internazionali.
Il nodo del problema, a mio parere, non è, come si pensa comunemente, un eccesso di burocrazia: al contrario, abbiamo una notevole carenza di burocrati all’altezza dei nuovi compiti che si affacciano su uno scenario sempre più esteso, ben oltre i modesti confini nazionali. Lo si è potuto constatare anche recentemente, nella gestione degli aiuti ai vari ceti produttivi e sociali messi in ginocchio dalla pandemia: parlare di “inefficienza” sembra un eufemismo. Il quadro è aggravato dalla debolezza del sistema dei partiti che dovrebbero dare l’indirizzo politico alla amministrazione pubblica.
Non c’è una leadership politica che sappia tenere insieme i molteplici interessi economici e sociali, col risultato di indebolire ulteriormente lo Stato: l’Amministrazione Pubblica sembra affondare nelle sabbie mobili dei vari decreti, norme, regolamenti sfornati a pioggia dagli uffici legislativi dei vari Ministeri.
C’è una parvenza di “luce in fondo al tunnel”? Diciamo che siamo di fronte a una imperdibile opportunità, grazie alla notevole immissione di liquidità che ci arriva, alla fine, proprio da quell’Europa tanto bistrattata dall’italica opposizione. Una opportunità per la ripresa di un disegno riformatore che operi una sintesi tra la tradizione giuridica , che appartiene al nostro DNA, e l’esigenza di una nuova capacità di gestione manageriale dell’offerta pubblica.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
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