È praticamente dal ’68 che il sistema scolastico italiano non conosce tregua tra crisi vere e crisi inventate.
I decreti delegati del 1974 da un lato avevano avuto il pregio di definire ruoli e funzioni del personale in un contesto istituzionale che consacrava le spinte dell’evoluzione sociale, dall’altro avevano sofferto le difficoltà del transito da una struttura ordinamentale verticistica e gerarchizzata a un modello che integrava nuovi soggetti e si apriva ad una gestione collegiale: ne sono derivati alcuni vantaggi e molte difficoltà che vigono tuttora, ereditate.
Paradossalmente la deriva di democratizzazione dei processi decisionali ha assecondato una tendenza in atto nella società italiana e nei suoi apparati: la bulimia legislativa, con una esponenzialmente crescente proliferazione di nuove disposizioni, in un contesto generalizzato di burocrazia paralizzante che ha prodotto una sorta di narrazione autoreferenziale fuorviante e inconcludente.
Ci si aspettava che accadesse il contrario: le logiche di buon governo e di programmazione dovrebbero favorire la semplificazione delle procedure e la focalizzazione degli obiettivi e dei fini che ciascuna istituzione deve perseguire.
Da quando nella scuola è entrato di tutto i corollari hanno a poco a poco sostituito i compiti essenziali del sistema formativo, con una sovrapposizione di ruoli, iniziative e funzioni che hanno finito per spostare energie e risorse dalle classi agli apparati, dai docenti alle gabbie normative che li hanno imprigionati, tra progetti effimeri, funzioni a latere, differenziazioni risibili, ridondanza di ordini e divieti.
Né il processo di autonomia generato dal DPR 275/1999 sembra aver invertito la rotta: l’emanazione di disposizioni e circolari interne ha assunto toni parossistici investendo gli insegnanti da una valanga soffocante di norme da correlare, disposizioni da interpretare, esperti da ascoltare, corsi da frequentare, patentini da ottenere con un investimento di tempo e di energie sottratte all’insegnamento. Una ipertrofia catalizzante e generativa di ansie da prestazioni, riunioni incalzanti con un effetto moltiplicatore di compiti razionalmente inesistenti e da autovalutazioni prive di valenza docimologica e di risultati all’atto pratico migliorativi.
Intanto la scuola italiana ha chiuso l’anno scolastico con il perdurare del lockdown ed è storia di questi giorni: la Camera ha convertito il D.L.8 aprile 2020 n° 22 che si occupa di precariato, concorsi a quesiti aperti e non con quiz con risposte a crocetta, di cornice normativa per lo svolgimento degli esami di maturità, abolizione di quello della scuola media, ritorno del giudizio al posto del voto nella primaria, poteri ai sindaci in materia urgente di edilizia ecc. Resta da definire il provvedimento tecnico che stabilirà le procedure per la riapertura delle lezioni a settembre e questo è certamente l’argomento più atteso, controverso e tuttora foriero in incognite insolute (e all’atto pratico forse insolubili).
Ho letto su Tuttoscuola la lettera di due docenti che pongono quesiti concreti e puntuali, noti forse solo a chi insegna davvero e non si limita a fare l’esperto di professione senza aver messo piede in un’aula dai tempi in cui era studente. Essi riguardano la vita quotidiana degli insegnanti che si troveranno a gestire una situazione organizzativamente e didatticamente complessa con i loro scolari: cosa fare se due alunni si strappano la mascherina, se uno dice di avere la febbre, come gestire i distanziamenti, di quali risorse umane di supporto (es. collaboratori scolastici) avvalersi, come concretamente svolgere le lezioni, se esiste ancora la cosiddetta “ricreazione”, come organizzare i piccoli gruppi, come contenere fisicamente i ragazzini in spazi angusti. ecc. Sono due insegnanti di scuola secondaria di primo grado: immagino i problemi che potrebbero porre le loro colleghe della scuola dell’infanzia, dove gli alunni non indosseranno le mascherine, dove si fanno gli inserimenti dei bambini di tre anni che piangono e vogliono la mamma, dove è fisicamente impossibile rispettare le distanze perché alunni così piccoli non possono essere tenuti fermi, seduti al tavolino in un’aula spesso di minime dimensioni, come convincere i genitori a fermarsi sulla soglia senza entrare a scuola, come gestire i momenti dell’accoglienza e del sonno… come portare – loro, le maestre – la mascherina e la visiera.
Conclusa la DAD, la didattica a distanza, sono ora attese le linee guida “per riportare gli alunni a scuola, in presenza e in sicurezza”, come riferito dalla Ministra dell’Istruzione. Si vocifera di cabine di plexiglas, di turnazioni degli alunni, di piccoli gruppi ma nulla al momento è definito.
Da quando la pedagogia comparativa è materia per gli esami universitari e per i concorsi dirigenziali scolastici, sarebbe utile dare un’occhiata ai modelli organizzativi adottati negli altri Paesi.
Certamente il problema di come ripartire con le lezioni e di come organizzare la didattica è ostico e ha le parvenze – come già scritto – della quadratura del cerchio. Forse più che calare dall’alto soluzioni preconfezionate sarebbe utile ascoltare la voce di chi dovrà vivere concretamente queste situazioni: dai dirigenti scolastici che non si riconoscono nell’icona del preside-sceriffo della “buona scuola” né nella metafora dei “comandanti della loro nave”, coniata dall’attuale Ministro PI, per continuare con i docenti che – come argutamente osservato da Galli della Loggia in un recente editoriale sul Corsera – sono solitamente rappresentati da sindacalisti che non siedono dietro una cattedra scolastica da 20 o 30 anni.
Occorre che l’Amministrazione scolastica condivida queste scelte con i diretti interessati, dirigenti e docenti in primis come detto.
Senza contare che esiste una ormai sparuta pattuglia di dirigenti ispettivi tecnici, che dovrebbero essere i più autorevoli consiglieri del Ministro e dei Direttori generali ma che sono spesso privati delle loro prerogative di consulenza e di controllo per essere dirottati negli uffici alla stregua di impiegati amministrativi.
Sarebbe infine l’ora che la politica dedicasse alla scuola le attenzioni e le risorse che merita, non limitandosi a replicare le solite immissioni in ruolo dei precari senza vagli concorsuali, dedicando all’istruzione tempi ristretti e residuali, come si trattasse di argomento da “ultima ora” .
La formazione assume una valenza decisiva per far rinascere il Paese dopo la pandemia. Ma ancora prima, “a monte” come si direbbe, urge un ricambio radicale della classe politica basato su due pilastri irrinunciabili: si chiamano competenza e responsabilità.
I decreti delegati del 1974 da un lato avevano avuto il pregio di definire ruoli e funzioni del personale in un contesto istituzionale che consacrava le spinte dell’evoluzione sociale, dall’altro avevano sofferto le difficoltà del transito da una struttura ordinamentale verticistica e gerarchizzata a un modello che integrava nuovi soggetti e si apriva ad una gestione collegiale: ne sono derivati alcuni vantaggi e molte difficoltà che vigono tuttora, ereditate.
Paradossalmente la deriva di democratizzazione dei processi decisionali ha assecondato una tendenza in atto nella società italiana e nei suoi apparati: la bulimia legislativa, con una esponenzialmente crescente proliferazione di nuove disposizioni, in un contesto generalizzato di burocrazia paralizzante che ha prodotto una sorta di narrazione autoreferenziale fuorviante e inconcludente.
Ci si aspettava che accadesse il contrario: le logiche di buon governo e di programmazione dovrebbero favorire la semplificazione delle procedure e la focalizzazione degli obiettivi e dei fini che ciascuna istituzione deve perseguire.
Da quando nella scuola è entrato di tutto i corollari hanno a poco a poco sostituito i compiti essenziali del sistema formativo, con una sovrapposizione di ruoli, iniziative e funzioni che hanno finito per spostare energie e risorse dalle classi agli apparati, dai docenti alle gabbie normative che li hanno imprigionati, tra progetti effimeri, funzioni a latere, differenziazioni risibili, ridondanza di ordini e divieti.
Né il processo di autonomia generato dal DPR 275/1999 sembra aver invertito la rotta: l’emanazione di disposizioni e circolari interne ha assunto toni parossistici investendo gli insegnanti da una valanga soffocante di norme da correlare, disposizioni da interpretare, esperti da ascoltare, corsi da frequentare, patentini da ottenere con un investimento di tempo e di energie sottratte all’insegnamento. Una ipertrofia catalizzante e generativa di ansie da prestazioni, riunioni incalzanti con un effetto moltiplicatore di compiti razionalmente inesistenti e da autovalutazioni prive di valenza docimologica e di risultati all’atto pratico migliorativi.
Intanto la scuola italiana ha chiuso l’anno scolastico con il perdurare del lockdown ed è storia di questi giorni: la Camera ha convertito il D.L.8 aprile 2020 n° 22 che si occupa di precariato, concorsi a quesiti aperti e non con quiz con risposte a crocetta, di cornice normativa per lo svolgimento degli esami di maturità, abolizione di quello della scuola media, ritorno del giudizio al posto del voto nella primaria, poteri ai sindaci in materia urgente di edilizia ecc. Resta da definire il provvedimento tecnico che stabilirà le procedure per la riapertura delle lezioni a settembre e questo è certamente l’argomento più atteso, controverso e tuttora foriero in incognite insolute (e all’atto pratico forse insolubili).
Ho letto su Tuttoscuola la lettera di due docenti che pongono quesiti concreti e puntuali, noti forse solo a chi insegna davvero e non si limita a fare l’esperto di professione senza aver messo piede in un’aula dai tempi in cui era studente. Essi riguardano la vita quotidiana degli insegnanti che si troveranno a gestire una situazione organizzativamente e didatticamente complessa con i loro scolari: cosa fare se due alunni si strappano la mascherina, se uno dice di avere la febbre, come gestire i distanziamenti, di quali risorse umane di supporto (es. collaboratori scolastici) avvalersi, come concretamente svolgere le lezioni, se esiste ancora la cosiddetta “ricreazione”, come organizzare i piccoli gruppi, come contenere fisicamente i ragazzini in spazi angusti. ecc. Sono due insegnanti di scuola secondaria di primo grado: immagino i problemi che potrebbero porre le loro colleghe della scuola dell’infanzia, dove gli alunni non indosseranno le mascherine, dove si fanno gli inserimenti dei bambini di tre anni che piangono e vogliono la mamma, dove è fisicamente impossibile rispettare le distanze perché alunni così piccoli non possono essere tenuti fermi, seduti al tavolino in un’aula spesso di minime dimensioni, come convincere i genitori a fermarsi sulla soglia senza entrare a scuola, come gestire i momenti dell’accoglienza e del sonno… come portare – loro, le maestre – la mascherina e la visiera.
Conclusa la DAD, la didattica a distanza, sono ora attese le linee guida “per riportare gli alunni a scuola, in presenza e in sicurezza”, come riferito dalla Ministra dell’Istruzione. Si vocifera di cabine di plexiglas, di turnazioni degli alunni, di piccoli gruppi ma nulla al momento è definito.
Da quando la pedagogia comparativa è materia per gli esami universitari e per i concorsi dirigenziali scolastici, sarebbe utile dare un’occhiata ai modelli organizzativi adottati negli altri Paesi.
Certamente il problema di come ripartire con le lezioni e di come organizzare la didattica è ostico e ha le parvenze – come già scritto – della quadratura del cerchio. Forse più che calare dall’alto soluzioni preconfezionate sarebbe utile ascoltare la voce di chi dovrà vivere concretamente queste situazioni: dai dirigenti scolastici che non si riconoscono nell’icona del preside-sceriffo della “buona scuola” né nella metafora dei “comandanti della loro nave”, coniata dall’attuale Ministro PI, per continuare con i docenti che – come argutamente osservato da Galli della Loggia in un recente editoriale sul Corsera – sono solitamente rappresentati da sindacalisti che non siedono dietro una cattedra scolastica da 20 o 30 anni.
Occorre che l’Amministrazione scolastica condivida queste scelte con i diretti interessati, dirigenti e docenti in primis come detto.
Senza contare che esiste una ormai sparuta pattuglia di dirigenti ispettivi tecnici, che dovrebbero essere i più autorevoli consiglieri del Ministro e dei Direttori generali ma che sono spesso privati delle loro prerogative di consulenza e di controllo per essere dirottati negli uffici alla stregua di impiegati amministrativi.
Sarebbe infine l’ora che la politica dedicasse alla scuola le attenzioni e le risorse che merita, non limitandosi a replicare le solite immissioni in ruolo dei precari senza vagli concorsuali, dedicando all’istruzione tempi ristretti e residuali, come si trattasse di argomento da “ultima ora” .
La formazione assume una valenza decisiva per far rinascere il Paese dopo la pandemia. Ma ancora prima, “a monte” come si direbbe, urge un ricambio radicale della classe politica basato su due pilastri irrinunciabili: si chiamano competenza e responsabilità.
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