I 172,7 miliardi di euro che la Commissione UE mira a pompare nei prossimi anni nell’economia italiana – 81,8 a fondo perduto e 91,7 come prestiti – stanno per alimentare un assalto alla diligenza, una versione potenziata di quella corsa ad accaparrarsi soldi pubblici che abbiamo visto in mille leggi finanziarie e milleproproghe negli anni, in particolare in periodi di vacche grasse.
Ora che deteniamo la quota di maggioranza dei 750 miliardi totali sul tappeto persino alcuni sovranisti si ritrovano a disagio nella propria opposizione all’Unione, che per la maggior parte di essi in realtà è sempre stata poco ideologia o purezza nazionalista, ma più opposizione alla presunta austerità economica imposta da Bruxelles. E naturalmente guardano in modo molto interessato ai miliardi in arrivo, al massimo lamentando la probabile eccessiva lentezza con cui questi fondi saranno erogati.
E allora già si parla di diminuzione delle tasse, di modi per «mettere più soldi nelle tasche degli italiani».
Per fortuna però non ci sono solo le regole contabili a dire che non si può finanziare minori flussi di entrate, destinate a divenire permanenti, con uno stock, ovvero con un afflusso una tantum di fondi. Ma la stessa Commissione, che sta delineando delle regole, dei macro-obiettivi che gli Stati dovranno perseguire nell’allocazione delle risorse, dalla transizione ecologica alla maggiore diffusione del digitale, dal quanto mai necessario rafforzamento del sistema sanitario alla maggiore efficienza della Pubblica amministrazione.
Sono le famose condizionalità che per forza di cose saranno presenti, e diverranno sempre più evidenti quanto più si dovrà convincere i Paesi “frugali” ad approvarli, Austria e Paesi Bassi in testa.
Ci saranno polemiche e recriminazioni, ovvio. Il punto è che in realtà si tratterà esattamente di quello di cui necessitiamo da decenni, ovvero di più investimenti strategici mirati ad accrescere la nostra produttività in tutti i campi.
Perché questo è il nostro handicap almeno da 30 anni, e le crisi periodiche, qualsiasi sia la loro origine, se Lehman Brothers o un virus, servono solo a renderlo più evidente.
Secondo i primi dati Istat sul primo trimestre 2020 il crollo del PIL non è solo stato peggiore del previsto e peggiore di quello di altri paesi, ma soprattutto, si è concentrato a livello di settori in particolare nell’industria, ancora più che nel commercio come forse molti potevano pensare, con un calo del 9,9 per cento a fronte di uno complessivo del 5,4 per cento.
Mentre nell’ambito delle componenti del PIL gli investimenti più dei consumi hanno subito una debacle più che proporzionale, con una diminuzione dell’8,8 per cento, che è diventata in doppia cifra se parliamo di investimenti in mezzi di trasporto e in impianti e macchinari.Sono state soprattutto le aziende ad avere smesso di investire: questa la vera emergenza, perché viene dopo anni in cui i loro tassi d’investimento sono stati tra i più bassi d’Europa, rimanendo stagnanti anche quando in altri Paesi si riprendevano, vedi Spagna e Francia.
Sì, è vero, siamo una delle economie mature e infatti anche in Germania questi tassi sono particolarmente bassi, il punto è che nel complesso lì vi sono più aziende, e di maggiori dimensioni, che investono: a livello di investimenti complessivi sul PIL anche i tedeschi ci superano lasciandoci agli ultimi posti, sia negli ultimi anni che prima di Lehman Brothers. Tra i tipi degli investimenti in cui l’Italia è rimasta più indietro, e che dovrebbero essere al centro dei progetti di utilizzo dei fondi UE, vi sono quelli riguardanti la proprietà intellettuale, quindi direttamente legata alla ricerca, e quelli riguardanti tutto ciò che è digitale e ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione). Nel primo caso tra 2010 e 2019 sono cresciuti del 55,5 per cento in Europa e del 22,2 per cento in Italia, nel secondo invece l’incremento è stato del 37,6 per cento nella UE e del 19,1 per cento nel nostro Paese.
Di fronte a questi numeri non possiamo permetterci l’ennesimo luddismo italiano, questa volta contro il 5G, per esempio. Necessitiamo che una fetta dei 172 miliardi e oltre che arriveranno vadano nella digitalizzazione delle imprese, nell’ICT, nella modernizzazione delle infrastrutture telematiche, oltre che nel potenziamento delle competenze per il loro utilizzo, in cui pure siamo indietro.
Questo per un semplice motivo: meno investimenti, che siano in ICT, in ricerca, in macchinari (anche questi sono cresciuti meno che in Europa, solo del 4 per cento contro il 25,8 per cento), vuol dire minore produttività. E la produttività del lavoro non a caso è rimasta al palo mentre altrove saliva, e non di poco.
Ma quale impatto hanno investimenti e produttività? A molti sembrano sempre gli stessi termini tecnici da convegno di Confindustria, e forse non è un caso che Bonomi sia appena tornato sul tema. Ma c’è di più.
Senza investimenti e quindi aumento della produttività i salari non possono crescere.
Se la produttività cresce lo possono fare anche i salari. È quello che accade in Germania e Francia.
Gli stipendi possono seguire il trend della produttività a distanza, come accade nel Paese di Angela Merkel, o molto più da vicino, come Oltralpe, ma lo seguono. Quella parte di produttività e crescita del PIL che non si trasforma in maggior salario serve ad aumentare l’occupazione, come è il caso della Germania, o anche della Spagna con la ripresa post-2013, ed è quindi comunque vitale.
Nel nostro caso invece è encefalogramma piatto, niente produttività e quindi salari stagnanti e occupazione cresciuta sì, ma meno che altrove.
Sbagliare l’allocazione delle risorse in arrivo dall’Unione Europea sarebbe esiziale per noi. In un certo senso siamo avvantaggiati, abbiamo carenze tali in così tanti campi, dal capitale umano (guardare i test Pisa), alla digitalizzazione, e siamo scivolati così indietro sulla frontiera tecnologica che in un certo senso con più fondi potremmo mettere in atto quello che gli economisti chiamano un catching-up, un riaggancio di chi ci sta davanti, con un’ampia gamma di interventi.
Basta evitare la patologica mania dei soldi a pioggia, fatta di bonus un po’ per tutti, di taglio delle tasse in deficit, di allergia per gli investimenti di lungo periodo.
Finora avevamo poche frecce al nostro arco, ora sotto forma di soldi (quasi) gratis abbiamo una grande arma in mano, possiamo approfittarne o farci molto male, in modo forse irreversibile.
(Tratto da www.linkiesta.it)
Ora che deteniamo la quota di maggioranza dei 750 miliardi totali sul tappeto persino alcuni sovranisti si ritrovano a disagio nella propria opposizione all’Unione, che per la maggior parte di essi in realtà è sempre stata poco ideologia o purezza nazionalista, ma più opposizione alla presunta austerità economica imposta da Bruxelles. E naturalmente guardano in modo molto interessato ai miliardi in arrivo, al massimo lamentando la probabile eccessiva lentezza con cui questi fondi saranno erogati.
E allora già si parla di diminuzione delle tasse, di modi per «mettere più soldi nelle tasche degli italiani».
Per fortuna però non ci sono solo le regole contabili a dire che non si può finanziare minori flussi di entrate, destinate a divenire permanenti, con uno stock, ovvero con un afflusso una tantum di fondi. Ma la stessa Commissione, che sta delineando delle regole, dei macro-obiettivi che gli Stati dovranno perseguire nell’allocazione delle risorse, dalla transizione ecologica alla maggiore diffusione del digitale, dal quanto mai necessario rafforzamento del sistema sanitario alla maggiore efficienza della Pubblica amministrazione.
Sono le famose condizionalità che per forza di cose saranno presenti, e diverranno sempre più evidenti quanto più si dovrà convincere i Paesi “frugali” ad approvarli, Austria e Paesi Bassi in testa.
Ci saranno polemiche e recriminazioni, ovvio. Il punto è che in realtà si tratterà esattamente di quello di cui necessitiamo da decenni, ovvero di più investimenti strategici mirati ad accrescere la nostra produttività in tutti i campi.
Perché questo è il nostro handicap almeno da 30 anni, e le crisi periodiche, qualsiasi sia la loro origine, se Lehman Brothers o un virus, servono solo a renderlo più evidente.
Secondo i primi dati Istat sul primo trimestre 2020 il crollo del PIL non è solo stato peggiore del previsto e peggiore di quello di altri paesi, ma soprattutto, si è concentrato a livello di settori in particolare nell’industria, ancora più che nel commercio come forse molti potevano pensare, con un calo del 9,9 per cento a fronte di uno complessivo del 5,4 per cento.
Mentre nell’ambito delle componenti del PIL gli investimenti più dei consumi hanno subito una debacle più che proporzionale, con una diminuzione dell’8,8 per cento, che è diventata in doppia cifra se parliamo di investimenti in mezzi di trasporto e in impianti e macchinari.Sono state soprattutto le aziende ad avere smesso di investire: questa la vera emergenza, perché viene dopo anni in cui i loro tassi d’investimento sono stati tra i più bassi d’Europa, rimanendo stagnanti anche quando in altri Paesi si riprendevano, vedi Spagna e Francia.
Sì, è vero, siamo una delle economie mature e infatti anche in Germania questi tassi sono particolarmente bassi, il punto è che nel complesso lì vi sono più aziende, e di maggiori dimensioni, che investono: a livello di investimenti complessivi sul PIL anche i tedeschi ci superano lasciandoci agli ultimi posti, sia negli ultimi anni che prima di Lehman Brothers. Tra i tipi degli investimenti in cui l’Italia è rimasta più indietro, e che dovrebbero essere al centro dei progetti di utilizzo dei fondi UE, vi sono quelli riguardanti la proprietà intellettuale, quindi direttamente legata alla ricerca, e quelli riguardanti tutto ciò che è digitale e ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione). Nel primo caso tra 2010 e 2019 sono cresciuti del 55,5 per cento in Europa e del 22,2 per cento in Italia, nel secondo invece l’incremento è stato del 37,6 per cento nella UE e del 19,1 per cento nel nostro Paese.
Di fronte a questi numeri non possiamo permetterci l’ennesimo luddismo italiano, questa volta contro il 5G, per esempio. Necessitiamo che una fetta dei 172 miliardi e oltre che arriveranno vadano nella digitalizzazione delle imprese, nell’ICT, nella modernizzazione delle infrastrutture telematiche, oltre che nel potenziamento delle competenze per il loro utilizzo, in cui pure siamo indietro.
Questo per un semplice motivo: meno investimenti, che siano in ICT, in ricerca, in macchinari (anche questi sono cresciuti meno che in Europa, solo del 4 per cento contro il 25,8 per cento), vuol dire minore produttività. E la produttività del lavoro non a caso è rimasta al palo mentre altrove saliva, e non di poco.
Ma quale impatto hanno investimenti e produttività? A molti sembrano sempre gli stessi termini tecnici da convegno di Confindustria, e forse non è un caso che Bonomi sia appena tornato sul tema. Ma c’è di più.
Senza investimenti e quindi aumento della produttività i salari non possono crescere.
Se la produttività cresce lo possono fare anche i salari. È quello che accade in Germania e Francia.
Gli stipendi possono seguire il trend della produttività a distanza, come accade nel Paese di Angela Merkel, o molto più da vicino, come Oltralpe, ma lo seguono. Quella parte di produttività e crescita del PIL che non si trasforma in maggior salario serve ad aumentare l’occupazione, come è il caso della Germania, o anche della Spagna con la ripresa post-2013, ed è quindi comunque vitale.
Nel nostro caso invece è encefalogramma piatto, niente produttività e quindi salari stagnanti e occupazione cresciuta sì, ma meno che altrove.
Sbagliare l’allocazione delle risorse in arrivo dall’Unione Europea sarebbe esiziale per noi. In un certo senso siamo avvantaggiati, abbiamo carenze tali in così tanti campi, dal capitale umano (guardare i test Pisa), alla digitalizzazione, e siamo scivolati così indietro sulla frontiera tecnologica che in un certo senso con più fondi potremmo mettere in atto quello che gli economisti chiamano un catching-up, un riaggancio di chi ci sta davanti, con un’ampia gamma di interventi.
Basta evitare la patologica mania dei soldi a pioggia, fatta di bonus un po’ per tutti, di taglio delle tasse in deficit, di allergia per gli investimenti di lungo periodo.
Finora avevamo poche frecce al nostro arco, ora sotto forma di soldi (quasi) gratis abbiamo una grande arma in mano, possiamo approfittarne o farci molto male, in modo forse irreversibile.
(Tratto da www.linkiesta.it)
Quelli che vogliono uscire dall’Euro o dall’Europa inventandosi la moda dell’anti europeismo spieghino come intendono governare un’Italia ridotta a feudo. Qui ne va della parola “politica” e del suo significato.
Supponiamo che per qualche miracolo si arrivi in breve a definire gli obiettivi da raggiungere in sostanziale accordo tra le varie forze politiche. Chi ci garantisce che l’ Italia sarà poi capace di spendere i soldi ottenuti e non come in passato lasciarli inutilizzati? La distribuzione a pioggia è facile, genera consenso elettorale e fornisce un alibi perfetto al potere burocratico. Dei veri problemi… discuteremo…