Oltre la crisi economica e sociale



Giannino Piana    31 Maggio 2020       0

Il coronavirus ha assestato un ultimo colpo di grazia al sistema economico-finanziario che l’Occidente in particolare (ma non solo) ha costruito. Sintomi consistenti della debolezza ditale sistema erano già venuti alla luce nella crisi del 2017-18; la situazione attuale tuttavia non solo li ha confermati, ma ha denunciato la sua radicale insostenibilità, rendendo evidenti le pesanti ricadute negative che esso ha sulla salute e sulla vita delle persone. Sono emerse così le crepe di un modello, che sembrava fondato su un pensiero assoluto – l’ideologia del mercato unico – e ci siamo trovati tutti più fragili e indifesi.

Le conferme del coronavirus

I danni del sistema neoliberista sono di ampia portata e di diversa natura. La concentrazione della ricchezza e del potere economico-finanziario e tecnologico nelle mani di pochi ha provocato una crescita abnorme delle diseguaglianze non solo tra popoli ricchi e popoli poveri, ma anche tra le classi sociali e tra le generazioni, con gravi ricadute sulla vita delle persone tanto nell’accesso a diritti fondamentali come la salute e l’istruzione quanto nell’esercizio del potere di partecipazione e di decisione democratica.

Mentre, a sua volta, l’uso strumentale della natura in funzione della massimizzazione della produttività e del profitto ha determinato il disastro ambientale, con lo spreco di risorse essenziali, molte delle quali non rinnovabili, e con l’inquinamento di beni di primaria importanza quali l’acqua, l’aria e la terra.

L'attuale pandemia ha reso ancor più trasparenti, da un lato, gli effetti negativi di interventi sconsiderati nei confronti dell’ambiente – non è un caso che la concentrazione del virus si sia verificata soprattutto nelle megalopoli dove il livello di inquinamento è molto più alto che altrove – e ha messo ancora una volta in luce l’importanza che rivestono, anche in questo caso le diseguaglianze sociali. Non è vero – come qualcuno ha sostenuto – che il virus sia il «grande equalizzatore»; esso ha colpito, anche da noi, soprattutto le varie categorie di poveri – dagli anziani residenti nelle case di riposo alle donne vittime di violenza nelle loro case – che hanno pagato un prezzo altissimo, rendendo drammaticamente attuale il detto afroamericano che recita: «Quando l’America bianca prende il raffreddore, l’America nera si ammala».

I rischi della situazione attuale

Questi effetti distorti del sistema vigente sono oggi aggravati dalla situazione di pesante recessione che si è già aperta e che subirà un’ulteriore accentuazione nei prossimi mesi. Il crollo dell’attività produttiva, causato dalla sospensione imposta dal coronavirus, non potrà che tradursi nell’aumento della disoccupazione e nell’incremento delle povertà e delle diseguaglianze sociali. Rischia così di aprirsi una stagione di grave stagnazione economica – una delle più gravi degli ultimi secoli (vi è chi la confronta, non senza ragione, con quella del 1929) – con riflessi di grande rilevanza non solo sulla condizione economica soprattutto dei più deboli, ma anche sulla vita sociale e civile.

Il pericolo del prolungamento della crisi nel tempo è destinato a seminare apprensione e inquietudine e può condurre – se il processo non viene oculatamente controllato – a derive regressive, dando vita a una strategia che favorisce il consolidamento del sistema. Il bisogno di far fronte a urgenze impellenti che reclamano risposte immediate come quelle ricordate – la possibilità di moltiplicare i posti di lavoro e di fronteggiare la questione delle nuove povertà (che si assommano alle antiche) – può spingere a promuovere la ricerca di una accentuata produttività, trascurando del tutto la cura dell’ambiente e la qualità dei beni che si producono. L’esigenza di tornare ai livelli del passato in tempi brevi può spingere non solo a dare l’assenso senza limitazioni all’attuale sistema ma a concorrere persino al suo rafforzamento, assecondandone gli aspetti più deteriori.

Che questo non sia del tutto inverosimile è confermato dal fatto che, dopo la crisi strutturale del 2008, che aveva segnalato con forza la debolezza del sistema e l’esigenza di andare in una direzione radicalmente alternativa, si è assistito a un ritorno al passato in forme, per alcuni aspetti, persino peggiori. Al di là di alcuni aggiustamenti, funzionali peraltro al mantenimento del sistema – i correttivi non tendevano certo a modificarne la logica, ma soltanto a rimuoverne alcune gravi distorsioni, in realtà consolidandolo – sono venuti affermandosi protezionismi, guerre commerciali e imposizione di restrizione negli scambi, che si ritenevano del tutto accantonate. Chi aveva giustamente sperato che quella fosse un’occasione per un ripensamento del sistema ha dovuto ricredersi, constatando anche l’assenza da parte della scienza economica (al di là di qualche timido tentativo) di proposte convincenti, che indicassero la strada per innescare un processo di graduale ma decisivo cambiamento.

Una via di uscita efficace e alternativa

Questa situazione potrebbe oggi ripetersi. Per questo è necessario vincere le sollecitazioni volte a ricuperare il tempo perduto tornando rapidamente ai livelli produttivi precedenti con ancora minore attenzione che per il passato ad alcune variabili – quella ecologica in primis –, ed è fondamentale cogliere l’occasione per gettare le basi di un nuovo modello economico. Il fallimento del modello neoliberista rende infatti essenziale l’impegno volto a far ripartire l’economia su un binario diverso, dando ad essa una nuova forma. Ciò su cui occorre puntare è un sistema più giusto e più sostenibile, il quale comporta, per essere adeguatamente promosso, un serio ripensamento delle basi antropologiche e cosmiche, un vero ridisegno del mondo con annesso un cambio degli stili di vita.

Il che implica anzitutto un profondo cambiamento di mentalità. La disponibilità a uscire dall’individualismo liberale che ha dato vita a un capitalismo senza regole in cui ad avere la prevalenza è l’interesse del singolo, e perciò il profitto, è legata al ricupero di una visione relazionale dell’uomo, al superamento di un gretto solipsismo per riscoprire l’altro come parte costitutiva di se stessi, come un partner dal quale non è possibile prescindere nell’esercizio delle varie attività che riguardano i diversi ambiti in cui l’esistenza si svolge.

La dimensione sociale dell’uomo, che ha carattere sostanziale (e non puramente accidentale) non può non esercitare un ruolo essenziale anche nella economia, dove beni materiali e beni relazionali vanno perseguiti insieme, e dove si tratterà di avere pertanto come obiettivo fondamentale il bene comune, il quale implica il rispetto dell’ambiente, la tutela dei diritti umani – la salute in primo luogo – e l’esercizio della giustizia distributiva.

In gioco vi è, in definitiva, il modello di sviluppo da perseguire, il quale esige, per rispettare i criteri ripetutamente proposti di ecocompatibilità e di giustizia sociale, un’attenzione particolare a valutare che cosa si produce, quali beni devono avere cioè la precedenza in rapporto a una corretta gerarchia e qualità dei bisogni – non tutti i bisogni sono infatti uguali: si danno bisogni essenziali e bisogni superflui, bisogni veri e bisogni falsi (questi ultimi spesso indotti dalla pressione sociale) –, e non dimenticando l’importanza del come e del per chi li si produce, prestando cioè attenzione alle condizioni in cui l’attività lavorativa si svolge e ai destinatari dei beni prodotti, nonché assegnando il primato a coloro che vivono in situazioni di maggiore precarietà.

Con quali strumenti?

Si impone per questo la necessità di intervenire con misure strutturali sui meccanismi che creano le diseguaglianze – è uno scandalo intollerabile che l’uno per cento della popolazione mondiale detenga un quoziente di ricchezza pari a quello complessivo dei due miliardi di popolazione più povera – e sui processi che generano sprechi di risorse e provocano la devastazione ambientale. Il perseguimento di questi obiettivi rende necessario l’adempimento di alcune condizioni, che esigono di essere rigorosamente rispettate.

La prima di esse è l’esigenza di più Stato, della riappropriazione cioè da parte dello Stato di maggiori poteri non solo per salvaguardare, attraverso la creazione di una nuova stagione di welfare, alcuni beni primari come la salute e l’integrità fisica con prestazioni garantite – la delega di gran parte al privato come è avvenuto in Lombardia non si è dimostrata, in occasione della pandemia in corso, oculata ed efficace –, ma anche per intervenire con regole precise che eliminino tutte le forme di monopolio o di oligopolio e favoriscano lo sviluppo, mediante adeguati incentivi, di settori dell’economia deputati alla produzione di beni fondamentali. Ma questo non basta se non si favorisce anche – è questa una seconda condizione – un sempre maggiore coinvolgimento della società civile, dando vita a processi economici, nei quali essa possa intervenire, sia ad esercitare il controllo su quanto avviene sia anche (e soprattutto) a sviluppare forme dirette di partecipazione. La teoria della «economia civile», che ha i suoi antecedenti nel pensiero di un grande illuminista napoletano, Antonio Genovesi, e che alcuni importanti economisti italiani hanno ripreso – da Stefano Zamagni a Luigino Bruni (per non citare che i più noti) –, la quale postula la presenza tra Stato e mercato di una variabile intermedia, la società civile appunto, acquista oggi grande attualità. Non si tratta certo di negare valore all’uno o all’altro dei due pilastri tradizionali dell’economia, ma di assegnare potere alle soggettività sociali e più in generale alla cittadinanza attiva, evitando, da un lato, la chiusura dello Stato su se stesso con l’inevitabile rischio di forme di burocratizzazione e di astrattezza; e creando, dall’altro, le condizioni perché si riallacci il rapporto del mercato con la società coinvolgendo nei processi di conoscenza e di decisione le diverse componenti della realtà sociale.

A esigere un serio ripensamento è dunque l’intero sistema produttivo dei beni e dei servizi, con il potenziamento del Terzo settore no profit e profit – dal privato sociale all’associazionismo alle cooperative – e con l’offerta di strumenti finanziari capaci di soddisfare le esigenze di piccoli imprenditori, di liberi professionisti, di artigiani e di coltivatori diretti: si pensi alle banche etiche e al microcredito agevolato.

Ma anche con iniziative tese a coinvolgere i meccanismi della macroeconomia, sviluppando forme di controllo sociale – dal codice etico al bilancio sociale – e forme di collaborazione allargata che promuovano il lavoro e il profitto sociale e diano concretezza alla responsabilità sociale di impresa.

Nel solco dell’attenzione all’universalità

La svolta economica delineata va inserita nell’orizzonte della mondialità. Il coronavirus ha reso evidente una volta di più l’effetto più immediato e dirompente della globalizzazione, l’interdipendenza dell’intera famiglia umana. Nessun Paese è in grado di mettere in atto da solo il cambiamento auspicato. Si impone pertanto l’adozione di una strategia complessiva, la quale deve tradursi nella ritrascrizione delle «regole» che informano i comportamenti degli Stati, stabilendo criteri accettati da tutti che pongano vincoli precisi all’inquinamento ambientale e allo scambio commerciale. Una strategia che faccia inoltre ripartire la cooperazione internazionale, rivitalizzando organismi come ONU e WTO, e che affronti le minacce delle attuali sfide globali attraverso una governance, la quale favorisca un’ampia partecipazione alle decisioni economiche, includendo con pari dignità anche le economie emergenti.

Ma questo non basta. Occorre nell’immediato, per affrontare la situazione di grave difficoltà odierna, restituire all’Europa un ruolo centrale nella politica mondiale, attraverso il ricupero di una unità fondata sulla solidarietà. L’emergenza in corso, che coinvolge tutti i Paesi europei contagiati dal coronavirus – si tratta di una emergenza in cui nessun Paese è più «colpevole» di altri (anche se diverso è il livello di compromissione del virus) – esige la condivisione dei rischi e la costituzione di un fondo di solidarietà, che consenta di salvaguardare il più possibile i livelli occupazionali – è questa oggi una priorità assoluta – e di fronteggiare le nuove povertà attraverso la garanzia di un reddito minimo.

La difficile sfida che ci sta davanti può essere affrontata positivamente, se ci si impegnerà tutti insieme a disegnare un nuovo modello di economia, che ponga fine a un sistema di speculazione basato sul profitto ad ogni costo e caratterizzato da un uso strumentale e sconsiderato delle risorse naturali e dalla devastazione dell’ambiente, per fare spazio a una crescita che restituisca il primato ai beni relazionali e alla qualità della vita. A queste condizioni l’attuale pandemia da evento drammatico quale è stato – non si può non ricordare l’elevato numero di morti – potrà trasformarsi in occasione per iniziare un cammino di rinnovamento che risusciti la speranza nel futuro.

(Tratto da “Rocca”, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi)


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