Lo scoppio della pandemia provocata dal Covid-19 ha visto emergere in modo prepotente la questione riguardante la precedenza fra due obiettivi entrambi assai rilevanti che, in presenza di limitata conoscenza delle linee di evoluzione della pandemia e di limitate risorse utilizzabili, si presentano come alternativi: intervenire dando precedenza alle esigenze di salute della popolazione o al sostegno dei livelli di produzione all'interno della comunità considerata?
In contrapposizione poiché l'attività economica, così come è organizzata ai nostri giorni, richiede intense relazioni interpersonali di vicinanza, mentre la lotta per arginare la diffusione di una pandemia ha assoluto bisogno che queste relazioni siano ridotte il più possibile, quindi anche quelle relative allo svolgimento delle attività produttive, se non si vuole imboccare la via che la pandemia abbia a terminare per effetto dell'annullamento, non delle relazioni fra le persone, ma della popolazione stessa. Quindi dare la precedenza al sostegno dei livelli di salute e di vita della comunità oppure al sostegno dei livelli di produzione della stessa?
La risposta sta nella posizione relativa che i due obiettivi hanno nella determinazione del bene comune della comunità; bene comune che discende dalla declinazione dei valori che stanno alla base della vita della comunità stessa.
Già il bene comune: concetto sulla cui realizzazione tutti concordano, semplicemente perché ognuno lo intende a modo suo, come sempre avviene quando un termine è largamente impiegato. È quindi essenziale impostare un approfondimento stringente sul contenuto del “bene comune”. Che le persone, specie quelle impegnate in politica, mettano sul tappeto quale è il contenuto che danno al “bene comune”, anziché lasciarlo non spiegato e sottinteso! Questo non può emergere che presentando e confrontando i valori, venendo i gruppi a contrapporsi apertamente se i valori differiscono fra gruppo e gruppo.
In effetti, la sana (etica) lotta politica consiste nel tentativo di condurre la polis verso un determinato obiettivo che risulti in contrasto con l'obiettivo di una o più controparti. Non invece nella contrapposizione di gruppi che hanno obiettivi simili (o che non ne hanno) e che si contrappongono solamente perché ognuno di essi vuole acquisire potere di governo, emarginando gli altri gruppi di potere. Questa sarebbe solo lotta di potere senza contenuti etici. Quindi è essenziale saper distinguere in modo chiaro gli obiettivi finali, realizzando i quali il benessere della comunità migliora, e dirlo in modo aperto e chiaro.
Che le “cose veramente buone” non siano sempre così evidenti, che ci sia grande confusione, lo si vede assai di frequente. Così se, per ridurre il debito pubblico, obiettivo chiaramente intermedio, s'introducono misure fiscali o monetarie restrittive che strangolano l'economia dal lato della domanda aggregata, creando crisi produttiva e disoccupazione, o comportando forti restringimenti della spesa pubblica per sanità, istruzione e politiche sociali di welfare – obiettivi, questi, finali, o per lo meno più prossimi ai finali – si va nella direzione che pare buona, ma ci si allontana dalle vere cose che contano. Se si riduce il debito pubblico per far abbassare il “rischio Paese” (per fare migliorare la valutazione del Paese data dalle agenzie di rating finanziario) e, con esso, i tassi d'interesse di mercato del proprio indebitamento, al fine d'incentivare (forse) la domanda d'investimento del paese, e si fa questo attraverso “politiche di rigore”, che sicuramente faranno ridurre la domanda aggregata, si prendono lucciole per lanterne. Se s'imposta una politica per la crescita economica cercando di allungare il lato dell'offerta aggregata ma, allo stesso tempo, si riduce la domanda aggregata, quando essa è l'elemento più basso fra le determinanti del PIL, si fa un buco nell'acqua ecc.
Or bene, come fare a distinguere gli obiettivi finali da quelli intermedi? Questo è possibile solo se si hanno ben chiari i valori che ispirano questi obiettivi; non serve un generico riferimento al bene comune. Si può dire che obiettivi finali sono quelli che contribuiscono ai fondamenti del bene comune che discende da specifici valori e obiettivi intermedi sono quelli che sono semplicemente funzionali rispetto agli obiettivi finali, al bene comune.
Importante fonte di valori è la Dottrina sociale della Chiesa (DSC), la quale indica, come suoi principi fondanti, la centralità della persona e la fraternità. .La fraternità completa la centralità della persona, dando dignità alla persona stessa, e la DSC fa pienamente proprie la centralità e dignità della persona, al punto di assumerle quali assiomi di base delle proprie argomentazioni, e indica esse quali unico modo attraverso il quale si realizza lo sviluppo umano integrale (tutti gli aspetti della persona e tutte le persone).
La centralità e dignità della persona si declina con il rispetto della vita umana (dal concepimento alla sua fine naturale), della famiglia (comunità necessaria per lo sviluppo della persona, cellula primaria della comunità, da sostenere e da distinguere dalle forme di unioni), dell'educazione e del lavoro: questi due ultimi rivestono primaria importanza per la realizzazione dell'uomo e della donna e, per questo, occorre che essi siano sempre organizzati nel pieno rispetto della dignità della persona e al servizio del bene comune.
Tra persona e lavoro esiste comunque una priorità ben definita. La persona è l'obiettivo finale (l'assoluto etico), rispetto al quale il lavoro è l'obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vivono la donna e l'uomo. Dai diversi documenti con i quali si è venuta formando la DSC, possiamo creare la seguente sequela etica del lavoro: il lavoro è un bene dell'uomo, per l'uomo e per la comunità; ma l'uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l'uomo e non l'uomo per il lavoro e per l'economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; quale sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l'uomo e non l'uomo per la fabbrica.
Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell'uomo e della donna e per lo sviluppo della comunità e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell'umana dignità e al servizio del bene comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all'attività produttiva, all'economia un'impostazione antropologica. Se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia. Il lavoro fa parte della vita della donna e dell'uomo. Oggi, soprattutto nei paesi più sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali. Eppure l'uomo e la donna si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.
Condividendo quanto or ora scritto, è indubbio che fra salute delle persone e attività produttiva, che porti (quando porta) a benessere economico, la prima deve avere la precedenza sulla seconda, per cui, se si trovano a essere in conflitto, la salute della popolazione deve avere la precedenza, anche se a discapito della salute dell'economia.
Dell'alternativa in parola si è avuta appunto esperienza in presenza della pandemia da COVID-19, quando i governi dei Paesi coinvolti hanno dovuto scegliere fra lotta ad oltranza alla pandemia – bloccando le relazioni interpersonali (“Io resto a casa”), con il conseguente blocco di gran parte delle attività produttive, con perdita di produzione e di reddito per gran parte della popolazione – oppure permettere che le attività produttive continuassero senza intoppi, con probabile ampia diffusione della pandemia. L'alternativa era quindi fra priorità alla difesa della salute della popolazione o difesa della salute dell'economia. È stata scelta la prima, in primis, penso, per motivi etici (la persona è più importante dell'economia), ma forse anche perché non può aversi un'economia sana in una popolazione malata, fisicamente e moralmente.
L'ordine di precedenza predetto dovrà valere anche nella fase di uscita dalla pandemia: non aver fretta di riprendere le attività economiche, poiché si deve evitare che questa ripresa vada ad attivare una ripresa dell'epidemia, che pareva debellata. Quindi non una riapertura indiscriminata o che ripercorra una strada assai poco trasparente – come è stato fatto nella fase di chiusura per il contrasto all'epidemia – che non sia basata principalmente sul tipo di beni prodotti, bensì sulla salubrità dei posti di lavoro e dei punti di contatto con l'esterno sia in entrata sia in uscita: organizzazione dei processi produttivi e della distribuzione che impedisca la diffusione del contagio. Né ha solido fondamento avere un occhio di riguardo per le imprese che fortemente esportano (se non nel caso in cui – sempre che sia rispettato il principio della salubrità dei posti di lavoro – siano state quelle che hanno avuto la maggiori flessioni di fatturato, il che dovrebbe far pensare sulla bontà del puntare sulle esportazioni, qualora ciò significhi dover fronteggiare mercati fortemente instabili). D'altra parte, se la crisi economica ha portato alla flessione delle importazioni, ci sarà anche minor bisogno di esportare per pagare le importazioni (ridotte) e poi, se si pensa alla necessità di mantenere i mercati esteri per il marchio di qualità “Made in Italy”, questo non dovrebbe essere fonte di preoccupazione perché il “Made in Italy” è incentrato sulla qualità dei prodotti, il che dovrebbe permettere di mantenere bene le piazze estere, altrimenti sarebbe finzione di qualità.
Ma non ci si può arrestare su questo punto, assai importante, ma di breve periodo. Occorre inquadrare la ripresa in una prospettiva di lungo periodo. Per illuminare questa prospettiva non possiamo non ricorrere al principio fondante che ci ha già illuminato supra: la centralità e dignità della persona, fulcro e motore dello sviluppo umano integrale (di tutta la persona e di tutte le persone). Questo e quella potranno affermarsi solo se avranno il sostegno di un adeguato ambiente costruito sui valori di verità, libertà, pace, giustizia, responsabilità, rispetto della natura, declinati e vivificati dai principi di solidarietà e di sussidiarietà per la realizzazione della sostenibilità sociale, economica e naturale dell'umanità, di tutta l'umanità.
In contrapposizione poiché l'attività economica, così come è organizzata ai nostri giorni, richiede intense relazioni interpersonali di vicinanza, mentre la lotta per arginare la diffusione di una pandemia ha assoluto bisogno che queste relazioni siano ridotte il più possibile, quindi anche quelle relative allo svolgimento delle attività produttive, se non si vuole imboccare la via che la pandemia abbia a terminare per effetto dell'annullamento, non delle relazioni fra le persone, ma della popolazione stessa. Quindi dare la precedenza al sostegno dei livelli di salute e di vita della comunità oppure al sostegno dei livelli di produzione della stessa?
La risposta sta nella posizione relativa che i due obiettivi hanno nella determinazione del bene comune della comunità; bene comune che discende dalla declinazione dei valori che stanno alla base della vita della comunità stessa.
Già il bene comune: concetto sulla cui realizzazione tutti concordano, semplicemente perché ognuno lo intende a modo suo, come sempre avviene quando un termine è largamente impiegato. È quindi essenziale impostare un approfondimento stringente sul contenuto del “bene comune”. Che le persone, specie quelle impegnate in politica, mettano sul tappeto quale è il contenuto che danno al “bene comune”, anziché lasciarlo non spiegato e sottinteso! Questo non può emergere che presentando e confrontando i valori, venendo i gruppi a contrapporsi apertamente se i valori differiscono fra gruppo e gruppo.
In effetti, la sana (etica) lotta politica consiste nel tentativo di condurre la polis verso un determinato obiettivo che risulti in contrasto con l'obiettivo di una o più controparti. Non invece nella contrapposizione di gruppi che hanno obiettivi simili (o che non ne hanno) e che si contrappongono solamente perché ognuno di essi vuole acquisire potere di governo, emarginando gli altri gruppi di potere. Questa sarebbe solo lotta di potere senza contenuti etici. Quindi è essenziale saper distinguere in modo chiaro gli obiettivi finali, realizzando i quali il benessere della comunità migliora, e dirlo in modo aperto e chiaro.
Che le “cose veramente buone” non siano sempre così evidenti, che ci sia grande confusione, lo si vede assai di frequente. Così se, per ridurre il debito pubblico, obiettivo chiaramente intermedio, s'introducono misure fiscali o monetarie restrittive che strangolano l'economia dal lato della domanda aggregata, creando crisi produttiva e disoccupazione, o comportando forti restringimenti della spesa pubblica per sanità, istruzione e politiche sociali di welfare – obiettivi, questi, finali, o per lo meno più prossimi ai finali – si va nella direzione che pare buona, ma ci si allontana dalle vere cose che contano. Se si riduce il debito pubblico per far abbassare il “rischio Paese” (per fare migliorare la valutazione del Paese data dalle agenzie di rating finanziario) e, con esso, i tassi d'interesse di mercato del proprio indebitamento, al fine d'incentivare (forse) la domanda d'investimento del paese, e si fa questo attraverso “politiche di rigore”, che sicuramente faranno ridurre la domanda aggregata, si prendono lucciole per lanterne. Se s'imposta una politica per la crescita economica cercando di allungare il lato dell'offerta aggregata ma, allo stesso tempo, si riduce la domanda aggregata, quando essa è l'elemento più basso fra le determinanti del PIL, si fa un buco nell'acqua ecc.
Or bene, come fare a distinguere gli obiettivi finali da quelli intermedi? Questo è possibile solo se si hanno ben chiari i valori che ispirano questi obiettivi; non serve un generico riferimento al bene comune. Si può dire che obiettivi finali sono quelli che contribuiscono ai fondamenti del bene comune che discende da specifici valori e obiettivi intermedi sono quelli che sono semplicemente funzionali rispetto agli obiettivi finali, al bene comune.
Importante fonte di valori è la Dottrina sociale della Chiesa (DSC), la quale indica, come suoi principi fondanti, la centralità della persona e la fraternità. .La fraternità completa la centralità della persona, dando dignità alla persona stessa, e la DSC fa pienamente proprie la centralità e dignità della persona, al punto di assumerle quali assiomi di base delle proprie argomentazioni, e indica esse quali unico modo attraverso il quale si realizza lo sviluppo umano integrale (tutti gli aspetti della persona e tutte le persone).
La centralità e dignità della persona si declina con il rispetto della vita umana (dal concepimento alla sua fine naturale), della famiglia (comunità necessaria per lo sviluppo della persona, cellula primaria della comunità, da sostenere e da distinguere dalle forme di unioni), dell'educazione e del lavoro: questi due ultimi rivestono primaria importanza per la realizzazione dell'uomo e della donna e, per questo, occorre che essi siano sempre organizzati nel pieno rispetto della dignità della persona e al servizio del bene comune.
Tra persona e lavoro esiste comunque una priorità ben definita. La persona è l'obiettivo finale (l'assoluto etico), rispetto al quale il lavoro è l'obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vivono la donna e l'uomo. Dai diversi documenti con i quali si è venuta formando la DSC, possiamo creare la seguente sequela etica del lavoro: il lavoro è un bene dell'uomo, per l'uomo e per la comunità; ma l'uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l'uomo e non l'uomo per il lavoro e per l'economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; quale sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l'uomo e non l'uomo per la fabbrica.
Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell'uomo e della donna e per lo sviluppo della comunità e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell'umana dignità e al servizio del bene comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all'attività produttiva, all'economia un'impostazione antropologica. Se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia. Il lavoro fa parte della vita della donna e dell'uomo. Oggi, soprattutto nei paesi più sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali. Eppure l'uomo e la donna si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.
Condividendo quanto or ora scritto, è indubbio che fra salute delle persone e attività produttiva, che porti (quando porta) a benessere economico, la prima deve avere la precedenza sulla seconda, per cui, se si trovano a essere in conflitto, la salute della popolazione deve avere la precedenza, anche se a discapito della salute dell'economia.
Dell'alternativa in parola si è avuta appunto esperienza in presenza della pandemia da COVID-19, quando i governi dei Paesi coinvolti hanno dovuto scegliere fra lotta ad oltranza alla pandemia – bloccando le relazioni interpersonali (“Io resto a casa”), con il conseguente blocco di gran parte delle attività produttive, con perdita di produzione e di reddito per gran parte della popolazione – oppure permettere che le attività produttive continuassero senza intoppi, con probabile ampia diffusione della pandemia. L'alternativa era quindi fra priorità alla difesa della salute della popolazione o difesa della salute dell'economia. È stata scelta la prima, in primis, penso, per motivi etici (la persona è più importante dell'economia), ma forse anche perché non può aversi un'economia sana in una popolazione malata, fisicamente e moralmente.
L'ordine di precedenza predetto dovrà valere anche nella fase di uscita dalla pandemia: non aver fretta di riprendere le attività economiche, poiché si deve evitare che questa ripresa vada ad attivare una ripresa dell'epidemia, che pareva debellata. Quindi non una riapertura indiscriminata o che ripercorra una strada assai poco trasparente – come è stato fatto nella fase di chiusura per il contrasto all'epidemia – che non sia basata principalmente sul tipo di beni prodotti, bensì sulla salubrità dei posti di lavoro e dei punti di contatto con l'esterno sia in entrata sia in uscita: organizzazione dei processi produttivi e della distribuzione che impedisca la diffusione del contagio. Né ha solido fondamento avere un occhio di riguardo per le imprese che fortemente esportano (se non nel caso in cui – sempre che sia rispettato il principio della salubrità dei posti di lavoro – siano state quelle che hanno avuto la maggiori flessioni di fatturato, il che dovrebbe far pensare sulla bontà del puntare sulle esportazioni, qualora ciò significhi dover fronteggiare mercati fortemente instabili). D'altra parte, se la crisi economica ha portato alla flessione delle importazioni, ci sarà anche minor bisogno di esportare per pagare le importazioni (ridotte) e poi, se si pensa alla necessità di mantenere i mercati esteri per il marchio di qualità “Made in Italy”, questo non dovrebbe essere fonte di preoccupazione perché il “Made in Italy” è incentrato sulla qualità dei prodotti, il che dovrebbe permettere di mantenere bene le piazze estere, altrimenti sarebbe finzione di qualità.
Ma non ci si può arrestare su questo punto, assai importante, ma di breve periodo. Occorre inquadrare la ripresa in una prospettiva di lungo periodo. Per illuminare questa prospettiva non possiamo non ricorrere al principio fondante che ci ha già illuminato supra: la centralità e dignità della persona, fulcro e motore dello sviluppo umano integrale (di tutta la persona e di tutte le persone). Questo e quella potranno affermarsi solo se avranno il sostegno di un adeguato ambiente costruito sui valori di verità, libertà, pace, giustizia, responsabilità, rispetto della natura, declinati e vivificati dai principi di solidarietà e di sussidiarietà per la realizzazione della sostenibilità sociale, economica e naturale dell'umanità, di tutta l'umanità.
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