I silenzi della classe dirigente



Gabriele Papini    24 Maggio 2020       0

Lo sguardo prevalente del Paese è spesso rivolto al passato. Nella costante dilatazione del presente, il futuro sembra quasi non esistere. Se ne avessimo qualche idea, ad esempio, ci saremmo preoccupati per tempo del debito pubblico, lasciato a se stesso negli ultimi decenni. Siamo prigionieri del passato nella convinzione, ingannevole, che al termine dell’emergenza sanitaria vi sia una torta da dividere, ci siano risorse aggiuntive da distribuire a tutti, senza costi reali. Si fa credere agli italiani che il loro welfare universale (pensioni e servizio sanitario) sia sostenibile all’infinito in una società che invecchia rapidamente, con un crescente “esercito industriale di riserva”. Si fa credere agli italiani che il Paese abbia la capacità di chiudersi in se stesso pur rimanendo, per merito, un grande esportatore mondiale. E soprattutto che sia nelle condizioni di scegliere solo ciò che può fargli comodo. Una globalizzazione “a la carte”. Come se potessimo fare a meno di un bilancio pubblico sano e continuare a indebitarci restando ipoteticamente ai margini dell’Unione Europea. Chi porta la responsabilità di questo mancato discorso di verità sulle reali condizioni finanziarie del Paese e sulla sua (incerta) traiettoria futura?

Inutile prendersela solo con i “sovranisti” di varia gradazione. L’informazione può avere senz’altro le sue responsabilità. Ma c’è una parte consistente della classe dirigente (o supposta tale), una elite industriale e finanziaria, che tace, assiste, ma soprattutto preferisce tessere relazioni vecchie e nuove senza avere il coraggio di dire in pubblico ciò che sostiene in privato.

Per esempio, esprimersi con chiarezza sulla pericolosità di alcune “ricette” e non soltanto limitarsi a vaghe dichiarazioni di principio. Poteri forti solo nella loro arroganza e nel loro distacco, che giustificano prudenza e ipocrisia con la scusa degli interessi dei propri azionisti o stakeholders che poi sarebbero, in ultima analisi, anche cittadini italiani. Mostrano nei confronti dei partiti politici una falsa neutralità in attesa di capire chi vincerà, quando si andrà a votare. Disegnano, in numerosi incontri a porte chiuse, scenari di vario tipo incidendo anche (spesso in negativo) sulle aspettative di osservatori e investitori stranieri. Sono italiani “a corrente alternata”, solo quando fa loro comodo nel proteggere relazioni e “cospicue” (come direbbe il premier Conte) rendite di posizione. Altrimenti sono cittadini del mondo, dunque esentati o non tenuti al coraggio nazionale delle proprie idee. Si lamentano, ovviamente, della dilatazione della spesa pubblica ma sarebbero i primi a protestare se il taglio dei sussidi toccasse il loro tornaconto economico.

Tutti hanno un osservatorio privilegiato sulle dinamiche future dei Paesi industrializzati e dovrebbero sentire il dovere di condividere analisi e conoscenze con l’opinione pubblica. Sanno quello che conterà in futuro, da che cosa dipenderanno lavoro e benessere, nel mezzo di una emergenza sanitaria che sta cambiando rapidamente le condizioni di vita e di lavoro. Quanto sarà essenziale, ad esempio, il mondo “digitale” e il patrimonio immateriale. La centralità di cultura, istruzione, formazione, preparazione anche e soprattutto tecnica. Buone scuole e buone università italiane? Tutti d’accordo. Ma tanto i figli dei ricchi studiano all’estero e quelli delle famiglie meno abbienti (che non hanno neppure la banda larga) si arrangiano. Bisogna puntare massicciamente sulla qualità del capitale umano, sulla sua mobilità, sul lavoro femminile, favorire investimenti in infrastrutture fisiche e immateriali per garantire a tutti un futuro decente.

La storia del nostro Paese insegna che i temi del capitale umano e della formazione della classe dirigente sono sempre stati al centro del discorso pubblico. Ferruccio De Bortoli, sul “Corriere della Sera” di qualche giorno fa, ricorda che De Gasperi propose a Raffaele Mattioli di entrare a far parte del Governo. Il banchiere umanista scartò il dicastero del Tesoro e chiese l’Istruzione (con budget aumentato) perché “il capitale umano contava più del capitale finanziario”. Non se ne fece nulla.

(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)


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