È ragionevole ritenere che l'assetto del settore sanitario, così come di altri settori, possa essere oggetto di un riesame per migliorarlo alla luce delle esperienze fatte, ma attenzione ai passi indietro, alle centralizzazioni.
Prima della regionalizzazione, la sanità manifestava già difetti e carenze gravi, e non era stata in grado di dare soluzione agli esistenti squilibri territoriali. Carenze e squilibri riscontrabili anche in altri ambiti di esclusiva pertinenza ministeriale, talora a causa delle sperequazioni nella distribuzione delle risorse.
A inizio anni Novanta, su incarico del Magnifico Rettore dell'Università di Torino, professor Dianzani, con alcuni colleghi avevo raccolto dati sull'assegnazione agli atenei dei posti in organico di docenti, personale tecnico e amministrativo, di borse di studio, di posti nelle specialità mediche, e altre risorse. Ne risultavano pesanti differenze fra le regioni: il Piemonte, in rapporto al numero di abitanti, veniva fortemente penalizzato, mentre il Lazio con Roma faceva la parte del leone.
Oggi però c'è in giro la tentazione di approfittare del Covid-19 per mettere in discussione le competenze regionali, chiudere il discorso sul regionalismo differenziato e ritornare al centralismo. Sono in molti a dire che le situazioni difficili (che non mancheranno in un prossimo futuro) impongono una marcia indietro perché in ambito sanitario, e non solo in questo, è necessario disporre di una chiara catena di comando che faccia capo all'autorità centrale dello Stato.
Alessandro Barbero (storico ben noto anche al pubblico televisivo, esperto di storia militare) sostiene che l'esercito tedesco (un tempo prussiano), tramontato Napoleone con il suo genio militare, non aveva eguali per capacità operativa, avendo sempre vinto scontri e battaglie quando si è trovato di fronte forze nemiche non soverchianti per numero e armamenti. Da dove veniva tale superiorità? Disponeva di quadri molto preparati; ma, soprattutto, la sua efficienza era riconducibile alla elevata autonomia decisionale di cui, ai vari livelli della catena di comando (dai generali fino ai tenenti, sottotenenti e sottufficiali), disponevano i responsabili delle unità e dei settori loro assegnati, i quali, vista la situazione sul terreno, avevano la facoltà di prendere iniziative agendo prontamente senza dover attendere disposizioni dai superiori in grado.
Se l'autonomia decisionale di chi opera sul campo è cosa positiva in un esercito in tempo di guerra, non ha molto senso prendere a pretesto “situazioni difficili” per ritornare al centralismo nell'organizzazione dello Stato. Anzi proprio in vista di tali situazioni, in una rivisitazione dell'ordinamento dello Stato, l'autonomia degli enti periferici dovrebbe non solo essere mantenuta, ma implementata.
In materia, tuttavia, ci vuole chiarezza.
Se spetta a chi è sul campo prendere decisioni adeguate in base ai mezzi di cui dispone e a ciò che riscontra direttamente, l'indicazione degli obiettivi di ordine generale e la definizione delle linee guida orientative devono rimanere di competenza della struttura centrale. Assolutamente va evitata la sovrapposizione di competenze tra Ministeri e Regioni o la scarsa definizione dei rispettivi compiti. E altrettanto va evitata tra gli enti periferici (Regioni, Province e Comuni). È quanto invece è accaduto e accade nel nostro Paese, soprattutto perché i ministeri non hanno mai rinunciato a mettere parola su quanto è passato in ambito regionale; soprattutto non hanno avuto alcuna volontà di “dimagrire”, come avrebbe imposto un trasferimento di competenze.
Inoltre, ai compiti assegnati agli enti periferici, occorre abbinare i mezzi finanziari necessari, nella cui acquisizione, mediante imposizione fiscale, tali enti dovrebbero essere maggiormente coinvolti rendendoli responsabili davanti ai cittadini.
Certamente è razionale prevedere che lo Stato possa, in casi straordinari, esercitare un ruolo di supplenza qualora le istituzioni periferiche si rivelassero, in modo palese e documentato, non in grado di svolgere i propri compiti.
Abbiamo visto che avere dirigenti e quadri molto competenti e preparati è un requisito importantissimo. Vale in campo militare e in quello civile, vale al centro come in periferia. Ora, dobbiamo porci alcuni quesiti.
C'è chi pensa che sia più facile disporre di organici tecnicamente qualificati di funzionari e amministratori in sede centrale piuttosto che nei molti organismi periferici. Ci portano l'esempio della Francia dove, ancora in un recente passato, il potere centrale, tramite le Prefetture, gestiva quasi tutto. Aggiungono che, anche in Italia, i dirigenti e i funzionari delle Prefetture sono ritenuti capaci e di qualità. Si può contrapporre l'esempio tedesco, dove i Lander godono di ampia autonomia, e altresì indicare quelle Regioni italiane in cui complessivamente la gestione è più che soddisfacente. Che cosa è più adatto al nostro Paese?
Se nelle strutture centrali dell'organizzazione statale, dominano le logiche burocratiche e clientelari, il danno è generale. In un sistema decentrato, poiché difficilmente si trovano ovunque simili prassi e condotte, si potranno riscontrare situazioni diversificate da Regione a Regione, da Comune a Comune. Non è un bene, ma sarebbe peggio se, per salvaguardare l'uniformità, ne risentisse l'intero Paese.
Oggi, la pandemia ci ha mostrato per l'ennesima volta il ruolo paralizzante della burocrazia con la sua lentezza, con le sue procedure attente solo agli aspetti formali, sostanzialmente indifferente al raggiungimento o meno degli obiettivi che l'autorità politica indica. Ciò capita sia al centro, sia in periferia. È tuttavia evidente che più un sistema è centralizzato, tanto maggiore è lo spazio da essa occupato e quindi il suo potere.
Tutti inoltre dicono che non si può andare avanti così, e che la sburocratizzazione si impone, se il Paese vuole riemergere e rimanere in Europa. Chiediamoci se la sburocratizzazione possa essere più facile da realizzare al centro o in periferia. Probabilmente sarà difficile ovunque, ma credo non abbia eguali la capacità di resistenza a ogni riforma che è in grado di mettere in campo l'enorme edificio burocratico ministeriale romano, anche considerando la sua vicinanza e i suoi rapporti con varie centrali corporative presenti in differenti ambiti, a partire dalla Magistratura. Teniamone conto.
Ora, se vogliamo rivedere, per migliorarli, l'assetto e le competenze delle istituzioni locali (Regioni, Province, Comuni), credo sia necessario affrontare alcune questioni.
In primo luogo, dovremmo vedere se sussistono ancora le motivazioni che hanno indotto i membri della Costituente a creare Regioni a statuto speciale. A parte la provincia di Bolzano, il cui status è frutto di un accordo internazionale (patto De Gasperi-Gruber), sarei molto perplesso se venisse riconfermata la condizione attuale delle Regioni a statuto speciale, comprese quelle dove sussistono realtà linguistiche particolari (lingua francese, provenzale, ladina ecc.), che possono essere altrimenti adeguatamente tutelate. Nella riforma, non andata in porto, del governo Renzi, strideva la conferma dello status attuale delle Regioni a statuto speciale in contrasto con la riduzione dei poteri delle Regioni ordinarie.
Sicuramente dovremmo rivedere numero (da ridurre) e dimensioni (da accrescere) delle attuali Regioni. Il necessario accorpamento dovrebbe andare ben oltre quelle che hanno una esigua popolazione (come Molise, Valle da Aosta, Basilicata). Ne dovrebbe pertanto risultare un numero di regioni all'incirca dimezzato, aventi ciascuna una popolazione non inferiore a 4-5 milioni di persone.
Se venisse realizzato un consistente accorpamento delle Regioni, andrebbe valutata l'opportunità di mantenere le Province (oggi in un limbo) pur riducendone il numero (ad esempio eliminando quelle che non raggiungono almeno 200 mila abitanti). Le Province sono idonee a rappresentare, all'interno di grandi Regioni, realtà locali differenziate in cui molti cittadini si riconoscono.
Un qualche accorpamento dovrebbe infine riguardare anche i Comuni.
In materia di riforma, ci possono essere differenti modelli. Voglio solo ricordare che la sussidiarietà, da sempre auspicata dal movimento popolare (a partire da don Sturzo), dovrebbe non essere messa in discussione, e quindi costituire il filo conduttore per l'elaborazione delle proposte. La sussidiarietà richiede che all'ente più prossimo al cittadino spetti fare tutto ciò che è in grado di svolgere quando dispone di capacità e strumenti adeguati. Così, per cerchi concentrici, si procede dal Comune, alla Provincia, alla Regione, per finire allo Stato centrale.
Aggiungo che, quanto a potenzialità, competenze e disponibilità di strumenti, ci sono, al momento, significativi divari tra le regioni. Ritengo pertanto ragionevole prendere in considerazione un regionalismo differenziato con attribuzioni da assegnare nel tempo in rapporto al raggiungimento delle necessarie capacità.
In base al criterio di sussidiarietà, ai Comuni, in quanto gli enti più vicini ai cittadini, spetta un ruolo primario nel rispondere alle loro esigenze, ovviamente tenendo conto delle competenze e degli strumenti di cui dispongono. Tuttavia, alla luce delle esperienze degli anni passati, non dobbiamo nasconderci che limiti significativi sono emersi nella capacità dei Comuni di agire adeguatamente in un settore molto delicato, quale la gestione del territorio. Sono infatti rilevanti, a mio parere, le responsabilità dell'ente comunale nella corsa alla cementificazione del suolo e nel degrado della qualità urbana. I Comuni piccoli e medi sovente mancano di tecnici di adeguato livello culturale per i compiti di programmazione territoriale, e gli amministratori troppo spesso non si sono sottratti a condizionamenti ambientali in tema di piani regolatori e concessione di permessi edilizi. Inoltre, tutti i Comuni, avendo sempre necessità di fare cassa, hanno per lungo tempo (finché è stato ad essi possibile utilizzare senza vincoli stringenti i proventi degli oneri di urbanizzazione) aumentato le densità urbane indipendentemente dai reali fabbisogni edilizi, e autorizzato opere non sempre indispensabili. Pertanto, sarebbe opportuno rivedere l'attribuzione delle competenze su quanto attiene all'uso e destinazione del territorio.
In conclusione, credo sia legittimo rivedere il titolo V della Costituzione sulla base delle esperienze fatte, purché si operi con spirito costruttivo e animo sereno, senza dare spazio a motivazioni strumentali e a interessi partitici.
Prima della regionalizzazione, la sanità manifestava già difetti e carenze gravi, e non era stata in grado di dare soluzione agli esistenti squilibri territoriali. Carenze e squilibri riscontrabili anche in altri ambiti di esclusiva pertinenza ministeriale, talora a causa delle sperequazioni nella distribuzione delle risorse.
A inizio anni Novanta, su incarico del Magnifico Rettore dell'Università di Torino, professor Dianzani, con alcuni colleghi avevo raccolto dati sull'assegnazione agli atenei dei posti in organico di docenti, personale tecnico e amministrativo, di borse di studio, di posti nelle specialità mediche, e altre risorse. Ne risultavano pesanti differenze fra le regioni: il Piemonte, in rapporto al numero di abitanti, veniva fortemente penalizzato, mentre il Lazio con Roma faceva la parte del leone.
Oggi però c'è in giro la tentazione di approfittare del Covid-19 per mettere in discussione le competenze regionali, chiudere il discorso sul regionalismo differenziato e ritornare al centralismo. Sono in molti a dire che le situazioni difficili (che non mancheranno in un prossimo futuro) impongono una marcia indietro perché in ambito sanitario, e non solo in questo, è necessario disporre di una chiara catena di comando che faccia capo all'autorità centrale dello Stato.
Alessandro Barbero (storico ben noto anche al pubblico televisivo, esperto di storia militare) sostiene che l'esercito tedesco (un tempo prussiano), tramontato Napoleone con il suo genio militare, non aveva eguali per capacità operativa, avendo sempre vinto scontri e battaglie quando si è trovato di fronte forze nemiche non soverchianti per numero e armamenti. Da dove veniva tale superiorità? Disponeva di quadri molto preparati; ma, soprattutto, la sua efficienza era riconducibile alla elevata autonomia decisionale di cui, ai vari livelli della catena di comando (dai generali fino ai tenenti, sottotenenti e sottufficiali), disponevano i responsabili delle unità e dei settori loro assegnati, i quali, vista la situazione sul terreno, avevano la facoltà di prendere iniziative agendo prontamente senza dover attendere disposizioni dai superiori in grado.
Se l'autonomia decisionale di chi opera sul campo è cosa positiva in un esercito in tempo di guerra, non ha molto senso prendere a pretesto “situazioni difficili” per ritornare al centralismo nell'organizzazione dello Stato. Anzi proprio in vista di tali situazioni, in una rivisitazione dell'ordinamento dello Stato, l'autonomia degli enti periferici dovrebbe non solo essere mantenuta, ma implementata.
In materia, tuttavia, ci vuole chiarezza.
Se spetta a chi è sul campo prendere decisioni adeguate in base ai mezzi di cui dispone e a ciò che riscontra direttamente, l'indicazione degli obiettivi di ordine generale e la definizione delle linee guida orientative devono rimanere di competenza della struttura centrale. Assolutamente va evitata la sovrapposizione di competenze tra Ministeri e Regioni o la scarsa definizione dei rispettivi compiti. E altrettanto va evitata tra gli enti periferici (Regioni, Province e Comuni). È quanto invece è accaduto e accade nel nostro Paese, soprattutto perché i ministeri non hanno mai rinunciato a mettere parola su quanto è passato in ambito regionale; soprattutto non hanno avuto alcuna volontà di “dimagrire”, come avrebbe imposto un trasferimento di competenze.
Inoltre, ai compiti assegnati agli enti periferici, occorre abbinare i mezzi finanziari necessari, nella cui acquisizione, mediante imposizione fiscale, tali enti dovrebbero essere maggiormente coinvolti rendendoli responsabili davanti ai cittadini.
Certamente è razionale prevedere che lo Stato possa, in casi straordinari, esercitare un ruolo di supplenza qualora le istituzioni periferiche si rivelassero, in modo palese e documentato, non in grado di svolgere i propri compiti.
Abbiamo visto che avere dirigenti e quadri molto competenti e preparati è un requisito importantissimo. Vale in campo militare e in quello civile, vale al centro come in periferia. Ora, dobbiamo porci alcuni quesiti.
C'è chi pensa che sia più facile disporre di organici tecnicamente qualificati di funzionari e amministratori in sede centrale piuttosto che nei molti organismi periferici. Ci portano l'esempio della Francia dove, ancora in un recente passato, il potere centrale, tramite le Prefetture, gestiva quasi tutto. Aggiungono che, anche in Italia, i dirigenti e i funzionari delle Prefetture sono ritenuti capaci e di qualità. Si può contrapporre l'esempio tedesco, dove i Lander godono di ampia autonomia, e altresì indicare quelle Regioni italiane in cui complessivamente la gestione è più che soddisfacente. Che cosa è più adatto al nostro Paese?
Se nelle strutture centrali dell'organizzazione statale, dominano le logiche burocratiche e clientelari, il danno è generale. In un sistema decentrato, poiché difficilmente si trovano ovunque simili prassi e condotte, si potranno riscontrare situazioni diversificate da Regione a Regione, da Comune a Comune. Non è un bene, ma sarebbe peggio se, per salvaguardare l'uniformità, ne risentisse l'intero Paese.
Oggi, la pandemia ci ha mostrato per l'ennesima volta il ruolo paralizzante della burocrazia con la sua lentezza, con le sue procedure attente solo agli aspetti formali, sostanzialmente indifferente al raggiungimento o meno degli obiettivi che l'autorità politica indica. Ciò capita sia al centro, sia in periferia. È tuttavia evidente che più un sistema è centralizzato, tanto maggiore è lo spazio da essa occupato e quindi il suo potere.
Tutti inoltre dicono che non si può andare avanti così, e che la sburocratizzazione si impone, se il Paese vuole riemergere e rimanere in Europa. Chiediamoci se la sburocratizzazione possa essere più facile da realizzare al centro o in periferia. Probabilmente sarà difficile ovunque, ma credo non abbia eguali la capacità di resistenza a ogni riforma che è in grado di mettere in campo l'enorme edificio burocratico ministeriale romano, anche considerando la sua vicinanza e i suoi rapporti con varie centrali corporative presenti in differenti ambiti, a partire dalla Magistratura. Teniamone conto.
Ora, se vogliamo rivedere, per migliorarli, l'assetto e le competenze delle istituzioni locali (Regioni, Province, Comuni), credo sia necessario affrontare alcune questioni.
In primo luogo, dovremmo vedere se sussistono ancora le motivazioni che hanno indotto i membri della Costituente a creare Regioni a statuto speciale. A parte la provincia di Bolzano, il cui status è frutto di un accordo internazionale (patto De Gasperi-Gruber), sarei molto perplesso se venisse riconfermata la condizione attuale delle Regioni a statuto speciale, comprese quelle dove sussistono realtà linguistiche particolari (lingua francese, provenzale, ladina ecc.), che possono essere altrimenti adeguatamente tutelate. Nella riforma, non andata in porto, del governo Renzi, strideva la conferma dello status attuale delle Regioni a statuto speciale in contrasto con la riduzione dei poteri delle Regioni ordinarie.
Sicuramente dovremmo rivedere numero (da ridurre) e dimensioni (da accrescere) delle attuali Regioni. Il necessario accorpamento dovrebbe andare ben oltre quelle che hanno una esigua popolazione (come Molise, Valle da Aosta, Basilicata). Ne dovrebbe pertanto risultare un numero di regioni all'incirca dimezzato, aventi ciascuna una popolazione non inferiore a 4-5 milioni di persone.
Se venisse realizzato un consistente accorpamento delle Regioni, andrebbe valutata l'opportunità di mantenere le Province (oggi in un limbo) pur riducendone il numero (ad esempio eliminando quelle che non raggiungono almeno 200 mila abitanti). Le Province sono idonee a rappresentare, all'interno di grandi Regioni, realtà locali differenziate in cui molti cittadini si riconoscono.
Un qualche accorpamento dovrebbe infine riguardare anche i Comuni.
In materia di riforma, ci possono essere differenti modelli. Voglio solo ricordare che la sussidiarietà, da sempre auspicata dal movimento popolare (a partire da don Sturzo), dovrebbe non essere messa in discussione, e quindi costituire il filo conduttore per l'elaborazione delle proposte. La sussidiarietà richiede che all'ente più prossimo al cittadino spetti fare tutto ciò che è in grado di svolgere quando dispone di capacità e strumenti adeguati. Così, per cerchi concentrici, si procede dal Comune, alla Provincia, alla Regione, per finire allo Stato centrale.
Aggiungo che, quanto a potenzialità, competenze e disponibilità di strumenti, ci sono, al momento, significativi divari tra le regioni. Ritengo pertanto ragionevole prendere in considerazione un regionalismo differenziato con attribuzioni da assegnare nel tempo in rapporto al raggiungimento delle necessarie capacità.
In base al criterio di sussidiarietà, ai Comuni, in quanto gli enti più vicini ai cittadini, spetta un ruolo primario nel rispondere alle loro esigenze, ovviamente tenendo conto delle competenze e degli strumenti di cui dispongono. Tuttavia, alla luce delle esperienze degli anni passati, non dobbiamo nasconderci che limiti significativi sono emersi nella capacità dei Comuni di agire adeguatamente in un settore molto delicato, quale la gestione del territorio. Sono infatti rilevanti, a mio parere, le responsabilità dell'ente comunale nella corsa alla cementificazione del suolo e nel degrado della qualità urbana. I Comuni piccoli e medi sovente mancano di tecnici di adeguato livello culturale per i compiti di programmazione territoriale, e gli amministratori troppo spesso non si sono sottratti a condizionamenti ambientali in tema di piani regolatori e concessione di permessi edilizi. Inoltre, tutti i Comuni, avendo sempre necessità di fare cassa, hanno per lungo tempo (finché è stato ad essi possibile utilizzare senza vincoli stringenti i proventi degli oneri di urbanizzazione) aumentato le densità urbane indipendentemente dai reali fabbisogni edilizi, e autorizzato opere non sempre indispensabili. Pertanto, sarebbe opportuno rivedere l'attribuzione delle competenze su quanto attiene all'uso e destinazione del territorio.
In conclusione, credo sia legittimo rivedere il titolo V della Costituzione sulla base delle esperienze fatte, purché si operi con spirito costruttivo e animo sereno, senza dare spazio a motivazioni strumentali e a interessi partitici.
Temo che le problematiche centralismo-decentramento proprie dell’Italia abbiano causa in situazioni sia di natura oggettiva (strutture economico- sociali molto differenziate tra loro a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale, a sua volta con esiti molto diversi) che culturale (cultura politico-amministrativa di cittadini e classe dirigente) che rendono difficilmente applicabili criteri francesi, tedeschi etc.
Anche i riferimenti a concezioni pensate in altre epoche in cui non vi era la possibilità di operare in modo decentrato in tempo reale da uffici statali collocati presso le sedi di amministrazioni locali rendono questa materia totalmente da ripensare in una forma completamente nuova.
Inoltre il fatto che oggi, in tempi di globalizzazione, si pensi alla costruzione di grandi federazioni continentali, costituite da tante nazioni, non mi sembra che renda entusiasmante dividere queste ultime, raccolte in una vasta entità federale, in tante regioni dotate ognuna da una sua (ulteriore) legislazione particolare.
Inoltre non dimentichiamo che lo stato italiano non ha mai goduto di una grande capacità di controllo del territorio e di far valere gli interessi nazionali, neppure anche solo al suo interno. E’ questo che concretamente si ripercuote sull’efficienza del potere centrale. Il resto è pura teoria, buona o cattiva che sia.
Ho vissuto personalmente lavorando in un ente pubblico economico, l’ENEL, (che di per se era una struttura ineccepibile, e che, nei momenti migliori ha anche prodotto cose di gran valore per condurre ad unità il nostro Paese) il caos amministrativo italiano e temo che sia più una questione di diseducazione civica e di strutture extrastatali e privatistiche troppo forti (nel senso che lo Stato è più debole di loro, e quindi ha carenze di sovranità reale: basta vedere come si comporta con i concessionari) la cusa dei mali che si vorrebbero imputare al centralismo in quanto tale.
Esiste anche un autoritarismo dei deboli, non solo un autoritarismo dei forti.