“Hotel Auschwitz”, 80 anni fa



Francesco Provinciali    20 Maggio 2020       0

Il 20 maggio del 1940 faceva il suo ingresso nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, il primo prigioniero ebreo. Insieme a Chelmo, Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek. Buchenwald, Dachau, Jasenovac, Varsavia il complesso di Auschwitz-Birkenau rappresenta nella memoria storica tramandata il più grande campo di raccolta e di sterminio del Terzo Reich.

Dal giorno della sua apertura – di cui oggi ricordiamo la terribile ricorrenza – fino al funzionamento a saturazione della sua capienza Auschwitz ospitò stabilmente una media giornaliera compresa tra i 15 e i 20 mila prigionieri, tra militari fatti prigionieri e popolazione civile: uomini, donne, bambini e anziani.

Al termine del secondo conflitto mondiale le cifre della Shoah ci riferiscono di oltre 6 milioni di vittime nei campi di concentramento nel periodo compreso tra il 1933 e il 1945, di cui circa un milione e mezzo nel solo punto di internamento di Auschwitz, passato alla Storia come il simbolo delle sterminio del regime nazista.

Calcolando anche le anche le centinaia di migliaia di ebrei uccisi tra la popolazione inerme nelle città e nei villaggi di Polonia, Ucraina, Bielorussia, Russia, nonché i morti del ghetto di Varsavia il conto delle vittime dell’Olocausto sale a 7-8 milioni.

Si stima che tra campi di lavoro, di transito, di internamento, e di sterminio furono almeno 55 i punti di raccolta dei prigionieri del regime nazista.

Arbeit macht frei: il lavoro rende liberi. Questo il monito che accoglieva i prigionieri nei campi di internamento. Dovremmo ricordarcene oggi, a 80 anni di distanza dall’apertura di Auschwitz, proprio nel momento in cui nell’Unione Europea il tema del lavoro diventerà il perno su cui potrà innestarsi il volano della rinascita, dopo la terribile batosta della pandemia Covid-19.

Per rappresentare alla nostra epoca – specie in questo travagliato e drammatico periodo di crisi planetaria – come le parole possano avere significati diversi, se usate in modo strumentale e come la realtà e l’evidenza dei fatti spieghino assai bene invece il sinistro senso retorico e aberrante che se ne può fare, richiamando principi e valori che si collocano totalmente al di fuori della civiltà e del rispetto dell’essere umano.

Che in fondo vuol dire che a parole in sé nobili e condivisibili possono corrispondere fatti diversamente dolorosi, nelle alterne vicende della vita e nei corsi e ricorsi della storia.

Come quelle pronunciate il giorno precedente l’apertura dell'“Hotel Auschwitz”, inteso dai suoi gestori come luogo di redenzione e libertà in nome del lavoro, appunto.

Il 19 maggio di quel 1940 a Milano, il ministro degli Esteri del regime fascista, conte Galeazzo Ciano – in occasione del 1° anniversario del Patto d’Acciaio, ebbe a pronunciare tra le altre queste parole: “Questa solenne adunata (…) assume un significato e un valore che a nessuno potrà sfuggire. Essa si compie mentre vicende di singolare grandezza creano, ora per ora, il nuovo destino dell’Europa e del mondo (…). Quali siano questi compiti voi lo sapete al pari di me, essi sono dettati dalla difesa dei nostri diritti di Stato sovrano in terra, aria e sul mare, dalla necessità di realizzare le nostre aspirazioni che sono naturali perché eque e indispensabili alla vita stessa del Paese”.

Sfogliando le pagine della Storia sappiamo oggi come andò a finire.

Queste vicende e queste date sono parte della storia del Novecento: esse costituiscono un monito perenne che abbiamo il dovere di non dimenticare.


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