Da più parti si invoca lo spirito del secondo dopoguerra per uscire da questa drammatica fase dovuta al coronavirus e alle sue conseguenze.
Capisco e condivido il senso di questo richiamo. Ma, purtroppo, temo che non faccia i conti con alcune radicali differenze tra allora e adesso.
Allora si usciva da vent’anni di dittatura fascista e si incominciava ad annusare il profumo di una libertà ritrovata. Una libertà che incuriosiva, attirava, affascinava e costituiva terreno di impegno comune. Oggi, si esce da una lunga stagione di democrazia che negli ultimi periodi ha però perso parte importante del suo carisma popolare. Una democrazia che affronta la sfida del coronavirus e delle sue conseguenze indebolita dalla rottura di quel patto tra “mercato” ed “equità” che ha sorretto per alcuni decenni il sistema di welfare di modello europeo.
Allora il baratro economico e sociale era alle spalle: adesso pare di fronte a noi. E si misura nella crescente ansiosa convinzione popolare che i livelli di benessere vissuti dalle generazioni che si sono succedute dalla Seconda guerra mondiale in poi non saranno più difendibili.
Allora le categorie prevalenti erano quelle a matrice “comunitaria”: la società era ancora organizzata su robuste infrastrutture collettive. Oggi, le istanze sono prevalentemente “individuali” e si scaricano verso “gli altri” e le Istituzioni pubbliche senza quasi alcuna mediazione.
Allora le condizioni di povertà e di precarietà diffusa rendevano naturale una proiezione di lungo periodo delle aspettative. Si avvertiva che il futuro era tutto da costruire, quasi da zero, e si accettava il fatto che ciò presupponeva tempo e fatica. I sogni comportano sempre tempo e fatica. Oggi invece prevale la paura di chi avverte di aver perso un benessere che aveva raggiunto, per se e per i propri figli.
E l’aspettativa è quella di poterlo riavere “qui ed ora”. Anziché di un sogno, si tratta oggi della disperata voglia di uscire subito da un incubo.
Infine, allora si è potuto contare su una classe dirigente politica che aveva sofferto assieme al popolo durante la dittatura e la guerra; si era preparata spiritualmente, culturalmente e tecnicamente alla propria missione; aveva il carisma per guidare (dal Governo o dall’opposizione) la propria comunità sulla difficile via della ricostruzione morale, civile ed economica. Adesso, con tutta evidenza, non è così.
Le classi dirigenti politiche sono mediamente (salvo rare eccezioni) frutto di carriere improvvisate; aborrono la competenza, che considerano stigma della casta; fondano il proprio ruolo non sul carisma della guida, ma sulla furbizia del consenso facile e immediato.
Giusto e condivisibile, dunque, il richiamo allo spirito della ricostruzione del dopoguerra, ma non basteranno gli appelli alla coesione e all’unita di intenti.
Ci sono una grammatica sociale e istituzionale e una nuova antropologia che non corrispondono più a quelle di un tempo. E si imporranno dinamiche di riorganizzazione del modo di produrre, vivere, esercitare la partecipazione democratica, imparare, consumare, stare assieme, organizzare città e territori, interpretare il valore della sicurezza sociale, assistere gli anziani, spostarsi e così via, che richiederanno paradigmi radicalmente diversi da quelli conosciuti.
Non è la fine della Storia: semplicemente (si fa per dire) è l’avvio confuso e tumultuoso di una nuova fase. Il nostro precedente modello era già in realtà sotto scacco per effetto di alcuni fenomeni latenti che però non abbiamo affrontato con sufficiente rapidità e profondità: crisi demografica; squilibrio tra parti del mondo; cambiamento climatico; rivoluzione digitale; perdita di carisma della democrazia liberale e partecipativa; progressivo scarto tra processi reali di cambiamento e ruoli effettivi dei vecchi Stati nazionali, tutti tremendamente indebitati, spiazzati dagli eventi, capaci spesso solo di evocare nemici esterni alle porte, sub culture sovraniste e pericolose verticalizzazioni del potere.
La pandemia, con i suoi effetti drammatici che vedremo compiutamente solo in autunno, ha accelerato tutto questo e ha disvelato in modo evidente fragilità che prima apparivano solo in filigrana. Oggi si richiede perciò una capacità di innovazione a trecentosessanta gradi che risulterà molto più ardua ed impegnativa della semplice “voglia di fare” che è stata uno degli ingredienti di successo del boom del dopoguerra.
Se noi Popolari vogliamo dare il nostro contributo culturale e politico in questa fase difficile di “nuova ricostruzione”, dobbiamo assumere questi elementi come fondativi di una missione basata su valori e competenze, coraggio e sguardo lontano. Ripartendo dai territori e dalle realtà sociali ed anche economiche che custodiscono le sementi e rielaborano le pianticelle di una nuova idea di futuro. Solo così potremo costruire una prospettiva più generale, nazionale ed europea.
Il resto lasciamolo ai nostalgici o ai giocatori d’azzardo che pare vadano per la maggiore sulla tolda del Titanic.
Capisco e condivido il senso di questo richiamo. Ma, purtroppo, temo che non faccia i conti con alcune radicali differenze tra allora e adesso.
Allora si usciva da vent’anni di dittatura fascista e si incominciava ad annusare il profumo di una libertà ritrovata. Una libertà che incuriosiva, attirava, affascinava e costituiva terreno di impegno comune. Oggi, si esce da una lunga stagione di democrazia che negli ultimi periodi ha però perso parte importante del suo carisma popolare. Una democrazia che affronta la sfida del coronavirus e delle sue conseguenze indebolita dalla rottura di quel patto tra “mercato” ed “equità” che ha sorretto per alcuni decenni il sistema di welfare di modello europeo.
Allora il baratro economico e sociale era alle spalle: adesso pare di fronte a noi. E si misura nella crescente ansiosa convinzione popolare che i livelli di benessere vissuti dalle generazioni che si sono succedute dalla Seconda guerra mondiale in poi non saranno più difendibili.
Allora le categorie prevalenti erano quelle a matrice “comunitaria”: la società era ancora organizzata su robuste infrastrutture collettive. Oggi, le istanze sono prevalentemente “individuali” e si scaricano verso “gli altri” e le Istituzioni pubbliche senza quasi alcuna mediazione.
Allora le condizioni di povertà e di precarietà diffusa rendevano naturale una proiezione di lungo periodo delle aspettative. Si avvertiva che il futuro era tutto da costruire, quasi da zero, e si accettava il fatto che ciò presupponeva tempo e fatica. I sogni comportano sempre tempo e fatica. Oggi invece prevale la paura di chi avverte di aver perso un benessere che aveva raggiunto, per se e per i propri figli.
E l’aspettativa è quella di poterlo riavere “qui ed ora”. Anziché di un sogno, si tratta oggi della disperata voglia di uscire subito da un incubo.
Infine, allora si è potuto contare su una classe dirigente politica che aveva sofferto assieme al popolo durante la dittatura e la guerra; si era preparata spiritualmente, culturalmente e tecnicamente alla propria missione; aveva il carisma per guidare (dal Governo o dall’opposizione) la propria comunità sulla difficile via della ricostruzione morale, civile ed economica. Adesso, con tutta evidenza, non è così.
Le classi dirigenti politiche sono mediamente (salvo rare eccezioni) frutto di carriere improvvisate; aborrono la competenza, che considerano stigma della casta; fondano il proprio ruolo non sul carisma della guida, ma sulla furbizia del consenso facile e immediato.
Giusto e condivisibile, dunque, il richiamo allo spirito della ricostruzione del dopoguerra, ma non basteranno gli appelli alla coesione e all’unita di intenti.
Ci sono una grammatica sociale e istituzionale e una nuova antropologia che non corrispondono più a quelle di un tempo. E si imporranno dinamiche di riorganizzazione del modo di produrre, vivere, esercitare la partecipazione democratica, imparare, consumare, stare assieme, organizzare città e territori, interpretare il valore della sicurezza sociale, assistere gli anziani, spostarsi e così via, che richiederanno paradigmi radicalmente diversi da quelli conosciuti.
Non è la fine della Storia: semplicemente (si fa per dire) è l’avvio confuso e tumultuoso di una nuova fase. Il nostro precedente modello era già in realtà sotto scacco per effetto di alcuni fenomeni latenti che però non abbiamo affrontato con sufficiente rapidità e profondità: crisi demografica; squilibrio tra parti del mondo; cambiamento climatico; rivoluzione digitale; perdita di carisma della democrazia liberale e partecipativa; progressivo scarto tra processi reali di cambiamento e ruoli effettivi dei vecchi Stati nazionali, tutti tremendamente indebitati, spiazzati dagli eventi, capaci spesso solo di evocare nemici esterni alle porte, sub culture sovraniste e pericolose verticalizzazioni del potere.
La pandemia, con i suoi effetti drammatici che vedremo compiutamente solo in autunno, ha accelerato tutto questo e ha disvelato in modo evidente fragilità che prima apparivano solo in filigrana. Oggi si richiede perciò una capacità di innovazione a trecentosessanta gradi che risulterà molto più ardua ed impegnativa della semplice “voglia di fare” che è stata uno degli ingredienti di successo del boom del dopoguerra.
Se noi Popolari vogliamo dare il nostro contributo culturale e politico in questa fase difficile di “nuova ricostruzione”, dobbiamo assumere questi elementi come fondativi di una missione basata su valori e competenze, coraggio e sguardo lontano. Ripartendo dai territori e dalle realtà sociali ed anche economiche che custodiscono le sementi e rielaborano le pianticelle di una nuova idea di futuro. Solo così potremo costruire una prospettiva più generale, nazionale ed europea.
Il resto lasciamolo ai nostalgici o ai giocatori d’azzardo che pare vadano per la maggiore sulla tolda del Titanic.
Concordo con il quadro presentato da Lorenzo Dellai e aggiungerei, per più compiutamente disegnare il quadro stesso, che dopo la seconda guerra mondiale il quadro internazionale (e cultural-ideologico) era chiaro e la via in cui inserire l’azione di ricostruzione ben delineata.
Oggi il quadro mondiale risulta liquido e senza una traccia culturale precisa per determinare la nuova antropologia e nuovi equilibri geopolitici mondiali. Senza contare che il problema ecologico (che comprende anche la bomba demografica, il più subdolo di tutti i rischi) oggi è il convitato di pietra della geopolitica mondiale. Per la prima volta la razza umana si trova di fronte all’alternativa se giocare al risiko tra le grandi potenze, peggiorando ulteriormente l’equilibrio uomo-natura, o riconoscere che, essendo tutta quanta in pericolo (tra l’altro coronavirus docet) dovrebbe avere interesse a consorziarsi inventando una nuova ecogeopolitica atta a rileggere l’intero modo di concepire la dinamica economica e, conseguentemente, la stessa demografia.
Non dimentichiamo inoltre che, oggi come oggi, l’attività economica è diventata “un modo di farsi la guerra con altri mezzi” (e quindi una prosecuzione della lotta per l’affermazione stessa della potenza politica con altri mezzi, da qui il “militarismo finanziario” anarcocapitalistico che ci affligge) in cui la finalità del miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità sono un semplice cascame. O, rectius, un’illusione in cui ad un arricchimento apparente corrisponde un danno ancor più grosso inferto o ai concorrenti o, sempre più, in termini di diseconomie esterne, alle future generazioni che, come tali, non votano e non hanno rappresentanze sindacali. E tutto ciò diventa, inevitabilmente, un momento di destabilizzazione (e non l’unico) della stessa democrazia.
E’ il modello stesso industriale di produrre che è ormai entrato in crisi, paradossalmente per eccesso di produttività.
Il richiamo ai “diritti” delle future generazioni è significativo e in questa fase convulsa poco richiamato. Se i miei nipotini: uno di origine africana (burkinabè), l’altro messicana, nonchè i due piemonteso-lombardi potessero esprimermi i loro sentimenti mi chiederebbero ragione del perchè non stiamo pensando più a loro che a noi. Dovrei rispondere loro che un tempo i nonni piantavano i noci per il loro nipoti, ora tagliano le foreste per ricavare risorse dalla natura.