La segregazione da pandemia è coincisa con le giornate della Quaresima, della Pasqua, e per chi ne ha avuto il desiderio o l’interesse con la possibilità di una lettura e un ascolto delle belle pagine che la liturgia del tempo pasquale ripropone annualmente.
Mi permetto di proporre poche considerazioni conseguenti alla lettura della pagine del capitolo 3 degli Atti degli Apostoli, nella quale si riporta l’incontro di Pietro e Giovanni con un uomo “storpio dalla nascita” il quale chiede la carità. Perché una frase mi ha fatto riflettere sull’oggi. «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!» dice Pietro allo storpio.
Non sono teologo, né ho particolari conoscenze specialistiche del testo sacro. Non mi avventuro, non avendone le competenze e il ruolo specifico, in analisi e approfondimenti che competono ai teologi e ai biblisti. Tento solo di commentare pubblicamente, in modo più laico e politico, la frase degli Atti su riportata: «Non possiedo… ma quello che ho te lo do». Senza dimenticare che Pietro, per così dire, compie il miracolo “nel nome di Gesù Cristo”. Perciò ritengo che i credenti, le comunità credenti, i cittadini che sono impegnati nel sociale e nel politico anche motivati dalla propria fede, possano e debbano portare anche in questo tempo un contributo che sia dono di ciò che si possiede: la speranza, la convinzione che esiste futuro, il desiderio di offrire competenze e intelligenze per ricercare e inventare modi e strumenti nuovi per “risorgere” da questa esperienza di sofferenza che ha coinvolto l’umanità del primo semestre 2020.
Intendo dire che chi crede in Cristo Risorto non si ferma a forme di pietismo, a sbandierare simboli della fede in modo inappropriato, a spacciare ai cittadini momenti del proprio sentimento religioso (sempre che sia vero e serio); invece si preoccupa di dimostrare la “vicinanza” del Salvatore con atti di generosità, con la disponibilità di volontariato, con la solidarietà e la condivisione oggi consentita dal necessario distanziamento e domani con atti concreti che aprano al futuro vivibile per tutti (non solo per la nostra parte, i nostri connazionali, i nostri correligionari, i simpatici…): è una proposta di fraternità che si deve offrire alla convivenza comunitaria. Cioè, non si esclude nessuno; ogni uomo è nostro fratello!
Giustamente Edo Patriarca, già Portavoce del Terzo Settore e parlamentare, pone alcune domande: “Nel Mar Mediterraneo le persone continuano ad affogare. Davvero si possono sospendere le operazioni di salvataggio e dichiarare i nostri porti chiusi? La questione sociale non va posta al primo posto senza togliere alcunché alla sanità? RSA, case famiglia, disabili e persone non autosufficienti, gli irregolari sparsi sul territorio, la bomba carceri, non ci pongono un problema serio? Ci stiamo pensando? Non da ultimo: possiamo riscrivere la legge di bilancio del 2020? E affrontare le sfide attuali? (sanità pubblica, cyber sicurezza e difesa, infrastrutture sociali, ricerca e tecnologia 5G, immigrazioni, dissesto idrogeologico e clima, aree territoriali trascurate, le produzioni strategiche che è bene che rimangano localizzate nel Paese)”.
C’è poi un secondo aspetto, anche questo utile per quando si tornerà alla normalità possibile. Mentre molti, e giustamente, si dovranno preoccupare per rilanciare la produzione, per trovare fondi che sostengano le attività economiche, per sovvenzionare i piccoli lavoratori autonomi e le piccole imprese in difficoltà, per evitare licenziamenti o ritorno a lavori a tempo determinato, si dovrà in parallelo dedicarsi a ripensare (alzati e cammina!) l’impianto della società e dell’economia. Dalle fondamenta, mettendo in soffitta il turbocapitalismo, la finanziarizzazione, ogni tendenza illiberale e centralista.
È stato detto da più parti, in queste settimane di quarantena, che il virus ha messo in crisi concetti di finanza, di sanità, di produzione, di commercio, ecc. Allora il “quello che ho te lo do” deve essere capacità di svolgere un ruolo di coscienza profetica e critica nel richiamare a scelte di profondo cambiamento generale. La terra, la casa, il lavoro restano diritti fondamentali da garantire a tutti. L’istruzione, la salute, il reddito equo, la formazione digitale, i trasporti sono egualmente fondamentali per la vita civile e sociale di ogni persona. Abbiamo capito l’importanza della responsabilità rispetto all’egocentrismo e alla libertà solo per i propri desideri; e compreso che conta fermarsi e ragionare, anziché essere assorbiti nel vortice della fretta, dell’impazienza, della frenesia… Mentre serve anche il passo del camminatore, dello scalatore!
Ora dobbiamo, come credenti che hanno un disegno di società basato sulla centralità della persona, rilanciare alcune idee. Abbiamo, ad esempio, scoperto lo smart working (uffici, scuole, pubblica amministrazione, ecc.); ora dovremmo approfittarne per cambiare rapidamente l’organizzazione del lavoro, compresa l’armonizzazione degli orari lavoro-famiglia. Abbiamo riscoperto l’importanza delle produzioni locali, cui fino all’altro ieri non dedicavamo molta attenzione. E allora quale momento migliore per sostenere i nostri produttori, gli alimenti km.0, il lavoro di tanti artigiani del territorio! Anche rivedendo norme di appalto o di economato per spese minori. Abbiamo avuto conferma che il turismo non è solo di massa e non solo all’estero. Perciò difendiamo il turismo nelle città d’arte italiane, quello dei piccoli borghi e dei piccoli musei periferici, adottiamo il godimento dei panorami nostrani, i parchi, i santuari (molti di quelli piemontesi sono anche siti del Patrimonio UNESCO), le ciclovie.
Abbiamo capito l’importanza delle comunità, la vicinanza di inquilini che non si conoscevano, il “ritrovarsi a cantare iniseme”… Torniamo ad aspetti semplici, ad attenzioni apparentemente innocue. In un palazzo un giovane ha messo nella buca delle lettere un pacchettino con un biscotto per ogni condomino. È servito come rilancio dello spirito cooperativo che era all’origine del condominio. Si riprendano i momenti conviviali di buon vicinato, i momenti di festa in una via del quartiere, un momento di preghiera comune fra qualche famiglia (questa sarebbe già stata una bella risposta a chi lamenta la mancanza di celebrazioni nel tempio).
Abbiamo avuto conferma che la cultura serve e che va ancor più valorizzata in tutte le sue forme. È il momento di concretizzare! Così come è evidente che serve la cosiddetta “economia civile”, il Terzo settore, il ruolo delle imprese non profit: continuiamo nel derby fra Stato e Mercato oppure teniamo conto che i poli sono tre (come dice Zamagni “la “mano invisibile” del mercato, la “mano visibile” dello Stato e la “mano fraternizzante” della società civile”)? Che resta sempre da realizzare il welfare di comunità, e il welfare di impresa (più che mai attuale Olivetti).
Abbiamo imparato (insegnanti, famiglie, allievi) che le modalità di insegnamento e apprendimento devono essere aggiornati: non è sufficiente la tecnologia, ma non basta più solo la classe con le lezioni tradizionali. Sarà quindi da riorganizzare una scuola diversa. Lascio agli esperti individuare il come. Mi limito a sottolineare che il cambiamento della scuola non è solo modifica delle modalità degli esami di maturità, è rilancio della scuola “della comunità locale” e della “partecipazione” vera dei genitori superando i semplici colloqui e l’abbondanza di riunioni di collegi (di Istituto, di classe, di programmazione…), e non è solo istruzione ma anche supporto educativo al ruolo primario delle famiglie.
E parlando di famiglie, la comunità credente non può esimersi dal richiamare ancora una volta l’urgenza di una politica per le famiglie, che le metta al centro del progetto, che ne aiuti la formazione e ne sostenga la tenuta: fisco, politiche sociali, contributi per la maternità, nidi, supporto ai disabili e per il caregiver, ecc.
Chiudo con le intelligenti parole di un parroco dell’alta Val Camonica: “Ci siamo trovati in un deserto liturgico, proprio in un tempo come quello della Quaresima che per noi cattolici è sempre stato il tempo liturgico più forte e più impegnativo. Personalmente penso che questa sia un’occasione propizia e, direi, provvidenziale per rileggere la nostra spiritualità molto impregnata di ritualismo e di devozionismo per chiederci che cristiani vogliamo essere e soprattutto su cosa costruire la nostra fede [...] il nostro essere discepoli di Gesù non è solo vivere dei riti, ma viverlo nella nostra esperienza quotidiana. Ritengo proficuo questo tempo che è stato svuotato da tante cose: penso solo a tutte le celebrazioni della Settimana santa, ai vari riti quaresimali: abbiamo fatto un po’ di digiuno necessario che ci ha portato, a condividere anche l’emarginazione dalla Cena del Signore; purtroppo nella chiesa di Roma sono ancora troppi quelli che, per regole umane e non certo divine, non possono accostarsi al banchetto; per un gioco della vita siamo passati dall’altra parte della barricata. Questo è una scuola di vita, e potrebbe essere una scuola di cristianesimo”.
Anche questo può essere un “dono” offerto per il dopo.
Mi permetto di proporre poche considerazioni conseguenti alla lettura della pagine del capitolo 3 degli Atti degli Apostoli, nella quale si riporta l’incontro di Pietro e Giovanni con un uomo “storpio dalla nascita” il quale chiede la carità. Perché una frase mi ha fatto riflettere sull’oggi. «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!» dice Pietro allo storpio.
Non sono teologo, né ho particolari conoscenze specialistiche del testo sacro. Non mi avventuro, non avendone le competenze e il ruolo specifico, in analisi e approfondimenti che competono ai teologi e ai biblisti. Tento solo di commentare pubblicamente, in modo più laico e politico, la frase degli Atti su riportata: «Non possiedo… ma quello che ho te lo do». Senza dimenticare che Pietro, per così dire, compie il miracolo “nel nome di Gesù Cristo”. Perciò ritengo che i credenti, le comunità credenti, i cittadini che sono impegnati nel sociale e nel politico anche motivati dalla propria fede, possano e debbano portare anche in questo tempo un contributo che sia dono di ciò che si possiede: la speranza, la convinzione che esiste futuro, il desiderio di offrire competenze e intelligenze per ricercare e inventare modi e strumenti nuovi per “risorgere” da questa esperienza di sofferenza che ha coinvolto l’umanità del primo semestre 2020.
Intendo dire che chi crede in Cristo Risorto non si ferma a forme di pietismo, a sbandierare simboli della fede in modo inappropriato, a spacciare ai cittadini momenti del proprio sentimento religioso (sempre che sia vero e serio); invece si preoccupa di dimostrare la “vicinanza” del Salvatore con atti di generosità, con la disponibilità di volontariato, con la solidarietà e la condivisione oggi consentita dal necessario distanziamento e domani con atti concreti che aprano al futuro vivibile per tutti (non solo per la nostra parte, i nostri connazionali, i nostri correligionari, i simpatici…): è una proposta di fraternità che si deve offrire alla convivenza comunitaria. Cioè, non si esclude nessuno; ogni uomo è nostro fratello!
Giustamente Edo Patriarca, già Portavoce del Terzo Settore e parlamentare, pone alcune domande: “Nel Mar Mediterraneo le persone continuano ad affogare. Davvero si possono sospendere le operazioni di salvataggio e dichiarare i nostri porti chiusi? La questione sociale non va posta al primo posto senza togliere alcunché alla sanità? RSA, case famiglia, disabili e persone non autosufficienti, gli irregolari sparsi sul territorio, la bomba carceri, non ci pongono un problema serio? Ci stiamo pensando? Non da ultimo: possiamo riscrivere la legge di bilancio del 2020? E affrontare le sfide attuali? (sanità pubblica, cyber sicurezza e difesa, infrastrutture sociali, ricerca e tecnologia 5G, immigrazioni, dissesto idrogeologico e clima, aree territoriali trascurate, le produzioni strategiche che è bene che rimangano localizzate nel Paese)”.
C’è poi un secondo aspetto, anche questo utile per quando si tornerà alla normalità possibile. Mentre molti, e giustamente, si dovranno preoccupare per rilanciare la produzione, per trovare fondi che sostengano le attività economiche, per sovvenzionare i piccoli lavoratori autonomi e le piccole imprese in difficoltà, per evitare licenziamenti o ritorno a lavori a tempo determinato, si dovrà in parallelo dedicarsi a ripensare (alzati e cammina!) l’impianto della società e dell’economia. Dalle fondamenta, mettendo in soffitta il turbocapitalismo, la finanziarizzazione, ogni tendenza illiberale e centralista.
È stato detto da più parti, in queste settimane di quarantena, che il virus ha messo in crisi concetti di finanza, di sanità, di produzione, di commercio, ecc. Allora il “quello che ho te lo do” deve essere capacità di svolgere un ruolo di coscienza profetica e critica nel richiamare a scelte di profondo cambiamento generale. La terra, la casa, il lavoro restano diritti fondamentali da garantire a tutti. L’istruzione, la salute, il reddito equo, la formazione digitale, i trasporti sono egualmente fondamentali per la vita civile e sociale di ogni persona. Abbiamo capito l’importanza della responsabilità rispetto all’egocentrismo e alla libertà solo per i propri desideri; e compreso che conta fermarsi e ragionare, anziché essere assorbiti nel vortice della fretta, dell’impazienza, della frenesia… Mentre serve anche il passo del camminatore, dello scalatore!
Ora dobbiamo, come credenti che hanno un disegno di società basato sulla centralità della persona, rilanciare alcune idee. Abbiamo, ad esempio, scoperto lo smart working (uffici, scuole, pubblica amministrazione, ecc.); ora dovremmo approfittarne per cambiare rapidamente l’organizzazione del lavoro, compresa l’armonizzazione degli orari lavoro-famiglia. Abbiamo riscoperto l’importanza delle produzioni locali, cui fino all’altro ieri non dedicavamo molta attenzione. E allora quale momento migliore per sostenere i nostri produttori, gli alimenti km.0, il lavoro di tanti artigiani del territorio! Anche rivedendo norme di appalto o di economato per spese minori. Abbiamo avuto conferma che il turismo non è solo di massa e non solo all’estero. Perciò difendiamo il turismo nelle città d’arte italiane, quello dei piccoli borghi e dei piccoli musei periferici, adottiamo il godimento dei panorami nostrani, i parchi, i santuari (molti di quelli piemontesi sono anche siti del Patrimonio UNESCO), le ciclovie.
Abbiamo capito l’importanza delle comunità, la vicinanza di inquilini che non si conoscevano, il “ritrovarsi a cantare iniseme”… Torniamo ad aspetti semplici, ad attenzioni apparentemente innocue. In un palazzo un giovane ha messo nella buca delle lettere un pacchettino con un biscotto per ogni condomino. È servito come rilancio dello spirito cooperativo che era all’origine del condominio. Si riprendano i momenti conviviali di buon vicinato, i momenti di festa in una via del quartiere, un momento di preghiera comune fra qualche famiglia (questa sarebbe già stata una bella risposta a chi lamenta la mancanza di celebrazioni nel tempio).
Abbiamo avuto conferma che la cultura serve e che va ancor più valorizzata in tutte le sue forme. È il momento di concretizzare! Così come è evidente che serve la cosiddetta “economia civile”, il Terzo settore, il ruolo delle imprese non profit: continuiamo nel derby fra Stato e Mercato oppure teniamo conto che i poli sono tre (come dice Zamagni “la “mano invisibile” del mercato, la “mano visibile” dello Stato e la “mano fraternizzante” della società civile”)? Che resta sempre da realizzare il welfare di comunità, e il welfare di impresa (più che mai attuale Olivetti).
Abbiamo imparato (insegnanti, famiglie, allievi) che le modalità di insegnamento e apprendimento devono essere aggiornati: non è sufficiente la tecnologia, ma non basta più solo la classe con le lezioni tradizionali. Sarà quindi da riorganizzare una scuola diversa. Lascio agli esperti individuare il come. Mi limito a sottolineare che il cambiamento della scuola non è solo modifica delle modalità degli esami di maturità, è rilancio della scuola “della comunità locale” e della “partecipazione” vera dei genitori superando i semplici colloqui e l’abbondanza di riunioni di collegi (di Istituto, di classe, di programmazione…), e non è solo istruzione ma anche supporto educativo al ruolo primario delle famiglie.
E parlando di famiglie, la comunità credente non può esimersi dal richiamare ancora una volta l’urgenza di una politica per le famiglie, che le metta al centro del progetto, che ne aiuti la formazione e ne sostenga la tenuta: fisco, politiche sociali, contributi per la maternità, nidi, supporto ai disabili e per il caregiver, ecc.
Chiudo con le intelligenti parole di un parroco dell’alta Val Camonica: “Ci siamo trovati in un deserto liturgico, proprio in un tempo come quello della Quaresima che per noi cattolici è sempre stato il tempo liturgico più forte e più impegnativo. Personalmente penso che questa sia un’occasione propizia e, direi, provvidenziale per rileggere la nostra spiritualità molto impregnata di ritualismo e di devozionismo per chiederci che cristiani vogliamo essere e soprattutto su cosa costruire la nostra fede [...] il nostro essere discepoli di Gesù non è solo vivere dei riti, ma viverlo nella nostra esperienza quotidiana. Ritengo proficuo questo tempo che è stato svuotato da tante cose: penso solo a tutte le celebrazioni della Settimana santa, ai vari riti quaresimali: abbiamo fatto un po’ di digiuno necessario che ci ha portato, a condividere anche l’emarginazione dalla Cena del Signore; purtroppo nella chiesa di Roma sono ancora troppi quelli che, per regole umane e non certo divine, non possono accostarsi al banchetto; per un gioco della vita siamo passati dall’altra parte della barricata. Questo è una scuola di vita, e potrebbe essere una scuola di cristianesimo”.
Anche questo può essere un “dono” offerto per il dopo.
Condivido in pieno l’appello di Carlo Baviera ai credenti, ai “nuovi” politici, agli uomini di buona volontà.