Ci sono dei momenti nella storia di un Paese in cui si arriva a un bivio da cui dipenderà il percorso futuro. Fu così nel maggio del 1947, quando nacque il quarto governo De Gasperi che sancì l'estromissione del socialcomunisti dalla maggioranza, e che pose le basi per la storica scelta di campo nelle elezioni del 18 aprile del 1948, in cui gli elettori scelsero la via della libertà, dell'Alleanza strategica con gli Stati Uniti, anziché una possibile consegna del Paese al terrore staliniano.
È così anche adesso: l'Italia e l'Europa sono di fronte a uno storico bivio. A seconda delle scelte che verranno compiute per fronteggiare l'eccezionale crisi da virus, cambierà il nostro futuro forse per molti decenni.
La zona Euro, e di riflesso l'UE, sono poste dalle inaudite circostanze determinate dal coronavirus, davanti a una secca alternativa: fare un decisivo salto di qualità verso il completamento dell'unità, varcando finalmente, con buona pace del Nord Europa, il Rubicone della condivisione del rischio, oppure procedere al ripristino dell'austerity as usual.
Le cronache (ma anche la geopolitica) ci dicono che non si intravvedono i presupposti della prima opzione, quella della condivisione del debito. Per realizzarsi essa avrebbe bisogno di un accordo per superare il divieto della BCE – posto a fondamento dell'unione monetaria – di finanziare il debito pubblico degli Stati. Ed invece è proprio questo che si deve fare in questa fase. Non ulteriore debito, ma creazione di moneta, non prestiti ma indennizzi e finanziamenti a fondo perduto. La via intrapresa dal resto del mondo, Stati Uniti in testa, e caldamente consigliata da Mario Draghi nel recente intervento sul Financial Times.
L'Europa, dunque, salvo clamorosi e provvidenziali colpi di scena, pare aver già scelto la via opposta, quella delle risposte procicliche alla crisi, che ne aumenteranno la gravità anziché ridurla. Ma in tal modo per ottemperare scrupolosamente ai trattati vigenti, essa finirà per ostacolare e ritardare la ripresa, per aumentare ulteriormente le divergenze fra i Paesi membri e le tensioni sociali al loro interno.
Di conseguenza anche l'Italia è posta di fronte a un bivio storico. Essendo preclusa da inossidabili e mai del tutto debellati egoismi nazionali, la via che tutti auspichiamo, di un passo in avanti sulla via dell'integrazione europea, l'alternativa per il nostro Paese si riduce tra l'accettazione della "ricetta europea" oppure il tentativo di "fare da soli", ricercando soluzioni diverse.
La risposta europea alla crisi è ormai definita. Appare tardiva, con strumenti che per attivarsi necessitano di mesi se non di anni. Ma soprattutto essa esclude la possibilità di un ricorso a un adeguato shock monetario e fiscale. Se lo potranno permettere solo i Paesi meno indebitati, mentre tutti gli altri cadranno nella morsa di un debito, che proprio a causa delle misure europee "anticrisi" – MES, BEI, SURE, Recovery Fund, gli stessi pseudo eurobond, se ci saranno – risulterà ancor più insostenibile e quindi aprirà la strada a misure di inaudita severità, oltre che di inutile e gratuita crudeltà verso i cittadini più deboli, che faranno ulteriormente precipitare l'economia, e inasprire lo scontro sociale.
Questa è la via che l'Italia sembra orientata a imboccare, sospinta anche dai segnali che giungono da Francoforte dove non sembra mancare la prodigiosa facoltà di far aumentare lo spread ogni qual volta l'Italia deve compiere scelte cruciali. Certo, si dirà in ogni salsa che il MES non prevede condizioni, tantomeno gli altri strumenti europei erogatori di debito aggiuntivo. Ma, non appena l'emergenza sanitaria sarà alle spalle, verrà immediatamente ripristinato il patto di stabilità. Avremo un rapporto debito/PIL intorno al 160%, quello deficit/PIL fra il 7 e l'8%. Allora l'Europa ci farà notare che i nostri sforamenti dai parametri non sono più tollerabili, e tutte le più feroci condizionalità scatteranno. Esse ci regaleranno una depressione permanente dovuta ai forzati avanzi primari che dovremo realizzare per decenni per "ridurre il debito", che esigeranno altri sanguinosi tagli alla sanità, agli investimenti per la crescita, alla ricerca, che metteranno in ginocchio l'economia e faranno a brandelli la classe media.
Esiste una alternativa per salvarci dalla grecizzazione dell'Italia?
Certamente. È ancora quella del 1948. Ma richiede prima un nuovo 8 settembre: voltare le spalle alla Germania che ci conduce di nuovo alla rovina e rinnovare l'alleanza di ferro con gli Stati Uniti. Presupposto indispensabile per poter attuare subito misure alternative a quelle europee: controllo dei capitali, Banca d'Italia prestatrice di ultima istanza e inevitabile uscita dalla zona Euro. Contestuale attivazione di adeguate linee di credito dagli Stati Uniti, nuovo piano Marshall, la cui restituzione non graverà sulla ripresa e sulla leva fiscale, grazie alla ritrovata libertà di manovra nelle politiche monetarie.
È chiaro che una simile strategia richiede interpreti dall'altezza, dei nuovi De Gasperi. Ma è altrettanto chiaro che la via su cui invece sembra ci stiamo incamminando, è una strada senza ritorno, la tomba dell'Italia come potenza economica, forse anche dell'unità nazionale e della democrazia. Per questo il presidente Conte dovrà condurre la trattativa europea con lo spirito del Paese che si gioca il tutto per tutto, possibilmente non cedere all'Europa della trappola del debito, pretendendo invece che sia la BCE a intervenire per tutto ciò che è necessario alla ripresa (e le sponde per tale soluzione europeista non mancano nella stessa Germania).
Nel nefasto caso di capitolazione, di accettazione del MES senza apparenti condizioni, non potrà esser solo il Parlamento a ratificare la disfatta, ma vi sono le ragioni per chiamare il popolo ad esprimersi con un referendum per dire l'ultima parola di approvazione o di rifiuto dell'eutanasia del Paese.
Non resta che rilevare che ogni tentativo del nostro filone cultural-politico cattolico-democratico di offrire un contributo alla ripresa, appare destinato a misurarsi con il sistematico sgretolamento della classe media, che le risorgenti e suicide per l’Europa politiche austeritarie scateneranno. Ma potrà esistere un popolarismo senza popolo, che rinunci a rappresentare le ragioni di quell'80% della popolazione che dalle ricette europee contro la crisi ne uscirà devastato?
È così anche adesso: l'Italia e l'Europa sono di fronte a uno storico bivio. A seconda delle scelte che verranno compiute per fronteggiare l'eccezionale crisi da virus, cambierà il nostro futuro forse per molti decenni.
La zona Euro, e di riflesso l'UE, sono poste dalle inaudite circostanze determinate dal coronavirus, davanti a una secca alternativa: fare un decisivo salto di qualità verso il completamento dell'unità, varcando finalmente, con buona pace del Nord Europa, il Rubicone della condivisione del rischio, oppure procedere al ripristino dell'austerity as usual.
Le cronache (ma anche la geopolitica) ci dicono che non si intravvedono i presupposti della prima opzione, quella della condivisione del debito. Per realizzarsi essa avrebbe bisogno di un accordo per superare il divieto della BCE – posto a fondamento dell'unione monetaria – di finanziare il debito pubblico degli Stati. Ed invece è proprio questo che si deve fare in questa fase. Non ulteriore debito, ma creazione di moneta, non prestiti ma indennizzi e finanziamenti a fondo perduto. La via intrapresa dal resto del mondo, Stati Uniti in testa, e caldamente consigliata da Mario Draghi nel recente intervento sul Financial Times.
L'Europa, dunque, salvo clamorosi e provvidenziali colpi di scena, pare aver già scelto la via opposta, quella delle risposte procicliche alla crisi, che ne aumenteranno la gravità anziché ridurla. Ma in tal modo per ottemperare scrupolosamente ai trattati vigenti, essa finirà per ostacolare e ritardare la ripresa, per aumentare ulteriormente le divergenze fra i Paesi membri e le tensioni sociali al loro interno.
Di conseguenza anche l'Italia è posta di fronte a un bivio storico. Essendo preclusa da inossidabili e mai del tutto debellati egoismi nazionali, la via che tutti auspichiamo, di un passo in avanti sulla via dell'integrazione europea, l'alternativa per il nostro Paese si riduce tra l'accettazione della "ricetta europea" oppure il tentativo di "fare da soli", ricercando soluzioni diverse.
La risposta europea alla crisi è ormai definita. Appare tardiva, con strumenti che per attivarsi necessitano di mesi se non di anni. Ma soprattutto essa esclude la possibilità di un ricorso a un adeguato shock monetario e fiscale. Se lo potranno permettere solo i Paesi meno indebitati, mentre tutti gli altri cadranno nella morsa di un debito, che proprio a causa delle misure europee "anticrisi" – MES, BEI, SURE, Recovery Fund, gli stessi pseudo eurobond, se ci saranno – risulterà ancor più insostenibile e quindi aprirà la strada a misure di inaudita severità, oltre che di inutile e gratuita crudeltà verso i cittadini più deboli, che faranno ulteriormente precipitare l'economia, e inasprire lo scontro sociale.
Questa è la via che l'Italia sembra orientata a imboccare, sospinta anche dai segnali che giungono da Francoforte dove non sembra mancare la prodigiosa facoltà di far aumentare lo spread ogni qual volta l'Italia deve compiere scelte cruciali. Certo, si dirà in ogni salsa che il MES non prevede condizioni, tantomeno gli altri strumenti europei erogatori di debito aggiuntivo. Ma, non appena l'emergenza sanitaria sarà alle spalle, verrà immediatamente ripristinato il patto di stabilità. Avremo un rapporto debito/PIL intorno al 160%, quello deficit/PIL fra il 7 e l'8%. Allora l'Europa ci farà notare che i nostri sforamenti dai parametri non sono più tollerabili, e tutte le più feroci condizionalità scatteranno. Esse ci regaleranno una depressione permanente dovuta ai forzati avanzi primari che dovremo realizzare per decenni per "ridurre il debito", che esigeranno altri sanguinosi tagli alla sanità, agli investimenti per la crescita, alla ricerca, che metteranno in ginocchio l'economia e faranno a brandelli la classe media.
Esiste una alternativa per salvarci dalla grecizzazione dell'Italia?
Certamente. È ancora quella del 1948. Ma richiede prima un nuovo 8 settembre: voltare le spalle alla Germania che ci conduce di nuovo alla rovina e rinnovare l'alleanza di ferro con gli Stati Uniti. Presupposto indispensabile per poter attuare subito misure alternative a quelle europee: controllo dei capitali, Banca d'Italia prestatrice di ultima istanza e inevitabile uscita dalla zona Euro. Contestuale attivazione di adeguate linee di credito dagli Stati Uniti, nuovo piano Marshall, la cui restituzione non graverà sulla ripresa e sulla leva fiscale, grazie alla ritrovata libertà di manovra nelle politiche monetarie.
È chiaro che una simile strategia richiede interpreti dall'altezza, dei nuovi De Gasperi. Ma è altrettanto chiaro che la via su cui invece sembra ci stiamo incamminando, è una strada senza ritorno, la tomba dell'Italia come potenza economica, forse anche dell'unità nazionale e della democrazia. Per questo il presidente Conte dovrà condurre la trattativa europea con lo spirito del Paese che si gioca il tutto per tutto, possibilmente non cedere all'Europa della trappola del debito, pretendendo invece che sia la BCE a intervenire per tutto ciò che è necessario alla ripresa (e le sponde per tale soluzione europeista non mancano nella stessa Germania).
Nel nefasto caso di capitolazione, di accettazione del MES senza apparenti condizioni, non potrà esser solo il Parlamento a ratificare la disfatta, ma vi sono le ragioni per chiamare il popolo ad esprimersi con un referendum per dire l'ultima parola di approvazione o di rifiuto dell'eutanasia del Paese.
Non resta che rilevare che ogni tentativo del nostro filone cultural-politico cattolico-democratico di offrire un contributo alla ripresa, appare destinato a misurarsi con il sistematico sgretolamento della classe media, che le risorgenti e suicide per l’Europa politiche austeritarie scateneranno. Ma potrà esistere un popolarismo senza popolo, che rinunci a rappresentare le ragioni di quell'80% della popolazione che dalle ricette europee contro la crisi ne uscirà devastato?
Un discorso che certo piacerà a Salvini e a Meloni. C’è un evidente parallelismo con la loro posizione nel giudizio sull’Europa, sulla Germania, sulla Francia e sulla fiducia riposta negli Stati Uniti, ancorché l’amico (lo sottolineo) Giuseppe Davicino collochi la sua analisi ad un livello (storico e geopolitico) non alla portata degli attuali (tutti) leader di partito. Il richiamo al 18 aprile è posto per nobilitare quanto viene proposto. Ma attenzione a decontestualizzare i fatti storici e a presentarli come collegati a scelte di civiltà. Come ha scritto Lucio Caracciolo, Usa e Urss, nella seconda metà del Novecento, hanno avuto interesse a proporre la propria irriducibile contrapposizione sotto specie ideologica o moralistica: liberal-democrazia contro comunismo, capitalismo contro economia pianificata, Bene contro Male. Ma si trattava di propaganda per coprire pure logiche di potenza.
Il 18 aprile ha reso possibile, col grande consenso elettorale a De Gasperi, una scelta di politica estera che risultava realistica e opportuna, in rapporto alla situazione interna italiana, ai rapporti di forza internazionali sanciti a Jalta, e a un pericolo comunista avvertito dalla maggioranza della popolazione. Rispondeva a l’interesse del paese in quel particolare momento. Invece, dietro i molti passi (sovente sbagliati) che sono stati fatti sul cammino europeo, c’è stato comunque, e c’è ancora oggi, molto di più, perché l’idea di Europa non si regge solo su esigenze temporanee di natura utilitaristica come un’alleanza (oggi c’è, domani non più). Una Europa autonoma e forte rappresenta un tassello importantissimo per realizzare un nuovo e indispensabile equilibrio mondiale.
Dai tempi di De Gasperi, molto è cambiato nel mondo anche se è rimasta immodificata la volontà statunitense (che dura da inizio XX secolo) di mantenere e possibilmente rafforzare la leadership planetaria. Ma l’assetto unipolare su cui questa si regge è avviato ad un evidente declino e, come ci ha detto Henry Kissinger, se non se ne prende atto e non si cambia strada, la situazione internazionale è destinata a diventare sempre più pericolosa.
Se non teniamo conto di tutto ciò, buttarsi oggi nelle braccia della potenza americana (chiunque ne sia alla presidenza), in base a sole momentanee convenienze, assomiglia molto al comportamento di quegli italiani del XVI secolo per quali ogni criterio di politica internazionale si riduceva a “Franza o Spagna purché se magna”.
Ringrazio l’amico Giuseppe Ladetto per l’occasione che mi offre per ribadire come un’analisi realistica della situazione europea sia antitetica ai sovranismi di Salvini e Meloni e ne dimostri tutta la loro inconsistenza. La stella polare della Lega sono gli interessi del Lombardo-Veneto, ai quali i seguaci di Salvini sono pronti a sacrificare anche l’unità nazionale. E che dire dei principali eredi della Repubblica di Salò? Quale credibilità hanno oggi nel parlare di un’Europa che non sia più sbilanciata sugli interessi tedeschi?
Se è indubbio che il progetto europeo ha avuto un carattere strategico, è anche vero che quel progetto è esistito proprio grazie al contributo di statisti come De Gasperi, ed è stato bloccato con la riunificazione della Germania. Maastricht si è rivelata essere la tomba del progetto europeo, soppiantato, proprio per effetto dei trattati istitutivi dell’Unione Europea, in sostanziale contrasto con Ceca, Mec e Cee, dal riemergere dell’impero centrale mitteleuropeo.
Nel 1948 come nel 2020 vi sono due stati di necessità, profondamente diversi, ma che richiedono scelte azzeccate e coraggiose per evitate il baratro. Allora furono fatte. Oggi con scelte macroeconomiche europee sbagliate l’Italia rischia il collasso finanziario che si sommerebbe a quello economico già in corso. Che fare? Credere, obbedire e combattere per i diktat euro-tedeschi (mi sa che così si fa felice pure la Meloni…) o levarsi il cappio con cui le ricette anticrisi europee soffocheranno il Paese, cercando alternative praticabili e di buon senso, nel caso in cui la Bce non garantisca tutte le risorse necessarie alla ricostruzione (come si fa in tutto il resto del mondo libero, non assoggettato alla Germania)? Questo è il dilemma dell’ora presente. A cui si sarà costretti a rispondere forse molto presto, fra qualche settimana, se è vero che qualunque conclusione del prossimo Consiglio europeo sulle misure anticrisi potrà essere emendata dalla Corte di Karlsruhe, di fatto unico organo sovrano, insieme al Bundestag, nell’Ue.
Non si tratta, dunque, di gettarsi nelle braccia degli Stati Uniti per un tozzo di pane, ma di trovare ora una soluzione urgente, valida e dignitosa volta a interrompere una catena di eventi che altrimenti pare già segnata, anche come naturale e logica conseguenza della sanguinosa austerità praticata nello scorso decennio: debito su debito per affrontare la crisi- ripristino del fiscal compact a emergenza sanitaria finita – arrivo della troika – nuovi enormi, insostenibili tagli e tasse – rivolte sociali – caos e violenze – ingovernabilità.
Se da questa crisi di eccezionale portata l’Europa non dimostra di uscire con la solidarietà, le considerazioni sul ruolo autonomo dell’Europa del mondo, per quanto condivisibili e suggestive continueranno a rimanere delle interessanti dissertazioni accademiche.
L’unilateralismo americano sembra essere un problema ormai superato dai fatti. L’America bada principalmente a se stessa. È rimasto in piedi invece un progetto unilateralista e totalitario su scala planetaria, ma è quello delle élites globaliste e delle oligarchie finanziarie le quali ardentemente continuano a volere l’Europa tedesca, alleata non a caso al dispotico regime cinese e a settori trasversali dell’establishment americano.
La risposta migliore a questi pericoli è tornare al progetto europeo originario, fondato sulla libertà, la persona e la solidarietà, non sulla stabilità monetaria. Prima che sia troppo tardi.
Nella teoria della negoziazione si insegna che tre sono le possibili strategie: quella rigida (un tempo definita sovietica) che vede il negoziatore non cedere mai per sfiancare l’avversario, quella cooperativa che si fonda sul dialogo ad ogni costo. Entrambe rischiose. Infine è stata sviluppata quella mista che ad una prima fase di durezza della proposta iniziale fa seguire una seconda proposta di mediazione, per poi chiudere con un ricatto finale. Meglio se il gioco delle parti è fatto da due compari: il conciliante e il duro. Vediamo se tra Italia, Francia e Spagna si svilupperà una analoga strategia, anche perché pare che l’altra parte sin’ora ne manifesti solo una, rigida, e quindi ingestibile di fronte al ricatto di rifiutare la conclusione della negoziazione. Chi ne avrebbe più danno? Forse entrambi gli schieramenti. Quindi attendiamo. Poi valuteremo.