Rilanciamo l'ampia intervista rilasciata a Marco Bellizi per “L'Osservatore Romano” dal professor Stefano Zamagni, principale promotore del “Manifesto per un soggetto politico nuovo e cristianamente ispirato”.
Nel “nuovo mondo” del dopovirus il nemico numero uno sarà il liberismo. E insieme ad esso, almeno in Italia, la burocrazia, l’ostinazione nel rifiutare il principio di sussidiarietà, la resistenza alle opportunità che la tecnologia ha dimostrato di poter fornire. Nonostante questo compito impegnativo all’orizzonte, secondo Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, il futuro comunque sarà migliore del passato. L’Europa, per esempio, sarà più forte e i sovranismi, nell’immediato, saranno costretti ad arretrare. Perché tutto questo accada, però, occorrono iniziative tempestive, coraggiose e lungimiranti. In Italia, per esempio, servirebbe un think tank, un gruppo di esperti politicamente indipendenti e desiderosi di dare una mano al loro paese, in grado di elaborare nel termine di poche settimane un vasto progetto con cui ripartire, quando si avvierà finalmente la famosa “fase 2”.
Professor Zamagni, prima di tutto mi permetta una domanda ineludibile: lei è favorevole alla riapertura in Italia, in tempi brevi, delle attività produttive, anche correndo qualche rischio, o preferisce attendere il via libera degli scienziati?
Il punto è delicato e richiede una risposta articolata. Circola uno studio recente realizzato da un team di esperti dell’Università di Alicante, istituzione piuttosto attendibile, secondo il quale in Italia e in Spagna il 24 aprile sarà la data di un deciso cambio di rotta, in positivo, dell’epidemia. Se questo è vero ha un senso riaprire. Altri studi però mostrano scenari diversi. Ci sono pareri discordanti anche a livello scientifico: questo va detto. I police makers, i governanti, sono costretti a basarsi su questi dati, che non sono concordi. Purtroppo, negli anni passati, quando era possibile farlo, gli istituti scientifici non sono stati messi nella condizione di effettuare studi che adesso sarebbero preziosi. Bisogna dire con chiarezza, però, che non si muore solo di virus: se entro due mesi la situazione non si risolvesse, si potrebbe cominciare a morire anche per denutrizione, per cattiva alimentazione, per insufficiente assistenza sanitaria.
I modi per riaprire gradualmente ci sono. Occorre iniziare con le attività che producono valore aggiunto: le partite di calcio, tanto per intendersi, non sono fra queste. Fino ad ora, durante questa crisi, abbiamo solo redistribuito valore, senza produrlo. È chiaro che così non possiamo reggere.
E qui devo dire che le autorità italiane non hanno mostrato di voler valorizzare i tanti organismi del cosiddetto “terzo settore” che potrebbero fare un mondo di bene. Ho sottoscritto, assieme ad altri, un appello per avviare il servizio civile universale. Ci sono 80.000 giovani che in base agli ultimi bandi sono pronti a lavorare gratuitamente per un anno. Lo stesso vale per molte fondazioni sanitarie. Sarebbe un vero e proprio esercito pronto a scendere in campo. Parliamo di circa 360 mila organizzazioni. Il problema è che ci sono alcuni settori che sono contrari al principio di sussidiarietà. C’è troppo dogmatismo e poca cultura. Prendiamo il tema della fragilità e della vulnerabilità, di cui si parla molto in questi giorni. Sfugge una distinzione fra queste due categorie. Noi in questi giorni siamo intervenuti a favore dei più fragili, di chi si trova in condizione di bisogno. Ed era giusto farlo. Ma la vulnerabilità è la condizione di chi, con una percentuale di probabilità superiore al 50 per cento, entro un determinato lasso di tempo potrebbe trovarsi fra quelli che oggi vengono definiti fragili.
In questi giorni abbiamo sentito molti pareri, anche diversi, in merito agli effetti che il lockdown avrà sull’economia italiana e su quella mondiale. Si può dire ormai, almeno a grandi linee, quali saranno le principali emergenze che si dovranno affrontare nell’immediato?
In primo luogo bisogna passare dal Welfare State alla Welfare Society: ammettere anzitutto che la salute non è un bene privato ma pubblico. Questo virus ce lo sta dimostrando chiaramente: se io mi ammalo finisco con il fare ammalare anche gli altri. Diventa un problema comune. Poi occorre passare dal modello della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” alla “convergenza scuola-lavoro”, perché i due mondi non sono alternativi. Nei progetti educativi bisogna introdurre il termine “conazione” (conoscenza e azione). Il sapere va usato in senso trasformativo. Oggi le imprese hanno fame di conoscenza eppure non riescono a impiegare chi la possiede. Naturalmente ciò comporta riscrivere l’architettura filosofica che è alla base della scuola. È lo stesso concetto attorno al quale ruota il progetto educativo che il Papa ha inteso promuovere e che verrà rilanciato nei prossimi mesi.
Un altro punto fondamentale è quello della deburocratizzazione. Nessuno ha l’onestà di dire che la burocrazia c’è per colpa di tutti i partiti politici, e sottolineo tutti, che l’hanno creata a colpi di leggi a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi (il miracolo economico precedente si è potuto verificare proprio in assenza di questo genere di ostacoli). La burocrazia la si tiene in vita in virtù di quella che viene definita la rentseeking: non è altro che uno strumento per mantenere o estrarre rendita. Ecco, bisogna far partire una lotta senza quartiere contro le posizioni di rendita che si annidano nella burocrazia. Anche perché per mantenere il burocrate, per giustificare il suo stipendio, l’unico modo è fargli produrre carte su carte, in un processo autorigenerativo.
Altro punto fondamentale è quello del tasso di imprenditorialità, che in Italia è calato molto: muoiono molte più imprese di quante ne nascano, e quando dicono “muoiono” mi riferisco anche a quelle che passano di mano ad aziende francesi o tedesche pur mantenendo il marchio formalmente invariato. C’è differenza fra imprenditorialità e managerialità. In Italia ci sono tanti bravissimi manager, abbiamo ottime e numerose business school. Il problema è che mentre il manager ha bisogno di tecnica, l’imprenditore ha bisogno di cultura, di alta cultura. E qui le nostre università hanno delle colpe, sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Infine c’è la questione della “tassazione promozionale”, quella che gli inglesi definiscono Optimal taxation theory: le tasse le deve pagare soprattutto chi ha rendita, non chi produce valore. Se questo facesse parte di un programma elettorale scommetto che la gente lo voterebbe in massa. Mi piacerebbe sapere cosa hanno da dire su questo punto i grandi fautori della meritocrazia... Se si fosse realmente meritocratici si dovrebbe essere d’accordo. Ma bisogna intervenire subito. Serve un think tank composto da esperti indipendenti, liberi da vincoli partitici, che abbiano a cuore le sorti del Paese e che nel termine di tre mesi siano in grado di elaborare un progetto.
Cosa ci ha insegnato, ci sta insegnando, questa pandemia, sotto il profilo dei rapporti economici e sociali?
La lezione principale è che il modello liberista è il nemico numero uno. Fino a qualche tempo fa c’era chi ancora inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva il globalismo con la globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose molte diverse. È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto quelle piccole, la teoria secondo la quale in economia c’è sempre una mano invisibile che aggiusta tutte le cose.
C’è voluto il Papa con la Evangelii gaudium a fare presente che non è così. Oggi chi ancora sostiene le posizioni neoliberiste o è un incompetente o lo fa in cattiva fede.
La pandemia di questi giorni somiglia tanto alla “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph Schumpeter nel 1912, quella che viene considerata la componente fisiologica del capitalismo, la cui ontologia ruota attorno appunto al principio darwiniano del far morire per ricreare. Secondo l’economista austriaco, non c’è niente che si può fare per evitarlo. Il problema è che dalla dimensione economica questo principio si è spostato a livello sociale. E i più poveri, i più fragili, sono quelli che pagano. Lo vediamo in questi giorni, anche a livello sanitario, con la drammatica scelta di chi curare. Questo meccanismo va domato: la dimensione del creare deve prevalere su quella distruttiva, in modo che la prima possa compensare gli effetti della seconda. Ma sono certo che questo accadrà, perché la gente sta aprendo gli occhi.
Vede, bisogna distinguere sempre fra capitalismo ed economia di mercato. Dire che bisogna accettare il primo per salvare il secondo è una grande falsità. Dovremmo cambiare anche i libri di economia in uso all’università, che finora hanno insegnato questo. Poi naturalmente occorre continuare a lavorare anche sull’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, che del resto è già entrata in crisi da tempo...
Didattica a distanza, smart working, telelavoro, e-commerce: meno tempo sprecato, meno inquinamento, maggiore efficienza. Sarà davvero questa l’eredità positiva che il virus lascerà al mondo o fatalmente si tornerà indietro?
Se non fosse accaduto quello che è accaduto ci sarebbero voluti anni per convincerci ad andare in questa direzione. Ora, se non altro, possiamo dire che se dopo l’emergenza un’azienda non si adatta allo smart working o al telelavoro la colpa è solo sua: la tecnologia, come si è visto, c’è e funziona senza particolari problemi. Purtroppo anche qui è ben presente la mentalità di cui si parlava prima, quella della rendita di posizione, del timore di usare criteri di valutazione diversi. Una trasformazione del genere farà cambiare anche i meccanismi di contrattazione collettiva e le relazioni industriali. Anche il mondo sindacale potrebbe venirne rinvigorito, a patto che i suoi esponenti ne siano all’altezza. Si dovrà essere pagati non in base al tempo di lavoro, ma in base ai progetti, imparare a valutare l’outcome, non l’output, il risultato finale, non il mero prodotto quotidiano.
Al momento comunque rimangono alcune note dolenti. O quanto meno alcune criticità. A suo parere come si sta comportando l’Europa? È davvero a un bivio, come osservano in molti? Come ne uscirà?
Ne uscirà rafforzata. Anche i Paesi più ricchi della comunità si renderanno conto che occorre riscrivere i trattati, da quello di Maastricht a quello di Dublino. Di fronte a situazioni come quelle che stiamo vivendo, occorre prendere coscienza che non ci si può fermare all’unione monetaria ma occorre andare avanti. Torna anche qui il concetto di vulnerabilità: a un certo punto l’Europa si è sentita forte, meno fragile. Ma rimane al momento estremamente vulnerabile. Credo però, come già sta accadendo in questi giorni, che gli antieuropeisti e i sovranisti, inevitabilmente, verranno messi a tacere. Almeno per qualche tempo. I nazionalisti pretendono di essere interpreti del bene della nazione e degli interessi del popolo. La realtà ci dice invece che la salvezza è nella cooperazione.
Questo a livello europeo. In scala mondiale alcuni dei paesi più influenti o emergenti sono guidati però da leader che nel passato si sono dimostrati un po’ refrattari all’idea della cooperazione.
In effetti, a livello mondiale sono un po’ meno ottimista. La colpa anche qui è tutta occidentale. Siamo noi che abbiamo permesso che certi stati diventassero dei giganti economici, potenti ma fondati su linee di sviluppo così lontane da quelle proprie delle nostre democrazie e soprattutto così noncuranti dei diritti umani... Bisogna cambiare registro. E per questo occorre un’Europa forte. Le potenzialità per primeggiare ci sono, ci sarebbero tutte. Eppure continuiamo ad azzannarci fra noi, a insistere su politiche di austerità che tra l’altro non hanno alcun vantaggio scientificamente fondato.
Quanto l’economia civile, l’economia verde, la microeconomia possono realmente costituire un’occasione concreta di sviluppo?
L’economia civile è un paradigma teorico che viene rifiutato forse anche perché nasce in ambienti cattolici. Le sue caratteristiche sono semplici: non esclude nessuno dal mercato; afferma che il fine dell’agire economico è il bene comune, non il bene totale; afferma che l’ordine sociale è il frutto dell’interazione fra Stato, mercato e società civile; non accetta il principio del “Noma”, dei Non-overlapping magisteria (la teoria secondo cui scienza e religione avrebbero aree di indagine diverse e non sovrapponibili, ndr). Quest’ultima è una teoria antica. Se ne può trovare origine sin dal 1829, quando Richard Whatley, arcivescovo anglicano e professore di economia a Oxford, affermava che l’economia è una scienza neutrale che deve essere separata dall’etica e dalla politica. Un concetto antico ma assolutamente inaccettabile.
Chi a suo parere può assumere la leadership nel guidare questi processi innovativi?
Questo è un falso problema. È l’uso che dà il metodo, secondo l’epistemologia: è una delle poche affermazioni di Kant sulle quali sono d’accordo. Prima di cercare il leader devi creare le coscienze. A quel punto il leader verrà fuori. Bisogna che la gente cambi, come dire, il mindset. Fece lo stesso anche Gesù, in fondo, affidandosi agli analfabeti, Pietro per primo, ed esortandoli ad andare in giro a convincere gli altri. Quando nelle persone inietti il desiderio del cambiamento, si è già a buon punto.
Nel “nuovo mondo” del dopovirus il nemico numero uno sarà il liberismo. E insieme ad esso, almeno in Italia, la burocrazia, l’ostinazione nel rifiutare il principio di sussidiarietà, la resistenza alle opportunità che la tecnologia ha dimostrato di poter fornire. Nonostante questo compito impegnativo all’orizzonte, secondo Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, il futuro comunque sarà migliore del passato. L’Europa, per esempio, sarà più forte e i sovranismi, nell’immediato, saranno costretti ad arretrare. Perché tutto questo accada, però, occorrono iniziative tempestive, coraggiose e lungimiranti. In Italia, per esempio, servirebbe un think tank, un gruppo di esperti politicamente indipendenti e desiderosi di dare una mano al loro paese, in grado di elaborare nel termine di poche settimane un vasto progetto con cui ripartire, quando si avvierà finalmente la famosa “fase 2”.
Professor Zamagni, prima di tutto mi permetta una domanda ineludibile: lei è favorevole alla riapertura in Italia, in tempi brevi, delle attività produttive, anche correndo qualche rischio, o preferisce attendere il via libera degli scienziati?
Il punto è delicato e richiede una risposta articolata. Circola uno studio recente realizzato da un team di esperti dell’Università di Alicante, istituzione piuttosto attendibile, secondo il quale in Italia e in Spagna il 24 aprile sarà la data di un deciso cambio di rotta, in positivo, dell’epidemia. Se questo è vero ha un senso riaprire. Altri studi però mostrano scenari diversi. Ci sono pareri discordanti anche a livello scientifico: questo va detto. I police makers, i governanti, sono costretti a basarsi su questi dati, che non sono concordi. Purtroppo, negli anni passati, quando era possibile farlo, gli istituti scientifici non sono stati messi nella condizione di effettuare studi che adesso sarebbero preziosi. Bisogna dire con chiarezza, però, che non si muore solo di virus: se entro due mesi la situazione non si risolvesse, si potrebbe cominciare a morire anche per denutrizione, per cattiva alimentazione, per insufficiente assistenza sanitaria.
I modi per riaprire gradualmente ci sono. Occorre iniziare con le attività che producono valore aggiunto: le partite di calcio, tanto per intendersi, non sono fra queste. Fino ad ora, durante questa crisi, abbiamo solo redistribuito valore, senza produrlo. È chiaro che così non possiamo reggere.
E qui devo dire che le autorità italiane non hanno mostrato di voler valorizzare i tanti organismi del cosiddetto “terzo settore” che potrebbero fare un mondo di bene. Ho sottoscritto, assieme ad altri, un appello per avviare il servizio civile universale. Ci sono 80.000 giovani che in base agli ultimi bandi sono pronti a lavorare gratuitamente per un anno. Lo stesso vale per molte fondazioni sanitarie. Sarebbe un vero e proprio esercito pronto a scendere in campo. Parliamo di circa 360 mila organizzazioni. Il problema è che ci sono alcuni settori che sono contrari al principio di sussidiarietà. C’è troppo dogmatismo e poca cultura. Prendiamo il tema della fragilità e della vulnerabilità, di cui si parla molto in questi giorni. Sfugge una distinzione fra queste due categorie. Noi in questi giorni siamo intervenuti a favore dei più fragili, di chi si trova in condizione di bisogno. Ed era giusto farlo. Ma la vulnerabilità è la condizione di chi, con una percentuale di probabilità superiore al 50 per cento, entro un determinato lasso di tempo potrebbe trovarsi fra quelli che oggi vengono definiti fragili.
In questi giorni abbiamo sentito molti pareri, anche diversi, in merito agli effetti che il lockdown avrà sull’economia italiana e su quella mondiale. Si può dire ormai, almeno a grandi linee, quali saranno le principali emergenze che si dovranno affrontare nell’immediato?
In primo luogo bisogna passare dal Welfare State alla Welfare Society: ammettere anzitutto che la salute non è un bene privato ma pubblico. Questo virus ce lo sta dimostrando chiaramente: se io mi ammalo finisco con il fare ammalare anche gli altri. Diventa un problema comune. Poi occorre passare dal modello della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” alla “convergenza scuola-lavoro”, perché i due mondi non sono alternativi. Nei progetti educativi bisogna introdurre il termine “conazione” (conoscenza e azione). Il sapere va usato in senso trasformativo. Oggi le imprese hanno fame di conoscenza eppure non riescono a impiegare chi la possiede. Naturalmente ciò comporta riscrivere l’architettura filosofica che è alla base della scuola. È lo stesso concetto attorno al quale ruota il progetto educativo che il Papa ha inteso promuovere e che verrà rilanciato nei prossimi mesi.
Un altro punto fondamentale è quello della deburocratizzazione. Nessuno ha l’onestà di dire che la burocrazia c’è per colpa di tutti i partiti politici, e sottolineo tutti, che l’hanno creata a colpi di leggi a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi (il miracolo economico precedente si è potuto verificare proprio in assenza di questo genere di ostacoli). La burocrazia la si tiene in vita in virtù di quella che viene definita la rentseeking: non è altro che uno strumento per mantenere o estrarre rendita. Ecco, bisogna far partire una lotta senza quartiere contro le posizioni di rendita che si annidano nella burocrazia. Anche perché per mantenere il burocrate, per giustificare il suo stipendio, l’unico modo è fargli produrre carte su carte, in un processo autorigenerativo.
Altro punto fondamentale è quello del tasso di imprenditorialità, che in Italia è calato molto: muoiono molte più imprese di quante ne nascano, e quando dicono “muoiono” mi riferisco anche a quelle che passano di mano ad aziende francesi o tedesche pur mantenendo il marchio formalmente invariato. C’è differenza fra imprenditorialità e managerialità. In Italia ci sono tanti bravissimi manager, abbiamo ottime e numerose business school. Il problema è che mentre il manager ha bisogno di tecnica, l’imprenditore ha bisogno di cultura, di alta cultura. E qui le nostre università hanno delle colpe, sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Infine c’è la questione della “tassazione promozionale”, quella che gli inglesi definiscono Optimal taxation theory: le tasse le deve pagare soprattutto chi ha rendita, non chi produce valore. Se questo facesse parte di un programma elettorale scommetto che la gente lo voterebbe in massa. Mi piacerebbe sapere cosa hanno da dire su questo punto i grandi fautori della meritocrazia... Se si fosse realmente meritocratici si dovrebbe essere d’accordo. Ma bisogna intervenire subito. Serve un think tank composto da esperti indipendenti, liberi da vincoli partitici, che abbiano a cuore le sorti del Paese e che nel termine di tre mesi siano in grado di elaborare un progetto.
Cosa ci ha insegnato, ci sta insegnando, questa pandemia, sotto il profilo dei rapporti economici e sociali?
La lezione principale è che il modello liberista è il nemico numero uno. Fino a qualche tempo fa c’era chi ancora inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva il globalismo con la globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose molte diverse. È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto quelle piccole, la teoria secondo la quale in economia c’è sempre una mano invisibile che aggiusta tutte le cose.
C’è voluto il Papa con la Evangelii gaudium a fare presente che non è così. Oggi chi ancora sostiene le posizioni neoliberiste o è un incompetente o lo fa in cattiva fede.
La pandemia di questi giorni somiglia tanto alla “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph Schumpeter nel 1912, quella che viene considerata la componente fisiologica del capitalismo, la cui ontologia ruota attorno appunto al principio darwiniano del far morire per ricreare. Secondo l’economista austriaco, non c’è niente che si può fare per evitarlo. Il problema è che dalla dimensione economica questo principio si è spostato a livello sociale. E i più poveri, i più fragili, sono quelli che pagano. Lo vediamo in questi giorni, anche a livello sanitario, con la drammatica scelta di chi curare. Questo meccanismo va domato: la dimensione del creare deve prevalere su quella distruttiva, in modo che la prima possa compensare gli effetti della seconda. Ma sono certo che questo accadrà, perché la gente sta aprendo gli occhi.
Vede, bisogna distinguere sempre fra capitalismo ed economia di mercato. Dire che bisogna accettare il primo per salvare il secondo è una grande falsità. Dovremmo cambiare anche i libri di economia in uso all’università, che finora hanno insegnato questo. Poi naturalmente occorre continuare a lavorare anche sull’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, che del resto è già entrata in crisi da tempo...
Didattica a distanza, smart working, telelavoro, e-commerce: meno tempo sprecato, meno inquinamento, maggiore efficienza. Sarà davvero questa l’eredità positiva che il virus lascerà al mondo o fatalmente si tornerà indietro?
Se non fosse accaduto quello che è accaduto ci sarebbero voluti anni per convincerci ad andare in questa direzione. Ora, se non altro, possiamo dire che se dopo l’emergenza un’azienda non si adatta allo smart working o al telelavoro la colpa è solo sua: la tecnologia, come si è visto, c’è e funziona senza particolari problemi. Purtroppo anche qui è ben presente la mentalità di cui si parlava prima, quella della rendita di posizione, del timore di usare criteri di valutazione diversi. Una trasformazione del genere farà cambiare anche i meccanismi di contrattazione collettiva e le relazioni industriali. Anche il mondo sindacale potrebbe venirne rinvigorito, a patto che i suoi esponenti ne siano all’altezza. Si dovrà essere pagati non in base al tempo di lavoro, ma in base ai progetti, imparare a valutare l’outcome, non l’output, il risultato finale, non il mero prodotto quotidiano.
Al momento comunque rimangono alcune note dolenti. O quanto meno alcune criticità. A suo parere come si sta comportando l’Europa? È davvero a un bivio, come osservano in molti? Come ne uscirà?
Ne uscirà rafforzata. Anche i Paesi più ricchi della comunità si renderanno conto che occorre riscrivere i trattati, da quello di Maastricht a quello di Dublino. Di fronte a situazioni come quelle che stiamo vivendo, occorre prendere coscienza che non ci si può fermare all’unione monetaria ma occorre andare avanti. Torna anche qui il concetto di vulnerabilità: a un certo punto l’Europa si è sentita forte, meno fragile. Ma rimane al momento estremamente vulnerabile. Credo però, come già sta accadendo in questi giorni, che gli antieuropeisti e i sovranisti, inevitabilmente, verranno messi a tacere. Almeno per qualche tempo. I nazionalisti pretendono di essere interpreti del bene della nazione e degli interessi del popolo. La realtà ci dice invece che la salvezza è nella cooperazione.
Questo a livello europeo. In scala mondiale alcuni dei paesi più influenti o emergenti sono guidati però da leader che nel passato si sono dimostrati un po’ refrattari all’idea della cooperazione.
In effetti, a livello mondiale sono un po’ meno ottimista. La colpa anche qui è tutta occidentale. Siamo noi che abbiamo permesso che certi stati diventassero dei giganti economici, potenti ma fondati su linee di sviluppo così lontane da quelle proprie delle nostre democrazie e soprattutto così noncuranti dei diritti umani... Bisogna cambiare registro. E per questo occorre un’Europa forte. Le potenzialità per primeggiare ci sono, ci sarebbero tutte. Eppure continuiamo ad azzannarci fra noi, a insistere su politiche di austerità che tra l’altro non hanno alcun vantaggio scientificamente fondato.
Quanto l’economia civile, l’economia verde, la microeconomia possono realmente costituire un’occasione concreta di sviluppo?
L’economia civile è un paradigma teorico che viene rifiutato forse anche perché nasce in ambienti cattolici. Le sue caratteristiche sono semplici: non esclude nessuno dal mercato; afferma che il fine dell’agire economico è il bene comune, non il bene totale; afferma che l’ordine sociale è il frutto dell’interazione fra Stato, mercato e società civile; non accetta il principio del “Noma”, dei Non-overlapping magisteria (la teoria secondo cui scienza e religione avrebbero aree di indagine diverse e non sovrapponibili, ndr). Quest’ultima è una teoria antica. Se ne può trovare origine sin dal 1829, quando Richard Whatley, arcivescovo anglicano e professore di economia a Oxford, affermava che l’economia è una scienza neutrale che deve essere separata dall’etica e dalla politica. Un concetto antico ma assolutamente inaccettabile.
Chi a suo parere può assumere la leadership nel guidare questi processi innovativi?
Questo è un falso problema. È l’uso che dà il metodo, secondo l’epistemologia: è una delle poche affermazioni di Kant sulle quali sono d’accordo. Prima di cercare il leader devi creare le coscienze. A quel punto il leader verrà fuori. Bisogna che la gente cambi, come dire, il mindset. Fece lo stesso anche Gesù, in fondo, affidandosi agli analfabeti, Pietro per primo, ed esortandoli ad andare in giro a convincere gli altri. Quando nelle persone inietti il desiderio del cambiamento, si è già a buon punto.
Con la risposta all’ultima domanda Zamagni evidenzia un punto metodologico rilevante. Non conta ora individuare il leader, ma il metodo e i soggetti del cambiamento. Aggiungerei ai vari soggetti che a suo tempo individuai un punto. Forse il passaggio epocale è anche un passaggio generazionale. Stanno riemergendo valori e discorsi portati avanti da ultrasessantenni e impulsi e stimoli al fare di giovani infra quarantenni. Anche a fini politico-elettorali, una alleanza tra nonni e nipoti, non potrebbe convincere almeno un terzo dei baby boomer al cambiamento?