Leggo le polemiche sollevate dall’articolo del professor Panebianco sul “Corriere della Sera” e mi preoccupa lo scontro frontale che dimentica i torti degli uni e degli altri.
In un mio precedente scritto su “Rinascita popolare” ho criticato la supponenza di una Italia e di una Europa che, illusi della propria superiorità tecnologica ed economica, si sono fatte trovare totalmente impreparate di fronte a una epidemia: eppure, dicevo, gli allarmi erano stati lanciati per tempo dalla OMS (ma si sa, l'Organizzazione mondiale della sanità non parla a noi ma a quei poveracci del Terzo Mondo…). Ridicole e incaute sembrano oggi le dichiarazioni di fine gennaio-inizio febbraio dello stesso premier Conte e di alcuni illustri studiosi: siamo preparatissimi, rischio zero…
Così, a differenza dell’antico Egitto di biblica memoria all’arrivo della carestia ogni sette anni, i nostri magazzini erano vuoti. E non vorrei far inorridire Panebianco citando un antico consiglio dei sapienti musulmani dell’Università Al Azhar del Cairo in vista di possibili contagi : “Gli anziani tra gli ulema (sapienti religiosi) sono unanimi riguardo a quanto segue: che qualcosa di imminente va considerato come se fosse già reale; se una cosa somiglia ad un’altra, si prendono le regole di quest’ultima”.
I nostri magazzini erano invece vuoti di dispositivi utili a contenere e affrontare la malattia per due cause innanzitutto (a mio parere), una culturale e l’altra economica: l’arroganza di pensare di non averne bisogno, e una impostazione ideologica sugli aiuti di Stato. Così si sono persi due mesi. Poi sentiamo l’ultraliberista Trump che ordina a General Motors che cosa deve produrre in tempo di “guerra”.
Mi pare che le critiche del professor Panebianco siano in buona parte ideologiche. È evidente che se non avessimo delocalizzato tutto, comprese quelle produzioni indispensabili nell’emergenza, per un puro motivo di convenienza economica, probabilmente patiremmo meno l’impatto con una epidemia che ha costretto a chiudere quasi ogni cosa e che farà fatica a riaprire se non forniremo a chi deve lavorare le protezioni necessarie . Anche Panebianco dovrebbe convenire che ci sono, a mio avviso, prodotti di cui bisogna avere sufficienti scorte, non affidandoci al solo mercato, ma producendoli con “aiuti di Stato” necessari a far sì che le aziende non li producano in perdita, in mancanza di domanda. Inoltre, mi pare che ci sia stata una globalizzazione basata su alcune economie drogate, come in parte quella cinese e non solo : bassi salari, nessuna tutela sindacale, nessuna tutela ambientale, sfruttamento dei lavoratori. Per studio e passione conosco un po’ le economie dei Paesi del Sud del Mediterraneo e pochi anni fa, parlando con il direttore del quotidiano economico di Casablanca, “L’Economiste”, della situazione del Marocco, mi faceva notare che il Paese stava patendo una crisi in alcuni settori industriali dovuti a delocalizzazioni (anche lì!): industrie europee della plastica e del tessile che si erano localizzate in Marocco per i bassi costi del lavoro ora si spostavano in Senegal, dove i salari erano ancora più bassi. Così l’industria della pesca emigrava verso le acque della Mauritania, Paese nel quale sono stato e ho potuto verificare come fosse effettivamente vero: i pescatori mauritani erano in crisi perché un accordo fra l’Unione europea e la Mauritania (purtroppo, si diceva in loco, con qualche agevolazione ministeriale ben oliata…) aveva concesso alle flotte pescherecci europee, molto più attrezzate, generose licenze di pesca.
Per contro, non condivido del tutto i laudator temporis acti, tendenza che Orazio attribuisce agli anziani, di cui ormai posso dire anagraficamente di far parte anche io, considerandola uno dei tanti malanni da cui è afflitta l’età senile.
Non è vero che nella cosiddetta Prima Repubblica tutto andasse bene, soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Si sono dissipate ricchezze in sprechi pubblici, sprechi che non possono essere mascherati dietro teorie economiche . Erano sprechi e ruberie. E, soprattutto al Sud, ma non solo, non si è sviluppata una economia virtuosa, mentre si accumulavano dipendenti nella pubblica amministrazione. Il problema della burocrazia italiana è poi reale, un problema annoso se un grande giornalista come Alfredo Frassati denunciava sulla Stampa all’inizio del Novecento che “in Italia l’amministrazione si svolge troppo lentamente nelle spire della burocrazia”. Non voglio dilungarmi troppo. Concludo dicendo che anche il professor Panebianco non può negare come in questi ultimi anni in Italia alcuni territori si sono intasati. Basta passare sulla tangenziale di Milano ogni mattina o sul raccordo anulare di Roma. E lo sono diventati non solo per motivi di irresistibile convenienza economica, ma per incapacità di pianificare territorialmente e per l’interesse dei manager o dei politici a stare in aree ristrette dove è possibile far parte di quelle lobby.
Una sana amministrazione deve favorire che il Paese si sviluppi armoniosamente, anche attirando capitali stranieri in aree diverse e delocalizzando uffici pubblici (lo fa la Francia…): è proprio degli Stati sottosviluppati avere tutto concentrato in uno o due megalopoli.
In un mio precedente scritto su “Rinascita popolare” ho criticato la supponenza di una Italia e di una Europa che, illusi della propria superiorità tecnologica ed economica, si sono fatte trovare totalmente impreparate di fronte a una epidemia: eppure, dicevo, gli allarmi erano stati lanciati per tempo dalla OMS (ma si sa, l'Organizzazione mondiale della sanità non parla a noi ma a quei poveracci del Terzo Mondo…). Ridicole e incaute sembrano oggi le dichiarazioni di fine gennaio-inizio febbraio dello stesso premier Conte e di alcuni illustri studiosi: siamo preparatissimi, rischio zero…
Così, a differenza dell’antico Egitto di biblica memoria all’arrivo della carestia ogni sette anni, i nostri magazzini erano vuoti. E non vorrei far inorridire Panebianco citando un antico consiglio dei sapienti musulmani dell’Università Al Azhar del Cairo in vista di possibili contagi : “Gli anziani tra gli ulema (sapienti religiosi) sono unanimi riguardo a quanto segue: che qualcosa di imminente va considerato come se fosse già reale; se una cosa somiglia ad un’altra, si prendono le regole di quest’ultima”.
I nostri magazzini erano invece vuoti di dispositivi utili a contenere e affrontare la malattia per due cause innanzitutto (a mio parere), una culturale e l’altra economica: l’arroganza di pensare di non averne bisogno, e una impostazione ideologica sugli aiuti di Stato. Così si sono persi due mesi. Poi sentiamo l’ultraliberista Trump che ordina a General Motors che cosa deve produrre in tempo di “guerra”.
Mi pare che le critiche del professor Panebianco siano in buona parte ideologiche. È evidente che se non avessimo delocalizzato tutto, comprese quelle produzioni indispensabili nell’emergenza, per un puro motivo di convenienza economica, probabilmente patiremmo meno l’impatto con una epidemia che ha costretto a chiudere quasi ogni cosa e che farà fatica a riaprire se non forniremo a chi deve lavorare le protezioni necessarie . Anche Panebianco dovrebbe convenire che ci sono, a mio avviso, prodotti di cui bisogna avere sufficienti scorte, non affidandoci al solo mercato, ma producendoli con “aiuti di Stato” necessari a far sì che le aziende non li producano in perdita, in mancanza di domanda. Inoltre, mi pare che ci sia stata una globalizzazione basata su alcune economie drogate, come in parte quella cinese e non solo : bassi salari, nessuna tutela sindacale, nessuna tutela ambientale, sfruttamento dei lavoratori. Per studio e passione conosco un po’ le economie dei Paesi del Sud del Mediterraneo e pochi anni fa, parlando con il direttore del quotidiano economico di Casablanca, “L’Economiste”, della situazione del Marocco, mi faceva notare che il Paese stava patendo una crisi in alcuni settori industriali dovuti a delocalizzazioni (anche lì!): industrie europee della plastica e del tessile che si erano localizzate in Marocco per i bassi costi del lavoro ora si spostavano in Senegal, dove i salari erano ancora più bassi. Così l’industria della pesca emigrava verso le acque della Mauritania, Paese nel quale sono stato e ho potuto verificare come fosse effettivamente vero: i pescatori mauritani erano in crisi perché un accordo fra l’Unione europea e la Mauritania (purtroppo, si diceva in loco, con qualche agevolazione ministeriale ben oliata…) aveva concesso alle flotte pescherecci europee, molto più attrezzate, generose licenze di pesca.
Per contro, non condivido del tutto i laudator temporis acti, tendenza che Orazio attribuisce agli anziani, di cui ormai posso dire anagraficamente di far parte anche io, considerandola uno dei tanti malanni da cui è afflitta l’età senile.
Non è vero che nella cosiddetta Prima Repubblica tutto andasse bene, soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Si sono dissipate ricchezze in sprechi pubblici, sprechi che non possono essere mascherati dietro teorie economiche . Erano sprechi e ruberie. E, soprattutto al Sud, ma non solo, non si è sviluppata una economia virtuosa, mentre si accumulavano dipendenti nella pubblica amministrazione. Il problema della burocrazia italiana è poi reale, un problema annoso se un grande giornalista come Alfredo Frassati denunciava sulla Stampa all’inizio del Novecento che “in Italia l’amministrazione si svolge troppo lentamente nelle spire della burocrazia”. Non voglio dilungarmi troppo. Concludo dicendo che anche il professor Panebianco non può negare come in questi ultimi anni in Italia alcuni territori si sono intasati. Basta passare sulla tangenziale di Milano ogni mattina o sul raccordo anulare di Roma. E lo sono diventati non solo per motivi di irresistibile convenienza economica, ma per incapacità di pianificare territorialmente e per l’interesse dei manager o dei politici a stare in aree ristrette dove è possibile far parte di quelle lobby.
Una sana amministrazione deve favorire che il Paese si sviluppi armoniosamente, anche attirando capitali stranieri in aree diverse e delocalizzando uffici pubblici (lo fa la Francia…): è proprio degli Stati sottosviluppati avere tutto concentrato in uno o due megalopoli.
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