Anche io leggendo il “Corriere” di venerdì 27 marzo sono rimasto irritato dal commento sul pauperismo come freno per il dopo pandemia. Poi riflettendoci, ed esaminando il curriculum del professor Panebianco, le sue frequentazioni universitarie italiane e americane, ho valutato che si tratti di uno sfogo “laicista” di chi non è in grado di adeguare i propri valori ai cambiamenti di paradigma che si profilano dopo la pandemia e quindi, a fini autorassicuratori, cerchi sia un “capro espiatorio” sia il recupero di vecchie parole obsolete “demonizzazione del mercato e della ricchezza”, “pulsioni politiche”, “speranza nella Provvidenza”, che mi ricordano gli anatemi dei benaltristi : “fascista”, “antidemocratico”, con cui si chiudeva ogni discussione critica.
In realtà se si esaminano le parole a fondo, pauperismo nel Vocabolario Treccani è definito, oltre alla visione dei movimenti pauperisti medioevali tra cui quello dei millenaristi di Fra’ Dolcino, “la situazione economico-sociale in cui in determinati periodi larghi strati della popolazione sono colpiti dalla miseria in conseguenza di fatti economici (penuria di risorse naturali e di capitali, scarso spirito di intraprendenza, eccessiva ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza) o anche di eventi eccezionali (guerre, carestie, crisi economica) che possono suscitare gravi situazioni di depressione economica e di disoccupazione”. Presenti in varie fasi del Medioevo, hanno visto la Chiesa sopperire alla mancanza di interventi collettivi (lo Stato nazionale era inesistente). Esplose nel ‘700 in Inghilterra con la prima industrializzazione (Dickens la descrisse magistralmente), fu studiata da Tocqueville e da Marx, nonché da numerosi economisti al fine di individuare interventi correttivi. Le Chiese svolsero opera di intervento sostitutivo o integrativo per sostenere i ceti in forte difficoltà economico-sociale. Quindi il pauperismo nulla ha a che vedere con una visione da economia di puro sostentamento e neppure di “decrescita pauperistica”.
Forse equivocando, Panebianco intendeva riferirsi alla parsimonia o alla frugalità evocata da papa Francesco. Parsimonia, nello stesso vocabolario Treccani è la “giusta misura nell’uso del denaro e di altri beni e servizi, per un senso di doverosa economia o per abituale frugalità di vita”. Il principio di parsimonia ha anche un valore scientifico evocato da Galilei: “ La natura (…) non opera con l’intervento di molte cose quel che si può fare col mezzo di poche (Dialogo sopra i due Massimi Sistemi).
È contraria al lusso, “sovrabbondanza, eccesso nel modo di vivere. Sfoggio di ricchezza, tendenza a spese superflue, incontrollate per l’acquisto e l’uso di oggetti che, o per la qualità o per l’estetica, non hanno una utilità corrispondente al loro prezzo e sono volti a soddisfare la vanità più che un reale bisogno”. Come ricordava Il Genovesi nella sua Economia civile del 1765, le importazioni di mercanzie di puro lusso sono sempre una vera e reale perdita per lo Stato.
O forse il professor Panebianco confonde il consumerismo, con il consumismo. Consumismo è il fenomeno economico-sociale tipico delle società industrializzate, consistente nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo, suscitato ed esasperato dalle tecniche di vendita, le quali fanno apparire come reali bisogni fittizi, allo scopo di allargare continuamente la produzione. In Europa e poi Italia si sviluppa negli anni ’60-‘70 quando la capacità produttiva delle imprese manifatturiere americane, non colpite, come quelle europee dalle distruzioni post-belliche necessitano di nuovi mercati di sbocco, quindi nuovi consumatori, quindi nuovi bisogni indotti. Allo sciroppo di tamarindo si sostituisce la Coca-Cola, al ferro da stiro la stiratrice e l’asciugatrice, all’auto prodotta in loco il pick-up, i fuoristrada , i SUV, al libro il lettore Apple. Tutto bene: è l’innovazione tecnologica, ma…
Consumerismo è invece la corrente di pensiero che è volta un tempo a difendere gli interessi dei consumatori deboli culturalmente ed economicamente, poi a stimolarli a consumi responsabili, cioè ambientalmente sostenibili, socialmente consapevoli ove vengano violati i diritti dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo sfruttati, e forse da domani a preferire consumi parsimoniosi.
Se occorre cambiare il modello di sviluppo a fini di tutela delle risorse ambientali del pianeta, di redistribuzione dei profitti anche in funzione precauzionale verso catastrofi prossime venture, occorre sostituire – almeno per un certo, lungo periodo – all’avidità la sobrietà, all’egoismo (di nazione, di categoria, di gruppo famigliare, di narcisismo individuale) altri valori: la cooperazione, la solidarietà, la con-passione.
Aprés moi le dèluge è sempre stato lo slogan dei dittatori alla fine della carriera, dei gruppi di potere in decadenza, dei cantori di società in fase di estinzione.
Caro Panebianco, mi auguro che tu non appartenga a questa schiera.
In realtà se si esaminano le parole a fondo, pauperismo nel Vocabolario Treccani è definito, oltre alla visione dei movimenti pauperisti medioevali tra cui quello dei millenaristi di Fra’ Dolcino, “la situazione economico-sociale in cui in determinati periodi larghi strati della popolazione sono colpiti dalla miseria in conseguenza di fatti economici (penuria di risorse naturali e di capitali, scarso spirito di intraprendenza, eccessiva ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza) o anche di eventi eccezionali (guerre, carestie, crisi economica) che possono suscitare gravi situazioni di depressione economica e di disoccupazione”. Presenti in varie fasi del Medioevo, hanno visto la Chiesa sopperire alla mancanza di interventi collettivi (lo Stato nazionale era inesistente). Esplose nel ‘700 in Inghilterra con la prima industrializzazione (Dickens la descrisse magistralmente), fu studiata da Tocqueville e da Marx, nonché da numerosi economisti al fine di individuare interventi correttivi. Le Chiese svolsero opera di intervento sostitutivo o integrativo per sostenere i ceti in forte difficoltà economico-sociale. Quindi il pauperismo nulla ha a che vedere con una visione da economia di puro sostentamento e neppure di “decrescita pauperistica”.
Forse equivocando, Panebianco intendeva riferirsi alla parsimonia o alla frugalità evocata da papa Francesco. Parsimonia, nello stesso vocabolario Treccani è la “giusta misura nell’uso del denaro e di altri beni e servizi, per un senso di doverosa economia o per abituale frugalità di vita”. Il principio di parsimonia ha anche un valore scientifico evocato da Galilei: “ La natura (…) non opera con l’intervento di molte cose quel che si può fare col mezzo di poche (Dialogo sopra i due Massimi Sistemi).
È contraria al lusso, “sovrabbondanza, eccesso nel modo di vivere. Sfoggio di ricchezza, tendenza a spese superflue, incontrollate per l’acquisto e l’uso di oggetti che, o per la qualità o per l’estetica, non hanno una utilità corrispondente al loro prezzo e sono volti a soddisfare la vanità più che un reale bisogno”. Come ricordava Il Genovesi nella sua Economia civile del 1765, le importazioni di mercanzie di puro lusso sono sempre una vera e reale perdita per lo Stato.
O forse il professor Panebianco confonde il consumerismo, con il consumismo. Consumismo è il fenomeno economico-sociale tipico delle società industrializzate, consistente nell’acquisto indiscriminato di beni di consumo, suscitato ed esasperato dalle tecniche di vendita, le quali fanno apparire come reali bisogni fittizi, allo scopo di allargare continuamente la produzione. In Europa e poi Italia si sviluppa negli anni ’60-‘70 quando la capacità produttiva delle imprese manifatturiere americane, non colpite, come quelle europee dalle distruzioni post-belliche necessitano di nuovi mercati di sbocco, quindi nuovi consumatori, quindi nuovi bisogni indotti. Allo sciroppo di tamarindo si sostituisce la Coca-Cola, al ferro da stiro la stiratrice e l’asciugatrice, all’auto prodotta in loco il pick-up, i fuoristrada , i SUV, al libro il lettore Apple. Tutto bene: è l’innovazione tecnologica, ma…
Consumerismo è invece la corrente di pensiero che è volta un tempo a difendere gli interessi dei consumatori deboli culturalmente ed economicamente, poi a stimolarli a consumi responsabili, cioè ambientalmente sostenibili, socialmente consapevoli ove vengano violati i diritti dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo sfruttati, e forse da domani a preferire consumi parsimoniosi.
Se occorre cambiare il modello di sviluppo a fini di tutela delle risorse ambientali del pianeta, di redistribuzione dei profitti anche in funzione precauzionale verso catastrofi prossime venture, occorre sostituire – almeno per un certo, lungo periodo – all’avidità la sobrietà, all’egoismo (di nazione, di categoria, di gruppo famigliare, di narcisismo individuale) altri valori: la cooperazione, la solidarietà, la con-passione.
Aprés moi le dèluge è sempre stato lo slogan dei dittatori alla fine della carriera, dei gruppi di potere in decadenza, dei cantori di società in fase di estinzione.
Caro Panebianco, mi auguro che tu non appartenga a questa schiera.
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