Il professor Angelo Panebianco, sul “Corriere della Sera” di venerdì 27 marzo, attribuisce al “cattolicesimo politico” (almeno a una sua parte) di fronte all’emergenza coronavirus una certa “vocazione pauperista” la quale si nutrirebbe, a suo dire, di ostilità nei confronti del mercato e dei produttori di ricchezza. Secondo l’autorevole editorialista, una parte dei cattolici sarebbero capaci di attribuire alla ricchezza “la responsabilità, anzi la colpa, dell’alto prezzo che stanno pagando la Lombardia e le altre aree ricche (ossia produttive) del Paese”. In realtà conosciamo le (possibili) ragioni del boom di contagi al Nord: le Regioni finora più colpite da un virus che non conosce corsie preferenziali, sono anche le più aperte agli scambi con il resto del mondo.
Confesso di aver pensato al mio amico Stefano Zamagni, che sul “Corriere della Sera” di qualche giorno fa lamentava lo scarso coinvolgimento del Terzo Settore (da parte del Governo) nella gestione dell’emergenza, a tutti i livelli. Si tratta di un cattolicesimo aperto, plurale, “orientato al prossimo”, che trova la sua migliore espressione nell’economia civile e nel volontariato. La stessa edizione del Financial Times che ha ospitato un pregevole intervento di Mario Draghi, sottolineava come i modelli economici “social responsibility oriented”, che contemplano una posizione di equilibrio tra Stato e mercato, sono quelli che oggi consentono di interpretare meglio l’evoluzione economica dell’epidemia. Dove sarebbe l’ostilità nei confronti del mercato?
Come non pensare, da questo punto di vista, all’evoluzione politica dell’Europa. Alcuni giorni fa si è celebrato (seppur in forma virtuale) l’anniversario della firma dei Patti di Roma (25 marzo 1957). Il nucleo originario dell’Europa, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nacque proprio per affrontare quella che allora era un’emergenza: porre fine alle guerre secolari tra Francia e Germania. Questo dovrebbe essere il senso profondo dell’Unione Europea: mettere insieme più Paesi, tutti piccoli, per avere una risposta di scala maggiore a problemi globali. Ma questa capacità sembra essersi smarrita. Di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo (terrorismo, migrazioni, epidemie) l’intervento dell’Unione si è dimostrato costantemente al di sotto delle sue potenzialità.
Il vertice europeo del 26 marzo scorso lo mostra in modo evidente e drammatico, con le divisioni tra Stati sull’applicazione degli Eurobond. Quale emergenza più grande del coronavirus vogliamo aspettare per mettere mano a una riforma radicale dei processi con cui funziona l’Europa? Per avere, in buona sostanza, un nuovo “Piano Marshall” a guida europea? Per accompagnare la politica monetaria della Banca Centrale Europea (il nuovo QE) con una politica fiscale comune?
E’ possibile che, nei prossimi mesi, anche la competizione elettorale nel nostro Paese cambierà profondamente. Il rinvio del referendum sul taglio del numero dei parlamentari (a data da destinarsi) potrebbe essere l’inizio di un calendario nuovo e di un tempo diverso. Partiti e leader saranno giudicati da come si saranno comportati di fronte all’attuale emergenza e da ciò che sapranno dire su come fronteggiare quelle che ci riserverà il futuro. Serviranno meno chiacchiere e più progetti, meno promesse e più impegni: dunque una vera e propria riconversione, anche per il “cattolicesimo politico” italiano.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Confesso di aver pensato al mio amico Stefano Zamagni, che sul “Corriere della Sera” di qualche giorno fa lamentava lo scarso coinvolgimento del Terzo Settore (da parte del Governo) nella gestione dell’emergenza, a tutti i livelli. Si tratta di un cattolicesimo aperto, plurale, “orientato al prossimo”, che trova la sua migliore espressione nell’economia civile e nel volontariato. La stessa edizione del Financial Times che ha ospitato un pregevole intervento di Mario Draghi, sottolineava come i modelli economici “social responsibility oriented”, che contemplano una posizione di equilibrio tra Stato e mercato, sono quelli che oggi consentono di interpretare meglio l’evoluzione economica dell’epidemia. Dove sarebbe l’ostilità nei confronti del mercato?
Come non pensare, da questo punto di vista, all’evoluzione politica dell’Europa. Alcuni giorni fa si è celebrato (seppur in forma virtuale) l’anniversario della firma dei Patti di Roma (25 marzo 1957). Il nucleo originario dell’Europa, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nacque proprio per affrontare quella che allora era un’emergenza: porre fine alle guerre secolari tra Francia e Germania. Questo dovrebbe essere il senso profondo dell’Unione Europea: mettere insieme più Paesi, tutti piccoli, per avere una risposta di scala maggiore a problemi globali. Ma questa capacità sembra essersi smarrita. Di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo (terrorismo, migrazioni, epidemie) l’intervento dell’Unione si è dimostrato costantemente al di sotto delle sue potenzialità.
Il vertice europeo del 26 marzo scorso lo mostra in modo evidente e drammatico, con le divisioni tra Stati sull’applicazione degli Eurobond. Quale emergenza più grande del coronavirus vogliamo aspettare per mettere mano a una riforma radicale dei processi con cui funziona l’Europa? Per avere, in buona sostanza, un nuovo “Piano Marshall” a guida europea? Per accompagnare la politica monetaria della Banca Centrale Europea (il nuovo QE) con una politica fiscale comune?
E’ possibile che, nei prossimi mesi, anche la competizione elettorale nel nostro Paese cambierà profondamente. Il rinvio del referendum sul taglio del numero dei parlamentari (a data da destinarsi) potrebbe essere l’inizio di un calendario nuovo e di un tempo diverso. Partiti e leader saranno giudicati da come si saranno comportati di fronte all’attuale emergenza e da ciò che sapranno dire su come fronteggiare quelle che ci riserverà il futuro. Serviranno meno chiacchiere e più progetti, meno promesse e più impegni: dunque una vera e propria riconversione, anche per il “cattolicesimo politico” italiano.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Occorre che il debito comune (eurobonds) venga emesso da una istituzione della UE: la Commissione europea lo è, così come la BEI. Il MES no, è istituzione intergovernativa quindi soggetta ad altre logiche in cui il potere nazionale è prevalente, se non esclusivo. E come ha detto bene Delors, ultimo presidente della Commissione degno di autorevolezza, nonchè cattolico, di quel cattolicesimo politico che tanto disturba i laicisti, “la mancanza di solidarietà (leggi di una politica economica condivisa, quindi comune) fa correre un pericolo mortale all’Unione Europea.