Nel mezzo del cammin di questo viaggio nell’Inferno della pandemia qualche amico incomincia a voler prefigurare il post-emergenza. Non essendo noi veggenti, né rabdomanti, ma semplici osservatori della storia, della società, della politica, un po’ di spirito profetico ci può aiutare. Occorre però rifuggire da tre tentazioni:
Il catastrofismo, che prende chi, in ansia per la perdita dei tradizionali punti di riferimento, culturali, psicologici, religiosi (non spirituali, ma rituali), si rifugia nell’apocalittica, ritenuta tale, descrizione di un futuro buio e tragico. È la visione tradizionale della decadenza delle società, che Jared Diamond, ci ha recentemente descritto in Crisi, peraltro richiamandosi a ben più profondi antropologi ed etologi.
Il velleitarismo, che prende chi, avendo in passato creduto di sapere tutto e quindi di interpretare la realtà meglio di altri, che la ignorano perché sono poco preparati o sono superficiali o ingenui, prefigura comportamenti collettivi da proporre/imporre alla società (massmedia) , si inventa ricette (socio-economiche), costruisce nuove istituzioni (globali) non percependo che durante la tempesta l’unica cosa da fare è abbassare le vele (mediatiche) e tenere stretta la barra del timone (individuale, famigliare, comunitaria).
Il benaltrismo, che prende chi, memore di una stagione ormai tramontata, ma che ha illuso molti di avere, sì “ perso”, ma comunque di “avere avuto ragione”, estende a dismisura il campo del proporre, del fare, nell’illusione che se non si raggiunge la città dei balocchi, si può almeno scalare l’albero della cuccagna. E così si ha la coscienza a posto e si può constatare che nulla si è realizzato, ma però “io l’avevo detto”.
Non vorrei ferire nessun lettore, ma credo sia dovere di un amico quello di mettere in guardia. Anche perché altri potrebbero, invece, sapere bene come interpretare la crisi e cosa fare, durante e dopo.
Interpretare il nuovo con i vecchi schemi : partecipazione, lotta alla mercificazione, semplificazione e così via, può essere cosa buona se si reinterpretano queste vecchie parole d’ordine, le si ricontestualizza e le si abbandona se obsolete o fuorvianti rispetto alle nuove esigenze sociali.
Partecipazione è parola d’ordine che nasce nel dopoguerra. Rodolfo Morandi scrisse Democrazia diretta e ricostruzione capitalista nel 1945 e il modello era l’autogestione, prima delle fabbriche occupate poi della autogestione titina, che per i più fu un fallimento non solo economico (non basta autoprodurre, occorre distribuire nei mercati di sbocco, all’epoca europei), ma anche sociale (coniugare il decentramento produttivo con il centralismo politico era ed è impresa storicamente mai realizzata nelle società ad economia complessa). Forse se ne potrà discutere in una economia sostenibile, ma allora…
Aziendalizzazione dei sistemi pubblici (sanità, istruzione, cultura) è parola d’ordine che emerge quando le risorse si fanno scarse e i vari governi, a partire da quello inglese della Thatcher, le concentrano sull’innovazione, sulla ricerca tecnologica, sulla formazione professionalizzante, riducendo – abbandonando per qualcuno – il finanziamento pubblico a favore dell’intervento dei finanziamenti privati che, o sono alla ricerca del profitto (assicurazioni, banche) o cercano un rinfrescamento di immagine (fondazioni, enti benefici “captive”) in un periodo in cui social e solidale “ fa figo”.
Questa visione, certamente “classica” della cultura, prefigura il rischio dell’abbandono in Europa , e in particolare in Italia, della visione umanistica della società. Ma non ha nulla a che vedere con il concetto di azienda né di mercato. Azienda è ogni organizzazione che fatta la corretta valutazione “costi-benefici” opera per un fine dichiarato, la realizzazione del profitto, cioè dell’utile economico, che poi può destinare a vari scopi: remunerare gli azionisti, distribuirlo tra i soci (mutualità), destinarlo ai consumatori (riduzione dei costi a favore di chi ne ha necessità), destinarlo ai lavoratori che partecipano alla distribuzione e al controllo (sistema della cogestione), destinarlo alla difesa dell’ambiente, oggi sempre più urgente. Non è quindi l’azienda il punto critico, ma come è gestita, come sono formati i suoi manager (responsabilità societaria e sociale), come si situa in un sistema ipercompetitivo che, sin ora, ha usato la diffusione degli scambi (la globalizzazione) quasi esclusivamente ad avvantaggiare gli scambi finanziari e chi se ne avvantaggiava, in quanto le regole dei mercati produttivi sono nazionali o areali (Europa, USA, Cina) mentre le regole dei mercati di servizi, in particolari telematici, sono inesistenti o in lenta fase di costruzione. Dieci anni fa l’Economist, nota rivista liberista, titolava profeticamente un suo inserto The evanishing tax payer, il contribuente evanescente. Chi pagherà i servizi pubblici, se tutte le imprese, pressate dalla competizione o avide di profitto a breve, scapperanno dai Paesi occidentali?
La semplificazione legislativa è un mantra che l’Italia, che si proclama patria del diritto, dal romano in poi, ma che in realtà non seppe armonizzare i vari modelli di diritto pre-unitari, savoiardo, austro-ungarico, napoletano, se non imponendo il Codice di Napoleone, come se bastasse un codice, cioè una legge, per cambiare i comportamenti sociali e giuridici. Ci pensò la burocrazia, che il recente volumetto di un servitore dello Stato, Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto descrive nei suoi vizi e nei suoi ritardi a volte voluti dal potere politico a volte necessari per interpretare testi legislativi derivanti dal pluralismo di interessi coinvolti, che bene vengono definiti scritti non nell’interesse generale, ma nella somma, o sovrapposizione di interessi particolari spesso divergenti. Da Amato in poi abbiamo copiato da altri Paesi le tecniche linguistico-legislative, le analisi di impatto sociale, le valutazioni dopo un certo periodo. Mai fatte! Perché al ceto politico è da sempre interessato l’effetto immediato, elettorale, ed ora mediatico anticipatorio. Non certo il “ bene comune” che nessuno sa cosa sia, né a chi giovi. E se giovasse agli avversari politici?
Far emergere in noi, tutti noi un po’ di spirito profetico, o quanto meno ascoltare chi quello spirito ha (vedi il recente dialogo tra De Bortoli e Rossi La ragione e il buon senso) non farebbe male. Sapendo però che i profeti hanno sempre fatto una brutta fine: da Cassandra ad alcuni profeti biblici, da Valdo a Erasmo; oppure si sono chiusi in un sereno e ostinato silenzio, come Galilei e Dossetti.
Il catastrofismo, che prende chi, in ansia per la perdita dei tradizionali punti di riferimento, culturali, psicologici, religiosi (non spirituali, ma rituali), si rifugia nell’apocalittica, ritenuta tale, descrizione di un futuro buio e tragico. È la visione tradizionale della decadenza delle società, che Jared Diamond, ci ha recentemente descritto in Crisi, peraltro richiamandosi a ben più profondi antropologi ed etologi.
Il velleitarismo, che prende chi, avendo in passato creduto di sapere tutto e quindi di interpretare la realtà meglio di altri, che la ignorano perché sono poco preparati o sono superficiali o ingenui, prefigura comportamenti collettivi da proporre/imporre alla società (massmedia) , si inventa ricette (socio-economiche), costruisce nuove istituzioni (globali) non percependo che durante la tempesta l’unica cosa da fare è abbassare le vele (mediatiche) e tenere stretta la barra del timone (individuale, famigliare, comunitaria).
Il benaltrismo, che prende chi, memore di una stagione ormai tramontata, ma che ha illuso molti di avere, sì “ perso”, ma comunque di “avere avuto ragione”, estende a dismisura il campo del proporre, del fare, nell’illusione che se non si raggiunge la città dei balocchi, si può almeno scalare l’albero della cuccagna. E così si ha la coscienza a posto e si può constatare che nulla si è realizzato, ma però “io l’avevo detto”.
Non vorrei ferire nessun lettore, ma credo sia dovere di un amico quello di mettere in guardia. Anche perché altri potrebbero, invece, sapere bene come interpretare la crisi e cosa fare, durante e dopo.
Interpretare il nuovo con i vecchi schemi : partecipazione, lotta alla mercificazione, semplificazione e così via, può essere cosa buona se si reinterpretano queste vecchie parole d’ordine, le si ricontestualizza e le si abbandona se obsolete o fuorvianti rispetto alle nuove esigenze sociali.
Partecipazione è parola d’ordine che nasce nel dopoguerra. Rodolfo Morandi scrisse Democrazia diretta e ricostruzione capitalista nel 1945 e il modello era l’autogestione, prima delle fabbriche occupate poi della autogestione titina, che per i più fu un fallimento non solo economico (non basta autoprodurre, occorre distribuire nei mercati di sbocco, all’epoca europei), ma anche sociale (coniugare il decentramento produttivo con il centralismo politico era ed è impresa storicamente mai realizzata nelle società ad economia complessa). Forse se ne potrà discutere in una economia sostenibile, ma allora…
Aziendalizzazione dei sistemi pubblici (sanità, istruzione, cultura) è parola d’ordine che emerge quando le risorse si fanno scarse e i vari governi, a partire da quello inglese della Thatcher, le concentrano sull’innovazione, sulla ricerca tecnologica, sulla formazione professionalizzante, riducendo – abbandonando per qualcuno – il finanziamento pubblico a favore dell’intervento dei finanziamenti privati che, o sono alla ricerca del profitto (assicurazioni, banche) o cercano un rinfrescamento di immagine (fondazioni, enti benefici “captive”) in un periodo in cui social e solidale “ fa figo”.
Questa visione, certamente “classica” della cultura, prefigura il rischio dell’abbandono in Europa , e in particolare in Italia, della visione umanistica della società. Ma non ha nulla a che vedere con il concetto di azienda né di mercato. Azienda è ogni organizzazione che fatta la corretta valutazione “costi-benefici” opera per un fine dichiarato, la realizzazione del profitto, cioè dell’utile economico, che poi può destinare a vari scopi: remunerare gli azionisti, distribuirlo tra i soci (mutualità), destinarlo ai consumatori (riduzione dei costi a favore di chi ne ha necessità), destinarlo ai lavoratori che partecipano alla distribuzione e al controllo (sistema della cogestione), destinarlo alla difesa dell’ambiente, oggi sempre più urgente. Non è quindi l’azienda il punto critico, ma come è gestita, come sono formati i suoi manager (responsabilità societaria e sociale), come si situa in un sistema ipercompetitivo che, sin ora, ha usato la diffusione degli scambi (la globalizzazione) quasi esclusivamente ad avvantaggiare gli scambi finanziari e chi se ne avvantaggiava, in quanto le regole dei mercati produttivi sono nazionali o areali (Europa, USA, Cina) mentre le regole dei mercati di servizi, in particolari telematici, sono inesistenti o in lenta fase di costruzione. Dieci anni fa l’Economist, nota rivista liberista, titolava profeticamente un suo inserto The evanishing tax payer, il contribuente evanescente. Chi pagherà i servizi pubblici, se tutte le imprese, pressate dalla competizione o avide di profitto a breve, scapperanno dai Paesi occidentali?
La semplificazione legislativa è un mantra che l’Italia, che si proclama patria del diritto, dal romano in poi, ma che in realtà non seppe armonizzare i vari modelli di diritto pre-unitari, savoiardo, austro-ungarico, napoletano, se non imponendo il Codice di Napoleone, come se bastasse un codice, cioè una legge, per cambiare i comportamenti sociali e giuridici. Ci pensò la burocrazia, che il recente volumetto di un servitore dello Stato, Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto descrive nei suoi vizi e nei suoi ritardi a volte voluti dal potere politico a volte necessari per interpretare testi legislativi derivanti dal pluralismo di interessi coinvolti, che bene vengono definiti scritti non nell’interesse generale, ma nella somma, o sovrapposizione di interessi particolari spesso divergenti. Da Amato in poi abbiamo copiato da altri Paesi le tecniche linguistico-legislative, le analisi di impatto sociale, le valutazioni dopo un certo periodo. Mai fatte! Perché al ceto politico è da sempre interessato l’effetto immediato, elettorale, ed ora mediatico anticipatorio. Non certo il “ bene comune” che nessuno sa cosa sia, né a chi giovi. E se giovasse agli avversari politici?
Far emergere in noi, tutti noi un po’ di spirito profetico, o quanto meno ascoltare chi quello spirito ha (vedi il recente dialogo tra De Bortoli e Rossi La ragione e il buon senso) non farebbe male. Sapendo però che i profeti hanno sempre fatto una brutta fine: da Cassandra ad alcuni profeti biblici, da Valdo a Erasmo; oppure si sono chiusi in un sereno e ostinato silenzio, come Galilei e Dossetti.
Lascia un commento