Dall’emergenza a vere riforme “umaniste”



Giuseppe Davicino    12 Marzo 2020       1

Se non ci si vuole limitare all’analisi politologica di come il clima di emergenza sferza la politica e i partiti, bisogna pensare sin d’ora a costruire una risposta, la meno inadeguata possibile, al cambio di epoca, simbolicamente segnato dalla pandemia. Lo facciamo a partire dal nostro campo riformatore, del centro e della sinistra alternativi alla destra, che appare popolato da molti personaggi, e soprattutto idee, ormai divenute da ancien régime, legate a un mondo, e a un modello di economia e di business, che all’improvviso tutti vedono esser giunto al capolinea.

Compito principale della politica è allora quello di riuscire a ricostruire una cornice interpretativa generale nella quale possano riconoscersi i più, e dunque riannodare un filo di comunicazione e di sintonia con la classe media e lavoratrice, la cui nuova condizione di frammentazione, di precarietà, di insicurezza per il futuro è puramente ignorata non solo dalle burocrazie e dalle tecnocrazie che eseguono, con disumana e distaccata freddezza, gli obiettivi definiti dalla ristrettissima élite dominante, che si prende il grosso della ricchezza prodotta nel mondo, ma anche dalla gran parte del personale politico ormai più attento ai condizionamenti dei media e dei social network che al dovere della rappresentanza.

In questo difficile momento si avverte invece il bisogno di avere nello schieramento di centrosinistra delle intelligenze, delle competenze, ma non delle nuove primedonne, bensì delle voci espressioni di mondi sociali che sono stati troppo trascurati, espressioni di nuove correnti organizzate che si reggono non solo sul carisma di un leader ma soprattutto sulla comune frequentazione di ceti sociali diversi da quelli dominanti, di analisi e di idee che ultimamente non hanno più trovato cittadinanza nel dibattito politico ed economico intriso di certezze che a lungo andare ci hanno condotto al punto critico in cui siamo, vale a dire a un passo dal baratro.

Penso sia possibile ricostruire un nuovo gruppo dirigente per l’intera coalizione riformatrice, attorno a pochi e chiari punti fermi, dai quali chiunque possa cogliere una nuova sintonia con la classe media, e con questo riuscire a erodere la terra sotto i piedi dei movimenti populisti che altrimenti troveranno nuovo vigore dal precipitare della situazione.

Il primo di questi punti è il riconoscimento che non è il coronavirus ad aver causato il crollo dell’economia. Bensì il blocco delle attività economiche per motivi sanitari si inserisce in un quadro, che a prescindere dall’epidemia, è di crisi profonda del commercio mondiale, di enormi squilibri produttivi e sociali. Ergo, sconfiggere il morbo non significa far ripartire l’economia ma, senza altri interventi di natura sistemica, solo tornare a uno stato non più sostenibile di grande e profonda recessione globale.

Vi dev’essere, in secondo luogo, una inequivocabile presa di distanza, già adesso, da quanti sostengono che l’extra-deficit del governo italiano per far fronte all’emergenza del virus debba considerarsi una “una tantum” oltre cui si debba ritornare sul sentiero della riduzione del rapporto debito/PIL per ottemperare a quel vincolo, privo di senso e stoltamente tragico del 60%, con la tagliola del fondo salva-Stati pronta a scattare non appena l’Italia proverà a rialzarsi dopo l’emergenza sanitaria. Il centrosinistra deve superare una volta per tutte la fobia del debito, se vuole ritrovare la via per politiche sociali, solidali e orientate alla crescita delle persone e delle comunità

Il terzo punto, ineludibile per una proposta politica di centrosinistra adeguata ai tempi, è quello di un pacchetto di riforme strutturali che stiano agli antipodi di quelle pseudo riforme che hanno portato l’Unione Europea negli ultimi anni a fare politiche che hanno tradito e rinnegato le ragioni per le quali essa fu fondata. Tradimento che è sintetizzato in modo impareggiabile in quel che può considerarsi il manifesto europeo dell’anti-umanesimo, scritto nel 2006 dall’ex ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa: «Nell’ Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere».

Oggi basta pensare alla grave insufficienza di posti letto in terapia intensiva dei nostri ospedali, per vedere quanto quel diaframma di protezioni sia stato attenuato. Tale operazione è perfettamente riuscita ma il paziente, la classe media europea, insieme alle stesse istituzioni europee, sono prossime al collasso.

Pertanto non appare più procrastinabile l’adozione di un pacchetto di vere riforme, espressione di un nuovo umanesimo, per servire la persona umana, non per soggiogarla all’idolo della moneta. Il tempo è adesso per una grande battaglia politica per realizzare la separazione bancaria (con cui impedire agli speculatori di vampirizzare la ricchezza prodotta con le fatiche del lavoro del 99% dell’umanità); per tornare ad avere banche centrali che monetizzano il debito pubblico in funzione del bene comune e degli obiettivi dello sviluppo sostenibile; per inserire clausole di salvaguardia nel commercio internazionale, non dazi, contro il dumping sociale, a tutela dei diritti e della sicurezza del lavoro e dell’ambiente.

Ma siamo pronti a rendere le forme e gli apparati organizzativi democratici di cui disponiamo ancora, capaci di agire in tempo utile, prima che sia troppo tardi?


1 Commento

  1. Concordo sovente con quanto scrive Giuseppe Davicino, ma in questo articolo (al di là di di alcune proposte condivisibili come quella riguardante le banche) ci sono affermazioni ed indicazioni che mi lasciano perplesso.
    In esso, le auspicate riforme “umanistiche” vengono indirizzate esclusivamente al campo riformatore del centro e della sinistra, ritenuto capace di farle proprie perché alternativo ad una destra alla quale si imputa di essere interprete di un mondo e di un modello di economia e di business che tutti ormai vedono esser giunto al capolinea. Attenzione, ad essere giunto al capolinea è quel mondo liberista e globalista che ha certo avuto tra i primi sponsor personalità intellettuali e politiche di “destra” (Friedman, Reagan, Thatcher), ma che è stato in seguito fatto proprio da uomini riconducibili al campo “progressista”e liberal mondiale (Clinton, Blair, Schroder, Delors, Gonzalez, Zapatero, Rocard, Hollande). In Italia, a mettere in opera le liberalizzazioni e a liquidare l’industria pubblica, hanno dato avvio Andreatta e Prodi, ha continuato D’Alema fino a giungere alle “lenzuolate” di Bersani. Inoltre, a teorizzare come progressista la nuova linea economica liberista, sono stati tecnici eletti nello schieramento di centro-sinistra, come Franco De Benedetti, Enrico Morando, Nicola Rossi. Oggi, a difendere queste idee e questo mondo, è soprattutto quel campo sedicente “progressista”(che ottiene il voto principalmente nei quartieri “bene”delle città) unitamente ai vertici politici, tecnici e burocratici dell’UE. Bisogna prenderne atto per restare nella realtà.
    Quanto alle politiche economiche da intraprendere e alla centralità che in esse devono avere le tematiche sociali, non dobbiamo dimenticare che l’Europa, con il 5-6% della popolazione mondiale, spende in welfare già il 50% della spesa mondiale in materia. Infine, ribadisco per l’ennesima volta che, qualunque tematica economica si affronti, non si può non prendere in considerazione l’esigenza di ridurre l’abisso che separa Nord e Sud del mondo in tema di consumi (che già oggi non sono sostenibili sul piano ambientale). Ogni politica economica “riformatrice” deve tenere conto di questi riferimenti (il costo del welfare europeo e l’appartenenza della nostra società al mondo ricco) che costituiscono limiti ad ogni fuga in avanti.

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