Francesco Pallante, docente di Diritto costituzionale all’Università di Torino, di cultura “gobettiana”, allievo di Gustavo Zagrebelsky e amico della nostra Associazione, ha pubblicato un nuovo libro dal titolo eloquente: Contro la democrazia diretta (Einaudi). Ne parla in un'ampia intervista tratta dal sito www.letture.org
Professor Pallante, lei definisce la democrazia diretta una tirannia della maggioranza, il dominio della folla: per quali ragioni?
Dobbiamo partire dalla constatazione che viviamo in società divise, nelle quali le persone esprimono valori e interessi diversi, talvolta contrastanti. La grande sfida delle costituzioni contemporanee è far convivere le istanze individuali divergenti, dare unità alla pluralità. Là dove questa sfida fallisce, si aprono le porte alla disgregazione sociale, che può degenerare in guerra civile (è la tesi di Thomas Hobbes, poi ripresa da Max Weber).
Come evitarlo? Due sono le strade. Aprire il confronto approfondito tra le varie “anime” della società alla faticosa ricerca dei punti di convergenza su cui poi impostare un discorso comune; oppure dare alla maggioranza che, di volta in volta, si viene a creare il potere di decidere per tutti, imponendo agli altri – per un tempo predeterminato, se l’ordinamento è democratico; finché riesce a mantenersi al potere, se l’ordinamento è autocratico – la propria volontà di parte. La prima strada è quella della democrazia rappresentativa, che affida ai rappresentanti il compito di trovare i punti di convergenza in esito al confronto discorsivo delle idee: è per questo che ogni parlamentare rappresenta la Nazione intera, e non solo i suoi elettori o il suo territorio.
La seconda strada è quella – tra l’altro – della democrazia diretta, che dà voce a ogni singolo consociato su ogni tema in discussione, rendendo più difficile, se non impossibile, il confronto discorsivo e favorendo la mera conta di chi sta da una parte e chi dall’altra: alla fine, quel che rileva non è il contenuto delle diverse idee, ma il numero dei sostenitori su cui ciascuna può contare per imporsi sulle altre. Insomma: si ha tirannia quando una parte della società s’impone con la forza sulle altre, anche se si tratta della forza del numero.
In che modo la democrazia diretta rischia di incarnare la fase più acuta e conclusiva della crisi istituzionale?
La storia dell’Italia repubblicana è la storia di un Paese, uscito sconfitto e distrutto dalla Seconda guerra mondiale, che diventa uno degli Stati più avanzati e prosperi al mondo. La cosa su cui riflettere è che lo diventa malgrado la società italiana sia attraversata da una faglia di rottura ideale profondissima, che riproduce pericolosamente all’interno del Paese la divisione del mondo in blocchi ideologici contrapposti. Com’è possibile? È possibile perché, sia pure dopo un avvio difficoltoso e con tensioni che rimangono nel tempo costanti e ineliminabili, la divisione viene assunta come elemento con cui fare realisticamente i conti, attraverso il confronto tra le parti avverse. Per tutta la prima fase della storia repubblicana, centro del sistema istituzionale è il Parlamento, non il governo: vale a dire la sede della discussione, non della decisione politica. Nessuno rifiuta la legge elettorale proporzionale, perché se l’obiettivo è favorire la convergenza di posizioni diverse, ciascuna posizione deve essere rappresentata per il peso sociale effettivo che ha.
Tutto cambia con la trasformazione della legge elettorale in senso maggioritario. Fin dalle elezioni del 1994, l’effetto del maggioritario è attribuire la maggioranza parlamentare a una minoranza politica. Tra il 1994 e il 2018 nessuno dei governi che si susseguono è sostenuto dal voto della maggioranza degli elettori: è il sistema elettorale che trasforma una cosa, una minoranza, nel suo opposto, la maggioranza, con una forzatura che fa venire meno l’esigenza del confronto dialogico e apre la strada alle imposizioni di parte.
Il leaderismo esasperato diventa il tratto distintivo di un sistema politico incapace di trovare un nuovo punto di equilibrio. Paradossalmente, anziché diminuire, l’instabilità aumenta a causa di maggioranze politicamente deboli, destinate a subire continui sfilacciamenti per “cambi di casacca” dettati da ragioni contingenti. Quel che conta non è costruire consenso politico intorno a un’ideale duraturo e condiviso, ma dominare il tatticismo parlamentare per realizzare effimere ambizioni personali. In questo quadro, la democrazia diretta, presentata come proposta di rottura rispetto al passato, ne è in realtà il pieno compimento, perché, “saltando” l’intermediazione parlamentare, porta alle estreme conseguenze la logica maggioritaria della conta delle posizioni personali su ogni singola questione in discussione, impedendo la costruzione di un progetto condiviso capace di tenere insieme le diversità.
Il mito della democrazia diretta viene oggi alimentato dalle nuove tecnologie, che la renderebbero, a detta dei suoi sostenitori, finalmente attuabile: è davvero così?
Il rapporto tra democrazia diretta e tecnologia è stato studiato fin dagli anni Settanta del Novecento da filosofi, politologi e giuristi come Norberto Bobbio, Giovanni Sartori e Stefano Rodotà. Ancor prima – addirittura nel 1928! – se ne era occupato il giurista tedesco Carl Schmitt, ipotizzando un mondo futuro in cui «per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura». Ebbene, tutti questi studiosi concordano nel ritenere che un sistema decisionale basato su una rete tecnologica capace di far esprimere ciascun cittadino direttamente dal salotto di casa non sarebbe affatto un sistema democratico.
La democrazia è tale se produce decisioni «politiche», cioè rivolte alla realizzazione dell’interesse generale (l’interesse della polis, da cui: «politica») individuato tramite il confronto e la discussione delle idee, e non la mera somma di tante decisioni «private» assunte a titolo individuale. Siamo sempre lì: l’accostamento di tante singole posizioni può tradursi in forza del numero, ma non è in grado di realizzare sintesi politica. Dal punto di vista della qualità democratica delle decisioni, la conta dei click nelle contemporanee società delle ICT non differisce dalla conta delle mani alzate nelle antiche società della Grecia classica.
Come afferma nel libro, l’essenza della democrazia sta nella discussione, non nella decisione, nel confronto aperto con gli altri alla ricerca di un compromesso: cosa ha minato la concezione della democrazia, oggi così diffusa?
Io credo che un ruolo decisivo lo abbia giocato l’ascesa di una visione iper-individualista delle relazioni sociali, una visione basata sull’idea, psicologicamente perversa, della «sovranità individuale». Accettare i nostri limiti, anche in rapporto agli altri, prendere atto che sono più le cose che non sappiamo di quelle che sappiamo, affidarci alle conoscenze tecniche e scientifiche di chi ha studiato, pur senza rinunciare alla vigilanza critica, sono atteggiamenti sempre meno comuni. A ciò si aggiunge il ruolo decisivo giocato dalla tecnologia informatica. Da questo punto di vista, Internet è un’enorme fonte di illusione: l’illusione di avere tutto a portata di mano, basta sapere dove cercare. E così, perché affidarsi a giornalisti, professori, medici, scienziati? Basta andare sulla Rete e cogliere direttamente, senza mediazioni (e rischi di manipolazioni), notizie, cultura, diagnosi e terapie.
In realtà, dall’analisi dei comportamenti degli utenti emerge un quadro assai differente. Il 95 per cento delle ricerche informatiche condotte ogni giorno passa per un solo motore di ricerca (Google) e quasi tutti i navigatori consultano gli stessi risultati: sulle prime tre voci si concentrano due click su tre e meno di un utente su dieci si spinge oltre la prima pagina dei risultati della ricerca. Ci illudiamo che Internet sia il regno delle opportunità. In realtà, è costruita in modo da ripeterci ossessivamente ciò di cui già siamo convinti e da metterci in relazione solo con persone che la pensano esattamente come noi. Le infinite possibilità dell’informatica si riducono alla più estrema uniformazione che si sia mai vista.
Lo stesso accade anche in ambito politico: perché dovremmo affidarci alla mediazione dei partiti quando possiamo essere noi a decidere direttamente? Chi meglio di me sa cos’è meglio per me? Maggiore è la propensione a credere di sapere tutto e a voler decidere tutto, minore è la predisposizione all’ascolto degli altri e al compromesso. Basterebbe fermarsi a riflettere un attimo per comprendere l’assurdità di questo modo di pensare. Personalmente, io non ho un’opinione, per dire, sulle tecniche necessarie alla conservazione in sicurezza dei rifiuti tossici. Ma, soprattutto, non voglio averla. Non mi interessa, voglio impiegare il mio tempo altrimenti. Sia chiaro: mi interessa moltissimo che l’ambiente sia preservato. Ma non voglio studiare, per esempio, quali siano per ogni tipo di rifiuto i fusti più idonei a evitare gli sversamenti nel lungo periodo. Non posso occuparmi approfonditamente di tutto, non ne ho le competenze e voglio avere il tempo di dedicarmi alla mia famiglia e alle mie passioni. A quali siano i fusti più idonei penseranno i rappresentanti, con il supporto della scienza: è il loro compito, il loro mestiere. Quel che vorrei, è poter scegliere una forza politica che esprime una visione del mondo vicina alla mia su tutte le questioni a mio avviso rilevanti e che sappia selezionare candidati capaci di svolgere il loro ruolo con serietà, passione e lungimiranza.
Quando e come nasce il mito della democrazia diretta?
Possiamo collocare l’origine della democrazia diretta nella Grecia dell’antichità classica (V e IV secondo a.C.). I Greci distinguevano tre forme di governo: il governo di uno solo, il governo di pochi, il governo di molti. Le tre forme potevano assumere, a seconda dei casi, veste buona o cattiva. Rispettivamente, monarchia o tirannia; aristocrazia o oligarchia; democrazia o oclocrazia. Nessuna di queste forme di governo corrispondeva a ciò che oggi noi intendiamo per democrazia, vale a dire al governo di tutti. Anche nella democratica Atene, infatti, non tutti godevano dei diritti politici. All’assemblea della cittadinanza, l’ecclesìa, erano ammessi a partecipare solo gli uomini liberi, avendo eguale diritto di prendere la parola, di votare e di accedere alle cariche pubbliche. Le donne, gli stranieri residenti e gli schiavi – vale a dire la gran parte della popolazione della città – erano esclusi. A ciò si deve aggiungere che, secondo gli storici, la partecipazione effettiva era ridotta rispetto alla platea degli aventi diritto e che un rilevante potere di indirizzo – la predisposizione delle proposte da iscrivere all’ordine del giorno – era attribuito a un organo ristretto, il Consiglio dei Cinquecento (boulé). Inoltre, già gli antichi facevano notare come di frequente la discussione venisse demagogicamente orientata dai retori: veri e propri manipolatori della folla. I limiti rispetto all’ideale democratico, così come noi lo concepiamo, non erano, insomma pochi. Ciononostante, non si può negare che ogni decisione finale spettasse in effetti all’assemblea dei cittadini riunita nella pubblica piazza e che essa esercitasse la suprema autorità sulla città.
Anche a Sparta, così come in altre città greche, l’assemblea del popolo, l’apélla, esercitava un potere significativo, ma funzionava in un contesto istituzionale e secondo regole ben diverse da quelle di Atene. A parte le decisioni sulla guerra e le alleanze, principale funzione dell’assemblea spartana – alla quale avevano diritto di partecipare tutti i cittadini maschi di età superiore ai trent’anni – era la scelta dei più importanti funzionari pubblici, gli éfori. La procedura prevedeva la nomina di coloro che, all’apparire in pubblico, ricevevano l’acclamazione più intensa. Nessuna discussione era prevista: solo una sorta di primordiale misurazione dei decibel derivanti dal clamore suscitato dai candidati. Per assicurare l’oggettività della misurazione, questa era rimessa a funzionari pubblici che operavano al chiuso di una stanza, in modo che potessero udire il vociare dell’assemblea ma non vedere i candidati che man mano le venivano mostrati. Da una parte, dunque, l’assemblea ateniese come luogo di discussione; dall’altra, l’assemblea spartana come luogo di acclamazione. Anche se nella concreta esperienza la contrapposizione tra i due modelli era meno netta di quanto si potrebbe ritenere, già l’antichità classica mostra con chiarezza l’ambivalenza di questo strumento di governo.
Norberto Bobbio affermava che «nulla uccide più la democrazia che l’eccesso di democrazia»: come è possibile ricostruire il senso diffuso di una democrazia piena e reale?
Con la frase citata, Norberto Bobbio voleva evidenziare il rischio d’instabilità cui sarebbe esposta la collettività qualora le istituzioni pubbliche funzionassero sottoponendo di continuo il popolo a decisioni che provocano divisioni e fratture sociali. Come ho già detto, il pluralismo delle società contemporanee impone l’attenta e costante ricerca di soluzioni di equilibrio, per consentire alle diverse componenti politiche, economiche e culturali di convivere pacificamente. Quel che va tenuto sotto controllo è il rischio, sotteso ma sempre reale, della dissoluzione dell’unità politica in pluralità fratricida, un rischio che è oggi realtà sull’altra sponda del Mediterraneo. Ciò rende evidente che il punto di caduta della democrazia diretta non è solo di ordine pratico, ma altresì concettuale.
Un autore che Bobbio amava molto, il giurista austriaco Hans Kelsen, sottolineava la prevalenza del momento deliberativo – cioè del dibattito – su quello decisionale. Democrazia è, anzitutto, discussione. Non scelta. Più del risultato, conta il procedimento. La decisione è, idealmente, risorsa cui ricorrere in ultima istanza, quando ogni altra soluzione rivolta alla creazione del consenso risulta non ulteriormente praticabile. Democratico è l’atteggiamento di chi si confronta apertamente con gli altri: a partire dalle proprie convinzioni, naturalmente, ma con attitudine d’animo rivolta alla ricerca di un compromesso capace di riconoscere il valore delle convinzioni altrui, di coniugare assieme la parte con il tutto.
Il filosofo statunitense John Rawls ha riformulato questa idea sostenendo che le forze sociali contrapposte devono agire mosse dal proposito di costruire un consenso che emerga dall’attenta analisi della “sovrapponibilità” delle loro posizioni. Giovanni Sartori ha ulteriormente precisato che, mentre la democrazia diretta, intendendo la «politica come guerra», innesca un gioco «a somma nulla», in cui «chi vince, vince tutto; chi perde, perde tutto», la democrazia rappresentativa, concependo la «politica come trattativa», produce invece un gioco «a somma positiva», in cui, grazie alla mediazione, tutti riescono a ottenere qualcosa.
Come già detto, la mera conta dei voti non produce decisioni democratiche, ma imposizioni di parte. Quello di cui oggi c’è bisogno è attitudine al dialogo, rispetto, empatia, curiosità verso le posizioni altrui, disponibilità a cambiare idea: tutte cose che solo la discussione parlamentare, se ben intesa, può riuscire a realizzare. Ed è ben intesa quando il fine è includere, non escludere: vale a dire, quando si discute per trovare la soluzione capace di non lasciare nessuno totalmente insoddisfatto e, di conseguenza, nessuno totalmente soddisfatto.
Professor Pallante, lei definisce la democrazia diretta una tirannia della maggioranza, il dominio della folla: per quali ragioni?
Dobbiamo partire dalla constatazione che viviamo in società divise, nelle quali le persone esprimono valori e interessi diversi, talvolta contrastanti. La grande sfida delle costituzioni contemporanee è far convivere le istanze individuali divergenti, dare unità alla pluralità. Là dove questa sfida fallisce, si aprono le porte alla disgregazione sociale, che può degenerare in guerra civile (è la tesi di Thomas Hobbes, poi ripresa da Max Weber).
Come evitarlo? Due sono le strade. Aprire il confronto approfondito tra le varie “anime” della società alla faticosa ricerca dei punti di convergenza su cui poi impostare un discorso comune; oppure dare alla maggioranza che, di volta in volta, si viene a creare il potere di decidere per tutti, imponendo agli altri – per un tempo predeterminato, se l’ordinamento è democratico; finché riesce a mantenersi al potere, se l’ordinamento è autocratico – la propria volontà di parte. La prima strada è quella della democrazia rappresentativa, che affida ai rappresentanti il compito di trovare i punti di convergenza in esito al confronto discorsivo delle idee: è per questo che ogni parlamentare rappresenta la Nazione intera, e non solo i suoi elettori o il suo territorio.
La seconda strada è quella – tra l’altro – della democrazia diretta, che dà voce a ogni singolo consociato su ogni tema in discussione, rendendo più difficile, se non impossibile, il confronto discorsivo e favorendo la mera conta di chi sta da una parte e chi dall’altra: alla fine, quel che rileva non è il contenuto delle diverse idee, ma il numero dei sostenitori su cui ciascuna può contare per imporsi sulle altre. Insomma: si ha tirannia quando una parte della società s’impone con la forza sulle altre, anche se si tratta della forza del numero.
In che modo la democrazia diretta rischia di incarnare la fase più acuta e conclusiva della crisi istituzionale?
La storia dell’Italia repubblicana è la storia di un Paese, uscito sconfitto e distrutto dalla Seconda guerra mondiale, che diventa uno degli Stati più avanzati e prosperi al mondo. La cosa su cui riflettere è che lo diventa malgrado la società italiana sia attraversata da una faglia di rottura ideale profondissima, che riproduce pericolosamente all’interno del Paese la divisione del mondo in blocchi ideologici contrapposti. Com’è possibile? È possibile perché, sia pure dopo un avvio difficoltoso e con tensioni che rimangono nel tempo costanti e ineliminabili, la divisione viene assunta come elemento con cui fare realisticamente i conti, attraverso il confronto tra le parti avverse. Per tutta la prima fase della storia repubblicana, centro del sistema istituzionale è il Parlamento, non il governo: vale a dire la sede della discussione, non della decisione politica. Nessuno rifiuta la legge elettorale proporzionale, perché se l’obiettivo è favorire la convergenza di posizioni diverse, ciascuna posizione deve essere rappresentata per il peso sociale effettivo che ha.
Tutto cambia con la trasformazione della legge elettorale in senso maggioritario. Fin dalle elezioni del 1994, l’effetto del maggioritario è attribuire la maggioranza parlamentare a una minoranza politica. Tra il 1994 e il 2018 nessuno dei governi che si susseguono è sostenuto dal voto della maggioranza degli elettori: è il sistema elettorale che trasforma una cosa, una minoranza, nel suo opposto, la maggioranza, con una forzatura che fa venire meno l’esigenza del confronto dialogico e apre la strada alle imposizioni di parte.
Il leaderismo esasperato diventa il tratto distintivo di un sistema politico incapace di trovare un nuovo punto di equilibrio. Paradossalmente, anziché diminuire, l’instabilità aumenta a causa di maggioranze politicamente deboli, destinate a subire continui sfilacciamenti per “cambi di casacca” dettati da ragioni contingenti. Quel che conta non è costruire consenso politico intorno a un’ideale duraturo e condiviso, ma dominare il tatticismo parlamentare per realizzare effimere ambizioni personali. In questo quadro, la democrazia diretta, presentata come proposta di rottura rispetto al passato, ne è in realtà il pieno compimento, perché, “saltando” l’intermediazione parlamentare, porta alle estreme conseguenze la logica maggioritaria della conta delle posizioni personali su ogni singola questione in discussione, impedendo la costruzione di un progetto condiviso capace di tenere insieme le diversità.
Il mito della democrazia diretta viene oggi alimentato dalle nuove tecnologie, che la renderebbero, a detta dei suoi sostenitori, finalmente attuabile: è davvero così?
Il rapporto tra democrazia diretta e tecnologia è stato studiato fin dagli anni Settanta del Novecento da filosofi, politologi e giuristi come Norberto Bobbio, Giovanni Sartori e Stefano Rodotà. Ancor prima – addirittura nel 1928! – se ne era occupato il giurista tedesco Carl Schmitt, ipotizzando un mondo futuro in cui «per mezzo di ingegnose invenzioni ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove occorre solo darne lettura». Ebbene, tutti questi studiosi concordano nel ritenere che un sistema decisionale basato su una rete tecnologica capace di far esprimere ciascun cittadino direttamente dal salotto di casa non sarebbe affatto un sistema democratico.
La democrazia è tale se produce decisioni «politiche», cioè rivolte alla realizzazione dell’interesse generale (l’interesse della polis, da cui: «politica») individuato tramite il confronto e la discussione delle idee, e non la mera somma di tante decisioni «private» assunte a titolo individuale. Siamo sempre lì: l’accostamento di tante singole posizioni può tradursi in forza del numero, ma non è in grado di realizzare sintesi politica. Dal punto di vista della qualità democratica delle decisioni, la conta dei click nelle contemporanee società delle ICT non differisce dalla conta delle mani alzate nelle antiche società della Grecia classica.
Come afferma nel libro, l’essenza della democrazia sta nella discussione, non nella decisione, nel confronto aperto con gli altri alla ricerca di un compromesso: cosa ha minato la concezione della democrazia, oggi così diffusa?
Io credo che un ruolo decisivo lo abbia giocato l’ascesa di una visione iper-individualista delle relazioni sociali, una visione basata sull’idea, psicologicamente perversa, della «sovranità individuale». Accettare i nostri limiti, anche in rapporto agli altri, prendere atto che sono più le cose che non sappiamo di quelle che sappiamo, affidarci alle conoscenze tecniche e scientifiche di chi ha studiato, pur senza rinunciare alla vigilanza critica, sono atteggiamenti sempre meno comuni. A ciò si aggiunge il ruolo decisivo giocato dalla tecnologia informatica. Da questo punto di vista, Internet è un’enorme fonte di illusione: l’illusione di avere tutto a portata di mano, basta sapere dove cercare. E così, perché affidarsi a giornalisti, professori, medici, scienziati? Basta andare sulla Rete e cogliere direttamente, senza mediazioni (e rischi di manipolazioni), notizie, cultura, diagnosi e terapie.
In realtà, dall’analisi dei comportamenti degli utenti emerge un quadro assai differente. Il 95 per cento delle ricerche informatiche condotte ogni giorno passa per un solo motore di ricerca (Google) e quasi tutti i navigatori consultano gli stessi risultati: sulle prime tre voci si concentrano due click su tre e meno di un utente su dieci si spinge oltre la prima pagina dei risultati della ricerca. Ci illudiamo che Internet sia il regno delle opportunità. In realtà, è costruita in modo da ripeterci ossessivamente ciò di cui già siamo convinti e da metterci in relazione solo con persone che la pensano esattamente come noi. Le infinite possibilità dell’informatica si riducono alla più estrema uniformazione che si sia mai vista.
Lo stesso accade anche in ambito politico: perché dovremmo affidarci alla mediazione dei partiti quando possiamo essere noi a decidere direttamente? Chi meglio di me sa cos’è meglio per me? Maggiore è la propensione a credere di sapere tutto e a voler decidere tutto, minore è la predisposizione all’ascolto degli altri e al compromesso. Basterebbe fermarsi a riflettere un attimo per comprendere l’assurdità di questo modo di pensare. Personalmente, io non ho un’opinione, per dire, sulle tecniche necessarie alla conservazione in sicurezza dei rifiuti tossici. Ma, soprattutto, non voglio averla. Non mi interessa, voglio impiegare il mio tempo altrimenti. Sia chiaro: mi interessa moltissimo che l’ambiente sia preservato. Ma non voglio studiare, per esempio, quali siano per ogni tipo di rifiuto i fusti più idonei a evitare gli sversamenti nel lungo periodo. Non posso occuparmi approfonditamente di tutto, non ne ho le competenze e voglio avere il tempo di dedicarmi alla mia famiglia e alle mie passioni. A quali siano i fusti più idonei penseranno i rappresentanti, con il supporto della scienza: è il loro compito, il loro mestiere. Quel che vorrei, è poter scegliere una forza politica che esprime una visione del mondo vicina alla mia su tutte le questioni a mio avviso rilevanti e che sappia selezionare candidati capaci di svolgere il loro ruolo con serietà, passione e lungimiranza.
Quando e come nasce il mito della democrazia diretta?
Possiamo collocare l’origine della democrazia diretta nella Grecia dell’antichità classica (V e IV secondo a.C.). I Greci distinguevano tre forme di governo: il governo di uno solo, il governo di pochi, il governo di molti. Le tre forme potevano assumere, a seconda dei casi, veste buona o cattiva. Rispettivamente, monarchia o tirannia; aristocrazia o oligarchia; democrazia o oclocrazia. Nessuna di queste forme di governo corrispondeva a ciò che oggi noi intendiamo per democrazia, vale a dire al governo di tutti. Anche nella democratica Atene, infatti, non tutti godevano dei diritti politici. All’assemblea della cittadinanza, l’ecclesìa, erano ammessi a partecipare solo gli uomini liberi, avendo eguale diritto di prendere la parola, di votare e di accedere alle cariche pubbliche. Le donne, gli stranieri residenti e gli schiavi – vale a dire la gran parte della popolazione della città – erano esclusi. A ciò si deve aggiungere che, secondo gli storici, la partecipazione effettiva era ridotta rispetto alla platea degli aventi diritto e che un rilevante potere di indirizzo – la predisposizione delle proposte da iscrivere all’ordine del giorno – era attribuito a un organo ristretto, il Consiglio dei Cinquecento (boulé). Inoltre, già gli antichi facevano notare come di frequente la discussione venisse demagogicamente orientata dai retori: veri e propri manipolatori della folla. I limiti rispetto all’ideale democratico, così come noi lo concepiamo, non erano, insomma pochi. Ciononostante, non si può negare che ogni decisione finale spettasse in effetti all’assemblea dei cittadini riunita nella pubblica piazza e che essa esercitasse la suprema autorità sulla città.
Anche a Sparta, così come in altre città greche, l’assemblea del popolo, l’apélla, esercitava un potere significativo, ma funzionava in un contesto istituzionale e secondo regole ben diverse da quelle di Atene. A parte le decisioni sulla guerra e le alleanze, principale funzione dell’assemblea spartana – alla quale avevano diritto di partecipare tutti i cittadini maschi di età superiore ai trent’anni – era la scelta dei più importanti funzionari pubblici, gli éfori. La procedura prevedeva la nomina di coloro che, all’apparire in pubblico, ricevevano l’acclamazione più intensa. Nessuna discussione era prevista: solo una sorta di primordiale misurazione dei decibel derivanti dal clamore suscitato dai candidati. Per assicurare l’oggettività della misurazione, questa era rimessa a funzionari pubblici che operavano al chiuso di una stanza, in modo che potessero udire il vociare dell’assemblea ma non vedere i candidati che man mano le venivano mostrati. Da una parte, dunque, l’assemblea ateniese come luogo di discussione; dall’altra, l’assemblea spartana come luogo di acclamazione. Anche se nella concreta esperienza la contrapposizione tra i due modelli era meno netta di quanto si potrebbe ritenere, già l’antichità classica mostra con chiarezza l’ambivalenza di questo strumento di governo.
Norberto Bobbio affermava che «nulla uccide più la democrazia che l’eccesso di democrazia»: come è possibile ricostruire il senso diffuso di una democrazia piena e reale?
Con la frase citata, Norberto Bobbio voleva evidenziare il rischio d’instabilità cui sarebbe esposta la collettività qualora le istituzioni pubbliche funzionassero sottoponendo di continuo il popolo a decisioni che provocano divisioni e fratture sociali. Come ho già detto, il pluralismo delle società contemporanee impone l’attenta e costante ricerca di soluzioni di equilibrio, per consentire alle diverse componenti politiche, economiche e culturali di convivere pacificamente. Quel che va tenuto sotto controllo è il rischio, sotteso ma sempre reale, della dissoluzione dell’unità politica in pluralità fratricida, un rischio che è oggi realtà sull’altra sponda del Mediterraneo. Ciò rende evidente che il punto di caduta della democrazia diretta non è solo di ordine pratico, ma altresì concettuale.
Un autore che Bobbio amava molto, il giurista austriaco Hans Kelsen, sottolineava la prevalenza del momento deliberativo – cioè del dibattito – su quello decisionale. Democrazia è, anzitutto, discussione. Non scelta. Più del risultato, conta il procedimento. La decisione è, idealmente, risorsa cui ricorrere in ultima istanza, quando ogni altra soluzione rivolta alla creazione del consenso risulta non ulteriormente praticabile. Democratico è l’atteggiamento di chi si confronta apertamente con gli altri: a partire dalle proprie convinzioni, naturalmente, ma con attitudine d’animo rivolta alla ricerca di un compromesso capace di riconoscere il valore delle convinzioni altrui, di coniugare assieme la parte con il tutto.
Il filosofo statunitense John Rawls ha riformulato questa idea sostenendo che le forze sociali contrapposte devono agire mosse dal proposito di costruire un consenso che emerga dall’attenta analisi della “sovrapponibilità” delle loro posizioni. Giovanni Sartori ha ulteriormente precisato che, mentre la democrazia diretta, intendendo la «politica come guerra», innesca un gioco «a somma nulla», in cui «chi vince, vince tutto; chi perde, perde tutto», la democrazia rappresentativa, concependo la «politica come trattativa», produce invece un gioco «a somma positiva», in cui, grazie alla mediazione, tutti riescono a ottenere qualcosa.
Come già detto, la mera conta dei voti non produce decisioni democratiche, ma imposizioni di parte. Quello di cui oggi c’è bisogno è attitudine al dialogo, rispetto, empatia, curiosità verso le posizioni altrui, disponibilità a cambiare idea: tutte cose che solo la discussione parlamentare, se ben intesa, può riuscire a realizzare. Ed è ben intesa quando il fine è includere, non escludere: vale a dire, quando si discute per trovare la soluzione capace di non lasciare nessuno totalmente insoddisfatto e, di conseguenza, nessuno totalmente soddisfatto.
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