Con riferimento allo sviluppo… occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi (Laudato si', p. 145). È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti (Laudato si' , p. 146).
Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi (Laudato si', p. 123).
La produzione non è sempre razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali (Laudato si', p. 143).
Premessa
La complessità delle dinamiche economiche, ritardando spesso il momento temporale degli effetti connessi alle cause originanti, fa perdere la consapevolezza delle correlazioni con il risultato che quando si verificano gli eventi (proprio perché in ritardo molto più intensi, come ampiamente dimostrato dagli estensori degli overshooting models) pochi si ricordano chi li aveva previsti e chi no e ancor meno sono quelli che si assumono la responsabilità di reinterpretare il futuro.
Il risultato è così semplicemente disastroso, perché tutti continuano a parlare del presente senza ricordare cosa hanno detto nel passato del futuro e soprattutto continuano a sviluppare ragionamenti di breve periodo. In queste condizioni è difficile che emergano salti di “paradigma”, cioè di “vision”, sempre necessari nei momenti di svolte epocali, come quella che stiamo vivendo.
1.1 All’origine della crisi: l’eterno gioco della domanda e dell’offerta
Studiando l’irrompere dell’economia “industriale”, fondata sul principio della specializzazione, sulle realtà agrarie/artigianali in un contesto socio-economico che esprimeva bisogni fondamentali inespressi dall’origine dell’uomo, gli economisti classici osservarono stupiti che, grazie alla “mano invisibile”, “l’offerta crea la domanda” (legge di Say) e, per tale via, porta all’armonia dell’equilibrio economico generale di piena occupazione di Walras. Ed avevano ragione! Perché in quella fase nascente del capitalismo, concorrenziale, dinamico e semplice, l’offerta si trasformava naturalmente in domanda.
Se avessero però analizzato alcune logiche interne al mercato (l’impresa marginale viene inevitabilmente fagocitata dall’impresa più dinamica) e all’impresa ( il capitalista cerca progressivamente di assegnarsi una quota crescente del reddito prodotto rispetto agli operai e ai consumatori sfruttando le sue posizioni di forza), avrebbero potuto intuire che, al di là degli assunti ideologici, c’era un fondamento nell’analisi del “plusvalore” di Marx e nella sua “previsione” di un collasso del sistema per sovrapproduzione economica e disperazione sociale. E avrebbero evitato non la rivoluzione bolscevica, figlia dell’ideologia marxista, ma la grande depressione del ’29-’32.
In altri termini che Marx, proiettando al futuro la logica capitalistica, coglieva il tallone d’Achille della legge (dell’imperio) dell’offerta che creava la propria domanda e quindi chiedeva libertà di mercato (per realizzare gli oligopoli) e d’impresa (per accrescere i profitti), di fatto sterilizzando progressivamente il flusso vitale dell’offerta verso la domanda.
Senonché, come a tutti noto, dalla crisi del ’32 siamo usciti non dalla porta di Say ma dal radicale ribaltamento del paradigma cognitivo che aveva guidato tutti gli economisti, compreso lo stesso Marx, fino al tracollo dell’economia moderna. Non è — nella fase in cui era evoluto il capitalismo, possiamo aggiungere noi — l’offerta che crea la domanda ma bensì è l’esatto contrario: “la domanda crea l’offerta” affermava Keynes, rivoluzionando l’analisi economica e aprendo la strada a un ruolo attivo dello Stato come grande regolatore della domanda, come protagonista diretto dell’offerta, oltre che come tutore delle leggi del mercato e dell’impresa in funzione di una equa distribuzione del valore prodotto.
E così la domanda sapientemente manovrata in una logica a un tempo strutturale e congiunturale, come i grandi investimenti, ha innescato il più lungo periodo di crescita delle economie occidentali creando l’illusione della crescita illimitata della cosiddetta economia sociale di mercato fino al trionfo sul modello comunista e alla caduta del muro di Berlino.
Quando improvvisamente il mondo occidentale, anche per la giusta consapevolezza di avere progressivamente paralizzato l’offerta con “troppi lacci e laccioli” ha pensato di ritornare a un modello nel quale fosse la capacità dell’offerta di esprimersi il nuovo — vecchio- motore dell’economia: “più Mercato e meno Stato” è stata la nuova parola d’ordine che ha guidato il più impressionante processo di privatizzazioni in uno con le più grandi e veloci concentrazioni mai realizzate, a loro volta, funzionali a una radicale redistribuzione del valore a favore, sulla carta, dei consumatori e degli azionisti in realtà di una nuova classe sociale che ha sostituito la funzione della classe media in profonda crisi: “i finanzieri”.
Ma nessuno — giustamente — ha pensato di ritornare al “vecchio paradigma” dell’offerta che crea tout court la domanda; tutti, però, si sono posti l’obiettivo di trovare un degno sostituto allo Stato come grande regolatore della domanda e stimolatore — per questa via — dell’offerta.
Nessuno lo ha teorizzato ma gli ultimi 25 anni non sono altro che la storia di come la Finanza si è fatta Stato, di come, cioè, la Finanza ha tentato di svolgere il ruolo che il modello keynesiano ha assegnato allo Stato.
In altri termini si è pensato di sostituire:
imprese globali finanziate dal mercato azionario di massa.
Perseguendo, di fatto, una nuova stratificazione sociale —“gli azionisti e gli indebitati”— che è alla base della divaricazione tra crescita e uguaglianza, atteso che tale dinamica economica esalta i primi (sempre di meno) e soffoca i secondi (sempre di più).
Il risultato di questo “modello senza teoria” è il consumismo onnivoro fondato sull’indebitamento dei popoli e dei singoli, distruttivo degli equilibri ecologici, che affama interi continenti e distrugge le vite familiari e personali.
Certo Keynes, nel vedere che il suo modello della domanda aggregata è diventato il fondamento del consumismo e dei suoi stili di vita, si rivolta nella tomba, ma così è e sarà, fin quando non si romperà l’incantesimo della domanda (marginalmente pubblica e prevalentemente privata da indebitamento) che “crea” l’offerta e con essa l’occupazione, fondata non sul ruolo degli Stati ma del Sistema Finanziario Globale.
1.2 Per una definizione del concetto di consumo e quindi di domanda
Qualunque ripensamento del sistema economico passa, dunque, da una riflessione sulla “domanda” per riportare il consumo entro un profilo umano e ambientale, cioè entro un sentiero che non danneggi l’uomo concreto e il suo ambiente. Più esplicitamente bisogna ambire a distinguere tra consumo “sano” ed “ecologico” e consumo deviato e antiecologico.
In questa prospettiva strategica il primo obiettivo è costituito dalla istituzione da parte dei Governi di un “Comitato per la definizione del PIL corretto. In altri termini pur mantenendo il monitoraggio dell’attuale aggregato andrebbero introdotti fattori correttivi sulla base di giudizi condivisi in merito agli aspetti negativi di alcune produzioni/consumi sull’uomo e l’ambiente. Per capire basterebbe sottrarre – per iniziare – dal PIL ufficiale il gioco d’azzardo, il fumo, l’alcool, la vendita di acqua, la produzione di armi, di plastica il costo dello smaltimento teorico di CO2 commesso alla produzione e al trasporto dei beni.
Insomma per cominciare a cambiare il sistema bisogna iniziare a “spogliare il Re”! Solo demitizzando il feticcio del PIL e della sua crescita si può riportare l’insieme delle attività umane di produzione e consumo entro un sentiero di umanità e di compatibilità ecologica.
1.3 Per una nuova economia
A partire da questa nuova visione occorre ripensare la funzione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) per trasformarla da mera imposta indiretta a imposta di indirizzo in quanto connessa in termini radicalmente differenziati alle produzioni/servizi riduttivi del PIL o al valore del prodotto.
In altri termini tutti i prodotti/servizi “nocivi” dovrebbero avere IVA maggiorata (si pensi per cominciare all’alcool, al fumo, alle armi) così come i prodotti di lusso (in base a quale logica l’IVA su una Ferrari o una borsa di Chanel è uguale a quella di una utilitaria o di una comune borsa?).
Parallelamente va ripensata la funzione redistributiva dello Stato iniziando dalla ridefinizione degli scaglioni fiscali per le imprese e le persone fisiche, superando l’attuale scandaloso dibattito sulla flax tax, che distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica dalla vera natura del problema. Per il nostro sistema fiscale un individuo che guadagna fino a 15.000 euro è socio-economicamente diverso da un individuo che guadagna fino a 28.000 euro (tanto da avere due tassazioni diverse) e così quello che guadagna fino a 55.000 euro è diverso da quello che guadagna fino a 75.000 euro; da qui in poi siamo tutti uguali: detto in altri termini io e Del Vecchio per il sistema fiscale italiano siamo la stessa cosa!
Da qui la scandalosa divaricazione crescita/uguaglianza. Lo stesso dicasi per la tassazione sulle imprese, anche se non manca qualche timido segnale di inversione di tendenza.
Le manovre “macro” sopra richiamate devono essere accompagnate da una nuova visione ambientale che porti a una nuova categoria di “tassazione sistemica” finalizzata a far prendere consapevolezza dei costi ambientali di molti prodotti/servizi. Basterebbe per iniziare una tassa sul trasporto su ruote dei prodotti agroalimentari!
In questo nuovo contesto vanno avviate politiche strutturali tese a ridimensionare sistematicamente la dimensione/ruolo delle banche universali e delle multinazionali, che sono il frutto non tanto del successo competitivo (secondo l’ideologia neoliberista), ma della manipolazione sistematica della politica da parte delle grandi lobby che hanno piegato progressivamente tutta la legislazione ai loro interessi. Si pensi ad esempio alla legislazione europea del settore bancario che vede le banche di credito cooperativo soggette alla stessa normativa delle banche universali come Unicredit e Intesa San Paolo, laddove anche negli USA sono previsti 4 livelli di regolamentazione legati alla dimensione, con il risultato finale di distruggere tutto ciò che non è grande per definizione, nonostante studi consolidati secondo i quali le Banche Universali creano rischi sistemici immensi senza essere più efficaci (in termini di allocazione del credito) ed efficienti (in termini di interessi-costi dei servizi) delle banche di minore dimensione.
Considerazioni che valgono anche per tutti i grandi settori, in particolare le fonti rinnovabili e l’agroalimentare che sono “per natura” diffusivi!
Con altrettanta determinazione va affrontato il tema dell’obsolescenza programmata che costituisce una delle forme più sofisticate di violenza capitalistica atteso che è scandaloso che per “tosare il consumatore” di fatto si taroccano i prodotti a danno anche della natura. Basterebbe per iniziare
istituire in ogni paese un “Ente” preposto alla certificazione dei principali prodotti industriali di consumo.
Tali misure non impattano però con il cuore dei problemi delle attuali società capitalistiche: la distruzione sistematica di lavoro, inteso come scambio, a causa degli straordinari sviluppi della tecnologia. Per tale ragione occorre prendere consapevolezza che non bastano nuove rinnovate politiche redistributive del reddito e della ricchezza ma occorre andare oltre impostando inedite politiche redistributive del lavoro inteso come prestazione a fronte di un corrispettivo. In altri termini bisogna porre velocemente all’ordine del giorno la tematica della riduzione della settimana lavorativa a 4 giorni partendo dalle grandi banche universali e dalle multinazionali. Tutto ciò istituendo una forma di servizio civile permanente nel senso che le persone beneficiarie di una tale misura dovrebbero essere impegnate in attività sociali/ambientali/culturali a servizio delle comunità di riferimento.
In ogni caso bisogna prendere consapevolezza che la velocità del cambiamento tecnologico accentuerà le caratteristiche distruttive/creative del sistema produttivo con enormi conseguenze strutturali/congiunturali dei livelli occupazionali. Per tale ragione partendo dall’affermazione del diritto a vivere a prescindere dalla prestazione lavorativa va affermata con forza l’utilità strategica del reddito di cittadinanza, mettendo in discussione il fondamento ideologico dello Stato moderno capitalista fondato su processi di accumulazione indiscriminati! Se noi affermiamo che gli esseri umani hanno diritto ad essere, a vivere, a prescindere dal lavoro, noi smontiamo lo stato moderno fondato sul lavoro-merce oggetto di negoziazione/acquisto da parte del Dio-Capitale ma soprattutto creiamo le condizioni di flessibilità utili a coniugare le esigenze di sviluppo con i bisogni fondamentali minimi degli essere umani.
Dunque una nuova economia è possibile basta volerla.
L’alternativa è la distruzione dell’attuale civiltà o a seguito di processi rivoluzionari violenti, guerre geopolitiche o collasso ambientale.
Come sempre all’Uomo l’ultima parola.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi (Laudato si', p. 123).
La produzione non è sempre razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali (Laudato si', p. 143).
Premessa
La complessità delle dinamiche economiche, ritardando spesso il momento temporale degli effetti connessi alle cause originanti, fa perdere la consapevolezza delle correlazioni con il risultato che quando si verificano gli eventi (proprio perché in ritardo molto più intensi, come ampiamente dimostrato dagli estensori degli overshooting models) pochi si ricordano chi li aveva previsti e chi no e ancor meno sono quelli che si assumono la responsabilità di reinterpretare il futuro.
Il risultato è così semplicemente disastroso, perché tutti continuano a parlare del presente senza ricordare cosa hanno detto nel passato del futuro e soprattutto continuano a sviluppare ragionamenti di breve periodo. In queste condizioni è difficile che emergano salti di “paradigma”, cioè di “vision”, sempre necessari nei momenti di svolte epocali, come quella che stiamo vivendo.
1.1 All’origine della crisi: l’eterno gioco della domanda e dell’offerta
Studiando l’irrompere dell’economia “industriale”, fondata sul principio della specializzazione, sulle realtà agrarie/artigianali in un contesto socio-economico che esprimeva bisogni fondamentali inespressi dall’origine dell’uomo, gli economisti classici osservarono stupiti che, grazie alla “mano invisibile”, “l’offerta crea la domanda” (legge di Say) e, per tale via, porta all’armonia dell’equilibrio economico generale di piena occupazione di Walras. Ed avevano ragione! Perché in quella fase nascente del capitalismo, concorrenziale, dinamico e semplice, l’offerta si trasformava naturalmente in domanda.
Se avessero però analizzato alcune logiche interne al mercato (l’impresa marginale viene inevitabilmente fagocitata dall’impresa più dinamica) e all’impresa ( il capitalista cerca progressivamente di assegnarsi una quota crescente del reddito prodotto rispetto agli operai e ai consumatori sfruttando le sue posizioni di forza), avrebbero potuto intuire che, al di là degli assunti ideologici, c’era un fondamento nell’analisi del “plusvalore” di Marx e nella sua “previsione” di un collasso del sistema per sovrapproduzione economica e disperazione sociale. E avrebbero evitato non la rivoluzione bolscevica, figlia dell’ideologia marxista, ma la grande depressione del ’29-’32.
In altri termini che Marx, proiettando al futuro la logica capitalistica, coglieva il tallone d’Achille della legge (dell’imperio) dell’offerta che creava la propria domanda e quindi chiedeva libertà di mercato (per realizzare gli oligopoli) e d’impresa (per accrescere i profitti), di fatto sterilizzando progressivamente il flusso vitale dell’offerta verso la domanda.
Senonché, come a tutti noto, dalla crisi del ’32 siamo usciti non dalla porta di Say ma dal radicale ribaltamento del paradigma cognitivo che aveva guidato tutti gli economisti, compreso lo stesso Marx, fino al tracollo dell’economia moderna. Non è — nella fase in cui era evoluto il capitalismo, possiamo aggiungere noi — l’offerta che crea la domanda ma bensì è l’esatto contrario: “la domanda crea l’offerta” affermava Keynes, rivoluzionando l’analisi economica e aprendo la strada a un ruolo attivo dello Stato come grande regolatore della domanda, come protagonista diretto dell’offerta, oltre che come tutore delle leggi del mercato e dell’impresa in funzione di una equa distribuzione del valore prodotto.
E così la domanda sapientemente manovrata in una logica a un tempo strutturale e congiunturale, come i grandi investimenti, ha innescato il più lungo periodo di crescita delle economie occidentali creando l’illusione della crescita illimitata della cosiddetta economia sociale di mercato fino al trionfo sul modello comunista e alla caduta del muro di Berlino.
Quando improvvisamente il mondo occidentale, anche per la giusta consapevolezza di avere progressivamente paralizzato l’offerta con “troppi lacci e laccioli” ha pensato di ritornare a un modello nel quale fosse la capacità dell’offerta di esprimersi il nuovo — vecchio- motore dell’economia: “più Mercato e meno Stato” è stata la nuova parola d’ordine che ha guidato il più impressionante processo di privatizzazioni in uno con le più grandi e veloci concentrazioni mai realizzate, a loro volta, funzionali a una radicale redistribuzione del valore a favore, sulla carta, dei consumatori e degli azionisti in realtà di una nuova classe sociale che ha sostituito la funzione della classe media in profonda crisi: “i finanzieri”.
Ma nessuno — giustamente — ha pensato di ritornare al “vecchio paradigma” dell’offerta che crea tout court la domanda; tutti, però, si sono posti l’obiettivo di trovare un degno sostituto allo Stato come grande regolatore della domanda e stimolatore — per questa via — dell’offerta.
Nessuno lo ha teorizzato ma gli ultimi 25 anni non sono altro che la storia di come la Finanza si è fatta Stato, di come, cioè, la Finanza ha tentato di svolgere il ruolo che il modello keynesiano ha assegnato allo Stato.
In altri termini si è pensato di sostituire:
- alla domanda pubblica e a quella privata generata dal reddito prodotto, una domanda prevalentemente privata sostenuta dall’indebitamento illimitato delle famiglie;
- al ruolo attivo dello Stato nella produzione di beni e servizi, il ruolo delle grandi
imprese globali finanziate dal mercato azionario di massa.
Perseguendo, di fatto, una nuova stratificazione sociale —“gli azionisti e gli indebitati”— che è alla base della divaricazione tra crescita e uguaglianza, atteso che tale dinamica economica esalta i primi (sempre di meno) e soffoca i secondi (sempre di più).
Il risultato di questo “modello senza teoria” è il consumismo onnivoro fondato sull’indebitamento dei popoli e dei singoli, distruttivo degli equilibri ecologici, che affama interi continenti e distrugge le vite familiari e personali.
Certo Keynes, nel vedere che il suo modello della domanda aggregata è diventato il fondamento del consumismo e dei suoi stili di vita, si rivolta nella tomba, ma così è e sarà, fin quando non si romperà l’incantesimo della domanda (marginalmente pubblica e prevalentemente privata da indebitamento) che “crea” l’offerta e con essa l’occupazione, fondata non sul ruolo degli Stati ma del Sistema Finanziario Globale.
1.2 Per una definizione del concetto di consumo e quindi di domanda
Qualunque ripensamento del sistema economico passa, dunque, da una riflessione sulla “domanda” per riportare il consumo entro un profilo umano e ambientale, cioè entro un sentiero che non danneggi l’uomo concreto e il suo ambiente. Più esplicitamente bisogna ambire a distinguere tra consumo “sano” ed “ecologico” e consumo deviato e antiecologico.
In questa prospettiva strategica il primo obiettivo è costituito dalla istituzione da parte dei Governi di un “Comitato per la definizione del PIL corretto. In altri termini pur mantenendo il monitoraggio dell’attuale aggregato andrebbero introdotti fattori correttivi sulla base di giudizi condivisi in merito agli aspetti negativi di alcune produzioni/consumi sull’uomo e l’ambiente. Per capire basterebbe sottrarre – per iniziare – dal PIL ufficiale il gioco d’azzardo, il fumo, l’alcool, la vendita di acqua, la produzione di armi, di plastica il costo dello smaltimento teorico di CO2 commesso alla produzione e al trasporto dei beni.
Insomma per cominciare a cambiare il sistema bisogna iniziare a “spogliare il Re”! Solo demitizzando il feticcio del PIL e della sua crescita si può riportare l’insieme delle attività umane di produzione e consumo entro un sentiero di umanità e di compatibilità ecologica.
1.3 Per una nuova economia
A partire da questa nuova visione occorre ripensare la funzione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) per trasformarla da mera imposta indiretta a imposta di indirizzo in quanto connessa in termini radicalmente differenziati alle produzioni/servizi riduttivi del PIL o al valore del prodotto.
In altri termini tutti i prodotti/servizi “nocivi” dovrebbero avere IVA maggiorata (si pensi per cominciare all’alcool, al fumo, alle armi) così come i prodotti di lusso (in base a quale logica l’IVA su una Ferrari o una borsa di Chanel è uguale a quella di una utilitaria o di una comune borsa?).
Parallelamente va ripensata la funzione redistributiva dello Stato iniziando dalla ridefinizione degli scaglioni fiscali per le imprese e le persone fisiche, superando l’attuale scandaloso dibattito sulla flax tax, che distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica dalla vera natura del problema. Per il nostro sistema fiscale un individuo che guadagna fino a 15.000 euro è socio-economicamente diverso da un individuo che guadagna fino a 28.000 euro (tanto da avere due tassazioni diverse) e così quello che guadagna fino a 55.000 euro è diverso da quello che guadagna fino a 75.000 euro; da qui in poi siamo tutti uguali: detto in altri termini io e Del Vecchio per il sistema fiscale italiano siamo la stessa cosa!
Da qui la scandalosa divaricazione crescita/uguaglianza. Lo stesso dicasi per la tassazione sulle imprese, anche se non manca qualche timido segnale di inversione di tendenza.
Le manovre “macro” sopra richiamate devono essere accompagnate da una nuova visione ambientale che porti a una nuova categoria di “tassazione sistemica” finalizzata a far prendere consapevolezza dei costi ambientali di molti prodotti/servizi. Basterebbe per iniziare una tassa sul trasporto su ruote dei prodotti agroalimentari!
In questo nuovo contesto vanno avviate politiche strutturali tese a ridimensionare sistematicamente la dimensione/ruolo delle banche universali e delle multinazionali, che sono il frutto non tanto del successo competitivo (secondo l’ideologia neoliberista), ma della manipolazione sistematica della politica da parte delle grandi lobby che hanno piegato progressivamente tutta la legislazione ai loro interessi. Si pensi ad esempio alla legislazione europea del settore bancario che vede le banche di credito cooperativo soggette alla stessa normativa delle banche universali come Unicredit e Intesa San Paolo, laddove anche negli USA sono previsti 4 livelli di regolamentazione legati alla dimensione, con il risultato finale di distruggere tutto ciò che non è grande per definizione, nonostante studi consolidati secondo i quali le Banche Universali creano rischi sistemici immensi senza essere più efficaci (in termini di allocazione del credito) ed efficienti (in termini di interessi-costi dei servizi) delle banche di minore dimensione.
Considerazioni che valgono anche per tutti i grandi settori, in particolare le fonti rinnovabili e l’agroalimentare che sono “per natura” diffusivi!
Con altrettanta determinazione va affrontato il tema dell’obsolescenza programmata che costituisce una delle forme più sofisticate di violenza capitalistica atteso che è scandaloso che per “tosare il consumatore” di fatto si taroccano i prodotti a danno anche della natura. Basterebbe per iniziare
istituire in ogni paese un “Ente” preposto alla certificazione dei principali prodotti industriali di consumo.
Tali misure non impattano però con il cuore dei problemi delle attuali società capitalistiche: la distruzione sistematica di lavoro, inteso come scambio, a causa degli straordinari sviluppi della tecnologia. Per tale ragione occorre prendere consapevolezza che non bastano nuove rinnovate politiche redistributive del reddito e della ricchezza ma occorre andare oltre impostando inedite politiche redistributive del lavoro inteso come prestazione a fronte di un corrispettivo. In altri termini bisogna porre velocemente all’ordine del giorno la tematica della riduzione della settimana lavorativa a 4 giorni partendo dalle grandi banche universali e dalle multinazionali. Tutto ciò istituendo una forma di servizio civile permanente nel senso che le persone beneficiarie di una tale misura dovrebbero essere impegnate in attività sociali/ambientali/culturali a servizio delle comunità di riferimento.
In ogni caso bisogna prendere consapevolezza che la velocità del cambiamento tecnologico accentuerà le caratteristiche distruttive/creative del sistema produttivo con enormi conseguenze strutturali/congiunturali dei livelli occupazionali. Per tale ragione partendo dall’affermazione del diritto a vivere a prescindere dalla prestazione lavorativa va affermata con forza l’utilità strategica del reddito di cittadinanza, mettendo in discussione il fondamento ideologico dello Stato moderno capitalista fondato su processi di accumulazione indiscriminati! Se noi affermiamo che gli esseri umani hanno diritto ad essere, a vivere, a prescindere dal lavoro, noi smontiamo lo stato moderno fondato sul lavoro-merce oggetto di negoziazione/acquisto da parte del Dio-Capitale ma soprattutto creiamo le condizioni di flessibilità utili a coniugare le esigenze di sviluppo con i bisogni fondamentali minimi degli essere umani.
Dunque una nuova economia è possibile basta volerla.
L’alternativa è la distruzione dell’attuale civiltà o a seguito di processi rivoluzionari violenti, guerre geopolitiche o collasso ambientale.
Come sempre all’Uomo l’ultima parola.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Lascia un commento