Siamo disposti a ridurre i consumi?



Giuseppe Ladetto    2 Marzo 2020       1

Sentiamo continuamente ripetere che i Paesi ancora sottosviluppati, a partire da quelli africani, mediante buone politiche, come l'elezione di governi onesti e la liberalizzazione dei mercati, potranno aspirare a diventare Paesi avanzati a tutti gli effetti. “Peccato che si tratti di una promessa impossibile – scrive Jared Diamond nel volume Crisi, Einaudi 2019 – nonché di uno scherzo crudele, dato che facciamo già fatica adesso a mantenere uno stile di vita da Primo Mondo, pur riguardando un solo miliardo di persone in grado di permetterselo su una popolazione planetaria di sette miliardi e mezzo. Agli attuali tassi di consumo, il nostro pianeta non ha risorse per mantenere in modo sostenibile neanche i Paesi avanzati esistenti oggi”.


Più volte Luciano Gallino ha scritto che, se tutti gli abitanti del globo avessero i consumi dei nordamericani, ci vorrebbero le risorse di più di quattro Terre. Diamond ci dice che, se l'american way of life fosse comune a tutti i terrestri, l'impatto sarebbe pari a quello di ottanta miliardi di persone. Se il riferimento fosse il tenore di vita degli europei, l'impatto sarebbe un po' più basso, ma comunque sempre assolutamente insostenibile. Per restare a casa nostra, (sempre Diamond scrive) sessanta milioni di italiani consumano attualmente quasi il doppio del miliardo di africani. Se poi teniamo presente che gli abitanti del pianeta diventeranno oltre nove miliardi già nel 2050, mentre la sola popolazione africana raggiungerà i due miliardi e mezzo, per il persistente elevato tasso di natalità di molti paesi dell'Africa nera, il quadro complessivo si fa sempre più negativo.


Ci dicono, inoltre, che finché i Paesi del Sud del mondo non avranno raggiunto un livello di consumi prossimo a quello dei Paesi avanzati, continuerà la fuga dei poveri dai Paesi rimasti indietro. Pertanto, per almeno trenta o quaranta anni, tempo richiesto (secondo i sostenitori della globalizzazione) ai Paesi del Sud del mondo per uscire dall'attuale condizione di povertà, i fenomeni migratori continueranno ad essere protagonisti sulla scena mondiale.


Anche qui bisogna vedere le cose per quelle che sono. A parte una minoranza di persone che fuggono da guerre devastanti o da persecuzioni (i cosiddetti “profughi” o “rifugiati”), le migrazioni riguardano prevalentemente i “migranti economici”. Questi sono soggetti che, per reddito, istruzione, competenze e dinamismo, si collocano al di sopra della condizione media della popolazione del Paese di origine, e proprio per tali requisiti sono in grado di affrontare l'impresa migratoria.


A differenza di quanti, in casa nostra, indicano la soluzione del problema migratorio nella crescita economica del Sud del mondo, i migranti economici hanno ben chiaro che il loro Paese non raggiungerà mai gli standard di vita attuali delle nazioni benestanti, e che un significativo aumento di tali standard richiederebbe comunque tempi lunghi, incompatibili con il proprio desiderio di una vita migliore. Quindi, finché è possibile (perché sarà la stessa dimensione del fenomeno migratorio ad ostacolarlo o bloccarlo), vale la pena di tentare di raggiungere i Paesi ricchi.


Infatti – scrive Paul Collier in Exodus, Laterza – contrariamente a quanto molti pensano, un miglioramento delle condizioni economiche dei Paesi poveri del Sud del mondo (inevitabilmente non tale da colmare il divario con i Paesi ricchi) non riduce l'aspirazione a emigrare, ma anzi mette in condizioni di espatriare un maggior numero di persone fornendo loro i mezzi necessari. Già oggi, il 40% di chi vive nei Paesi poveri sarebbe disponibile, avendone i mezzi, ad abbandonare la propria patria: si tratta di un numero molto rilevante di esseri umani. Il motore dei processi migratori è quindi l'enorme divario di reddito e di consumi fra Paesi ricchi e Paesi poveri, un divario che non potrà essere colmato con la crescita dei Paesi rimasti indietro in tema di sviluppo.


Che fare? Secondo Diamond, se vogliamo evitare un finale tragico e disastroso, occorre che tutti i Paesi del mondo si posizionino su livelli di consumo decisamente inferiori a quelli attuali del mondo avanzato, riducendo gradualmente l'abisso che li separa. Primo obiettivo da realizzare è la parità tra prelievo e capacità di rigenerazione delle risorse rinnovabili, tra emissioni di inquinanti (CO2 compresa) e metabolizzazione degli stessi a livello ambientale, unitamente al riutilizzo dei materiali non rinnovabili in un'economia circolare. È quanto da decenni dice Serge Latouche, ma la “decrescita” da lui proposta, fino ad oggi, è stata oggetto di ironici commenti da parte dei sostenitori dello sviluppo illimitato. In sintonia con quanto scritto da Latouche, anche per Diamond l'auspicato riequilibrio non ci riporterà alla modesta disponibilità di beni esistente prima che detto equilibrio fosse stato rotto in passato, perché oggi con le tecnologie disponibili, a parità di consumo di materie prime, è possibile, per la maggiore produttività, ottenere di più, o comunque quanto basta per una vita dignitosa.


Aggiunge Diamond che ridimensionare i nostri consumi non dovrebbe essere un enorme sacrificio perché consumi e benessere non sono legati in modo indissolubile, e perché una significativa parte dei consumi attuali dei Paesi ricchi si risolve in uno spreco. Già Stefano Bartolini aveva scritto che l’odierna crescita alimentata dal consumismo non solo non è sostenibile sul piano ambientale, ma neanche su quello relazionale. Il miglioramento della condizione umana passa per vie che implicano migliori relazioni interpersonali e migliore qualità ambientale, in parallelo alla riduzione dei consumi privati e ad una maggiore offerta di beni e servizi di uso comune.


Tuttavia, come è possibile che i Paesi ricchi rinuncino al loro attuale stile di vita quando, a fronte della minaccia del riscaldamento climatico, diversi di essi rifiutano perfino di limitare l'uso del carbone, la fonte di energia maggiormente responsabile delle emissioni di CO2?


Diamond scrive che molti hanno difficoltà a comprendere la questione del riscaldamento climatico, perché complessa e irta di paradossi. In particolare ancora numerosi personaggi influenti (tra i quali parecchi uomini politici americani) continuano a liquidarla come una bufala: basta infatti che si verifichi in qualche parte del mondo un temporaneo abbassamento di temperatura ed ecco subito sentire dire che il riscaldamento non esiste. Credo che, se fino a qualche anno fa un tale atteggiamento potesse avere qualche giustificazione, oggi non ne ha più perché anche le persone semplici possono rilevare i profondi cambiamenti in corso: non è un caso che le iniziative di Greta Thumberg trovino largo seguito. Forse non ne sono ancora chiare (perfino ai giovani seguaci di Greta) le pesantissime conseguenze e le ricadute, non solo economiche, sulle condizioni di vita delle popolazioni, comprese quelle dei Paesi sviluppati. Qui occorrerebbe una maggiore informazione. In ogni caso, il pericolo che il riscaldamento climatico fa correre all'umanità dovrebbe spingere i Paesi ricchi a fare delle rinunce.


Oggi, si fa strada, sia pure con difficoltà, l'esigenza di dare vita ad un'economia “verde”, che, a detta dei fautori dello sviluppo illimitato, sarebbe l'occasione per realizzare una nuova e diversa fase di crescita. È indubitabile che sia necessario trasformare abitazioni, impianti produttivi, mezzi di trasporto, ecc. per ridurre a zero le emissioni di CO2. Questa transizione sarà certamente anche un'opportunità di sviluppo poiché comporta grandi investimenti e crea occasioni di lavoro. Ma attenzione. I mezzi finanziari necessari non nascono dal nulla. Una tale impresa richiede di dirottarli da altrove e probabilmente imporrà l'adozione di modalità di vita morigerate, se non austere. Accade come quando un Paese è in guerra: le esigenze belliche richiedono investimenti dettati dalla straordinaria situazione in cui si trova, e creano occupazione, ma comportano pesanti obblighi, privazioni e rinunce per i cittadini. Quindi il cambiamento delle modalità di vita e di consumi si imporrà comunque.


Secondo Diamond, c'è un altro timore che potrebbe indurre i “ricchi” (persone, categorie, Paesi) a fare un tale passo. Il timore nei confronti dei poveri. Gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta, quando (come ha scritto John Steinbeck) il povero considerava la sua condizione transitoria in attesa di diventare milionario. Oggi, il sogno americano ha cessato di funzionare, e il crescente divario di ricchezza non è più tollerato, in particolare dai neri e dai latinoamericani di recente immigrazione. Se non si riduce la distanza fra chi possiede troppo e chi sta al fondo della scala sociale, sarà inevitabile la crescita degli atti violenti da parte dei singoli e delle masse. Ma è soprattutto nei Paesi più poveri che cova un crescente risentimento nei nostri confronti per i nostri elevati standard di vita, un risentimento che inevitabilmente si tradurrà in violenza, di cui il terrorismo è già una manifestazione. Infatti, se alla base del terrorismo ci sono motivazioni di ordine ideologico o religioso, è dove in una larga fetta di popolazione albergano sentimenti di disperazione e di rabbia che i terroristi sono ampiamente tollerati o addirittura appoggiati.


Quindi, se consideriamo che, oltre all'esigenza di bloccare il riscaldamento climatico, c'è quella di abbattere il divario di reddito fra i Paesi, posizionandone i consumi su un livello equilibrato e sostenibile, allora certi discorsi che sentiamo continuamente ripetere non sono più proponibili: “basta lo sviluppo tecnologico a risolvere i problemi”; “la nuova economia fondata sull'immateriale può crescere indefinitamente”, e via dicendo. Diventa pertanto evidente che è indispensabile un radicale cambio di rotta.


Tuttavia, anche fra coloro che riconoscono questa esigenza, non sembra esserci la volontà di fare i passi necessari o quanto meno pare mancare ad essi la consapevolezza dei profondi cambiamenti richiesti o il coraggio per proporli. Se i consumi di 60 milioni di italiani (espressi in valore monetario) sono pari a quasi il doppio di quelli del miliardo di africani, che spazio resta per incrementarli ulteriormente, malgrado l'Italia non sia al vertice nella classifica dei Paesi ricchi?


Il cambiamento di rotta richiesto non può consistere in semplici ritocchi e aggiustamenti dell'attuale sistema produttivo e delle attuali modalità di vita. È questo il tema che dovrebbe essere centrale nel dibattito politico, ed è su queste tematiche che dovrebbero misurarsi in particolare coloro che scendono in campo con il proposito di innovare misurandosi sui problemi reali.




1 Commento

  1. Temo che l’impraticabilità dell’attuazione di un pensiero di buon senso, come quello di Diamond, stia sempre meno nell’opposizione ad esso del comune modo di pensare e che abbia le sue radici nella impossibilità di orientare il mondo industriale in modo ecologico. Per “orientamento del modo di produrre industriale” non intendo fare riferimento alla c.d. economia verde, che più o meno risponde ad esigenze effettivamente ecologiche (per vedere quanto di ambiguo c’è in essa basta vedere i siparietti pubblicitari dell’ENI), ma il fatto che, forse (approfondiscano la cosa i tecnici della produzione) il modo industriale di produrre (e le conseguenti ottimizzazioni economiche) per sua natura genera inevitabilmente sprechi e, soprattutto, è una sfida ai ritmi stessi della natura.
    Se dovesse essere confermato da un esame tecnico approfondito che le cose stanno così il problema temo che non possa essere risolto se non da una rivolta della stessa natura nei confronti dell’uomo.

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