Nei giorni del “coronavirus” può essere utile uno sguardo al passato per capire cosa è cambiato, e cosa è rimasto uguale, dopo oltre un secolo nell'approccio dell'umanità verso una epidemia. Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Jesus nell'ottobre 2018.
Il 13 ottobre 1918 il caricaturista dell’“Avanti!” Giuseppe Scalarini sforna una vignetta dedicata al vero vincitore del primo conflitto mondiale: il bacillo dell’influenza che sta dilagando per tutto il continente. In un’Italia che nell’arco dei venti giorni successivi, quelli compresi tra Vittorio Veneto e l’armistizio di Villa Giusti, vivrà effettivamente l’epopea della vittoria, si tratta di uno tra i rari e sempre secondari accenni alla pandemia di “febbre spagnola” che imperversa nel mondo, e che con il Portogallo fa dell’Italia – 242.000 vittime solo in quel picco d’ottobre, 600.000 in totale, tante quante i caduti al fronte – il paese europeo con il più alto tasso di mortalità.
Tuttavia si tratta pur sempre d’una piccola cifra, se è vero che nel corso di tre ondate susseguitesi tra la primavera del 1918 e i primi mesi del 1919 la pandemia – che a far paragoni colpisce più duro della peste nera di metà Trecento – infetta circa un miliardo di persone, cioè metà dell’allora popolazione mondiale, uccidendone forse 20, forse 50, forse 100 milioni.
Da dove arrivi questa epidemia che cambia nome a seconda della geografia del contagio (in Spagna “soldato di Napoli”, in Francia “malattia undici”, in Inghilterra “febbre delle Fiandre”, in Polonia “malattia bolscevica” a Ceylon “febbre di Bombay”, in Malesia “febbre di Singapore”, in Giappone “influenza del sumo”) ma più di tutti nota come “febbre spagnola” – Spagna dove non c’è guerra e dunque non c’è censura che ne neghi la presenza – è difficile dire con certezza assoluta. Di certo, nel marzo 1918 la sua presenza è attestata a Camp Funston, in Kansas – centro di raccolta per le truppe dello zio Sam in partenza per le trincee d’Europa – quando il cuoco militare Albert Gitchell si presenta all’ufficiale medico con “mal di gola, febbre e mal di testa”, presto raggiunto da un numero di ammalati tale da costringere a trasformare un hangar in infermeria da campo. E sulla scia delle truppe la “febbre dei tre giorni” – altro nome della pandemia – passa dal Midwest alle città della east coast, da lì ai porti francesi e al fronte occidentale, quindi all’Africa settentrionale e attraverso il Medio Oriente raggiunge l’India, la Cina, il Giappone e l’Australia, dove sembra svanire. Ma quella della primavera-estate è solo la prima ondata: negli ultimi tre-quattro mesi dell’anno, ancora favorita dai movimenti delle truppe, la pandemia torna a farsi sotto – in una forma trasformata e molto più aggressiva, che lungo le autostrade della fame e della debilitazione colpisce più i giovani che i vecchi – per svanire e ricomparire ancora nel corso del 1919.
Di fronte all’improvviso manifestarsi di quella che l’igienista Ernesto Bertarelli definisce epidemia-sfinge – una febbre a 39°-40° che vira rapidamente in polmonite e colora di viola la pelle dei moribondi – che cosa fanno i medici? Generalizzare è difficile, ma essenzialmente – ed è un colpo durissimo al razionalismo dei quarant’anni precedenti, in cui sono stati individuati gli agenti della peste, del colera, della tubercolosi, della sifilide, della malaria, del tifo e della difterite – non sanno che pesci pigliare. Quando ci sono – prima che, con gran gaudio dei grossisti, il contagio ne faccia schizzare i prezzi alle stelle, e costringa le pubbliche autorità a calmierare i prezzi – nei loro dispensari hanno il chinino o l’aspirina, il fenazone o la noce vomica, inefficaci tanto quanto l’antico salasso, il moderno vaccino contro l’haemophilous influenzae di Richard Pfeiffer, o il futuristico (e tossico) trattamento con il mercurio.
Ma poiché il contagio non risparmia nessuno, con gli ospedali regrediti a lazzaretti a volte i dottori non ci sono neppure più – nell’ottobre 1918 Anna Kuliscioff lo scrive al suo “Filippino” Turati: “è un problema trovare medici. Tutti sono sopraffatti dal lavoro e nessuno è curato a dovere” – e a farne le veci sono il personale della Croce Rossa o gli studenti agli ultimi anni di medicina. E poi, se l’influenza viaggia nell’aria al ritmo della tosse e degli starnuti, si può anche disinfettare tutto il disinfettabile (le strade e gli edifici della città, saturati di formalina e lisoformio), si possono anche escogitare soluzioni artigianali (le sputacchiere tascabili su tutte), ma a dispetto di ogni catechismo igienico il problema – specie in un Paese come l’Italia – resta uno: l’igiene pubblica che non c’è, le case senz’acqua, senza gabinetti e senza fogne, in cui le famiglie s’ammassano insieme e insieme si ammalano e muoiono.
Ovviamente, quasi in ossequio al motto ottocentesco “palliare ove il guarir non ha luogo”, dove la scienza non può nulla fioriscono gli autodafé, esplode l’offerta di pastiglie, sciroppi, sieri e pozioni, trionfa il ricorso a cure miracolose, tanto inefficaci quanto, fuori di battuta, di contagioso successo. Ma intorno alla pandemia fioriscono anche le interpretazioni più balzane, da chi la sospetta d’essere il frutto di un’arma batteriologica sfuggita di mano agli americani, o al contrario ai tedeschi, a chi –scrive sul “Popolo d’Italia” un noto luminare della medicina, Benito Mussolini – invita a impedire “ad ogni italiano la sudicia abitudine di stringere la mano, e la pandemia scomparirà nel corso di una notte”.
Accanto al miracolismo e al complottismo c’è poi la pratica religiosa, sul cui immaginario e sulle cui pratiche la pandemia impatta direttamente.
Da un lato, il contagio appare a non pochi che lo vivono come una sorta di nuova piaga d’Egitto, o come un castigo apocalittico (“sembra la fine del mondo” è scritto in una lettera cassata dal Reparto censura posta estera) e d’altronde – con quel suo odore medievale – l’idea della guerra prima e della malattia poi quale punizione divina per il peccato del mondo è un leit motiv ben conosciuto da tutta l’omiletica del tempo.
Dall’altro – oltre a rinnovare l’antica opera di misericordia dell’assistenza agli infermi – mette le autorità ecclesiastiche in conflitto con quelle politiche. Come accade in Italia, in che modo notificare la sospensione dell’obbligo del digiuno e dell’astinenza ai fedeli attaccati dalla pandemia senza cadere nelle maglie della censura? O come accade in Spagna, precisamente a Zamora, in Castiglia e León, come conciliare le pubbliche ordinanze d’isolamento o quarantena – con il loro antico eco dal Levitico – con il rispetto delle festività religiose senza che la questione diventi subito terreno di scontro tra clericali e anticlericali?
Ma più ancora, per dirla così, la pandemia impatta sul dominio per eccellenza della Chiesa, quello della gestione della morte. In questo senso – avviene per esempio a Milano – la spagnola sconvolge i tradizionali riti di sepoltura: per evitare assembramenti, è proibito seguire i carri funebri (con il prete a bordo) o far sostare i feretri in chiesa, là dove l’ufficio avviene senza il corpo del defunto; e per non fiaccare ulteriormente il morale, proibiti sono anche i segni della pietas, la chiusura d’un battente degli edifici in segno di lutto, le corone di fiori, il suono delle campane. O ancora, come si legge in un’altra lettera fermata dalla censura, “non più preti, non più croci, non più campane”, dritti al cimitero senza passare dalla chiesa. E nella stessa Milano – immagine degna di Manzoni, o di Defoe – ancora nell’ottobre tra il 1918 avvengono trasporti notturni di salme accatastate senza bara, prima che un’ondata di proteste riporti le cose al loro posto.
E oggi, in che modo ci parla l’influenza che uccise Apollinaire e Weber come Francisco e Jacinta di Fatima? Oggi, finalmente, si conosce meglio una pandemia comparsa per cause ignote, per motivi altrettanto ignoti scomparsa, e rimasta totalmente esclusa dal processo d’elaborazione del lutto – via sacrari militari e cimiteri di guerra – avviato da un continente deciso a mettersi alle spalle il tempo dell’inutile strage. La si conosce meglio da un punto di vista storico, a voler ricordare qui i lavori di Eugenia Tognotti o Laura Spinney.
In secondo luogo, se ne comprendono meglio le conseguenze – particolare non secondario in tempi d’acuta proliferazione di scemenze pseudo-mediche – a voler considerare la spagnola quale ultimo capitolo d’un passato dominato dalle malattie infettive (senza dimenticare l’“asiatica” del 1957 o la “Hong Kong” del 1968, che ne hanno ereditato parte dei geni) ma anche agente per l’affermazione dell’assistenza sanitaria “per tutti” e per la nascita della World Health Organization, deputata alla prevenzione di potenziali nuove pandemie (leggansi ebola, aviaria o sars).
E infine, la si conosce con precisione anche da un punto di vista medico. In questo senso, il responsabile della diffusione della spagnola è noto da soli vent’anni: si tratta del virus H1N1 – capace di sconvolgere il sistema immunitario al punto di renderlo partecipe dell’attacco all’organismo – isolato nel 1996 a Washington dai patologi militari Ann Reid e Jeffrey Taubenberger e quindi, grazie ad altri contributi, completamente sequenziato dal punto di vista genetico nel 2005.
Bellissimo saggio questo sull’Epidemia “Spagnola” di Alberto Guasco. Posso diffonderlo nella Università della Terza Età di Cesena, in questi giorni di Coronavirus?
Grazie
Daniele Vaienti
Presidente UTE Cesena
Certo! Un saluto.