Ecco cosa fa morire l’Italia



Federico Cenci    18 Febbraio 2020       1

Gli indicatori demografici pubblicati dall’ISTAT sembrano un bollettino di guerra. Ogni anno l’Istituto nazionale di statistica fotografa una ulteriore discesa della tendenza demografica dell’Italia verso il baratro, nonché un aumento del divario tra nascite e decessi. L’ultimo studio, racconta di un’Italia in cui, al 1° gennaio, i residenti totali ammontano a 60 milioni 317mila, 116mila in meno su base annua rispetto a un anno prima. I risultati sono ancora provvisori, ma già sufficienti a far preoccupare. Si riduce il numero dei cittadini italiani perché si fanno meno figli.

L’ISTAT spiega, infatti, che per cento persone decedute sono nati soltanto sessantasette bambini (dieci anni fa erano novantasei). Oltre al danno delle poche nascite, c’è da registrare la beffa dello stillicidio di emigranti (+2 percento rispetto all’anno prima gli italiani che si sono trasferiti oltreconfine).

E non va trascurato il dato delle migrazioni interne. Si conta che nel 2019 circa 418mila individui hanno lasciato un Comune del Mezzogiorno e sono andati altrove. Italia meridionale che non rappresenta più quel traino demografico che era un tempo. Se si guarda all’età media della popolazione, «si può rilevare», spiega l’istituto di statistica, «come per il Mezzogiorno (44,6 anni) risulti di oltre un anno e mezzo inferiore rispetto a quella del Centro-Nord (46,2 anni)», ma «le distanze sono in progressiva riduzione». Infatti nel 2010 il Mezzogiorno deteneva un’età media di oltre due anni e mezzo inferiore.

Desta poi curiosità che, nonostante l’ennesimo record negativo di nascite, la fecondità resti costante al livello espresso nel 2018, ossia 1,29 figli per donna. Come spiega l’ISTAT, la stabilità del dato è dovuta alla riduzione delle donne all’incirca di 180mila unità. «In aggiunta a tale fattore», si legge ancora, «va poi richiamato che i tassi specifici di fecondità per età della madre continuano a mostrare un sostanziale declino nelle età giovanili (fino a circa 30 anni) e un progressivo rialzo in quelle più anziane (dopo i 30)». I figli, quando si fanno, si fanno più tardi. «L’età media al parto ha toccato i 32,1 anni», prosegue l’Istat, «anche perché nel frattempo la fecondità espressa dalle donne 35-39enni ha superato quella delle 25-29enni. Non solo, fanno più figli le donne ultraquarantenni di quanti ne facciano le giovani sotto i 20 anni di età mentre il divario con le 20-24enni è stato quasi del tutto assorbito». Insomma, il numero delle ventenni che diventano madri sta diventando pari a quello delle over 40. Chiaramente, più tardi si inizia a fare figli, più è difficile ‒ per via di una mera realtà biologica ‒ che la famiglia possa ingrandirsi.

Il monito di Mattarella
Il dramma della denatalità è penetrato anche al Quirinale. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, incontrando oggi una delegazione del Forum delle associazioni familiari, ha affermato: «Chi è anziano come me ha ben presente l’abbassamento di scala della natalità nelle generazioni. Due generazioni prima della mia, i figli erano numerosi; poi si sono ridotti ancora. E questo è un problema che riguarda l’esistenza del nostro Paese. Quindi le famiglie non sono il tessuto connettivo dell’Italia, le famiglie sono l’Italia. Perché l’Italia non è fatta dalle Istituzioni ma dai suoi cittadini, dalle persone che vi vivono». Mattarella ha dunque osservato che «come conseguenza dell’abbassamento di natalità vi è un abbassamento del numero delle famiglie. Questo significa che il tessuto del nostro Paese si indebolisce e va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno». La speranza è che il suo monito non cada nel vuoto.

(Tratto da www.ifamnews.com)


1 Commento

  1. Su La Stampa del 12 febbraio scorso, Giuseppe De Rita, in un’intervista, affronta la questione del crollo della natalità nel nostro paese. Messi in secondo piano i soliti argomenti invocati dal mondo politico e dell’informazione (la mancanza di asili nido, di scuole materne, di aiuti alle famiglie; gli insufficienti assegni familiari; la sottooccupazione femminile; la disoccupazione giovanile, e via dicendo) ne indica la causa nell’affermarsi di una “dinamica culturale malata”. Significative sono alcune sue affermazioni. “Si è perso l’equilibrio nei rapporti sociali necessario per stare bene insieme, uno accanto all’altro. Per uscire dall’inverno demografico occorre rimboccarsi le maniche. Servono umiltà, volontà di fare, capire, migliorarsi. Altrimenti è decadenza“; “Se non si fanno più figli è soprattutto perché non si vuole ridimensionare il tenore di vita, abitudini e comodità. I figli costano e obbligano gli eterni Peter Pan a uscire dal loro egoismo”; “Le nuove generazioni, quelle in età fertile, vanno a studiare o a lavorare all’estero e lasciano il Paese al suo declino. La metafora della mucillagene rende bene l’idea: monadi scomposte che si riaggregano in poltiglie indistinte, senza un collante che le unisca in nome di un bene comune o di un progetto familiare. Non c’è più la speranza di migliorare, di crescere”; “Una società che non sa più dire “noi” non fa figli”. Relativamente a quest’ultima affermazione di De Rita, rilevo che, per molti esponenti della dominante cultura odierna, il termine “noi” è diventata una brutta parola perché il “noi” (famiglia, nazione e ogni tipo di comunità) comprime l’”io” e si contrappone agli “altri” o li esclude. Certo De Rita introduce pure altri fattori riconoscendo che “c’è un quadro di incertezza occupazionale ed economica che contribuisce a una profonda revisione anche dei modelli culturali relativi alla procreazione. E’ un paradigma sociale segnato dalla tendenza a rinviare i momenti di passaggio alla vita adulta, soprattutto la scelta coraggiosa di diventare genitori”. Tuttavia, a mio parere, i fattori prevalenti sono quelli riconducibili all’individualismo estremo introdotto dalla cultura liberal con l’esaltazione dell’io e la continua promozione di diritti (ovviamente sempre individuali). Lo conferma il fatto che il problema della denatalità riguarda anche altri paesi (come Germania, Austria, Svizzera, Lussemburgo, etc.) dove non ci sono fenomeni di incertezza economica ed occupazionale paragonabili a quelli italiani. Dovremmo piuttosto interrogarci sul perché paesi come Francia, Inghilterra ed oggi la Russia putiniana (per molti aspetti assai diversi) stanno un po’ meglio del resto d’Europa in tema di natalità. Può forse dipendere dal fatto che in tali paesi esiste ancora un significativo senso di appartenenza alla Nazione, ovvero un “Noi”?

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