Nella società dei localismi e della globalizzazione, attraversata da contrasti, sovrapposizioni di identità, difetto di motivazione partecipativa ma caratterizzata da soggettività radicate e polarizzazioni “forti”, spetterebbe soprattutto alla politica il ruolo del dialogo, della mediazione e della ricomposizione.
Il condizionale è d’obbligo visto che proprio la politica è invece molto spesso il luogo della differenziazione, delle diaspore e della inconciliabilità.
La stessa parcellizzazione interna del quadro politico, così come si è configurata nella lunga deriva di riposizionamento ideologico successiva alla fine della cosiddetta "prima repubblica" (e ai suoi immaginifici derivati: seconda, terza e persino quarta…) , esprime una evidente difficoltà di rappresentazione e aggregazione del contesto sociale di cui pure è espressione.
Una sorta di riproposizione in chiave sociologica della contrapposizione tra paese legale e paese reale, anche se la vocazione autentica della politica è quella di stabilire le regole per il governo della società. C’è un quadro d’insieme caratterizzato da instabilità, disaffezione, debolezza sistemica.
Dove sono finite le ideologie che hanno attraversato il secolo scorso consegnando il declino dei partiti al sistema bipolare?
Certamente molta parte della loro ragion d’essere si è spenta, oltre la crisi del sistema, in una società complessa dove la differenziazione ideologica non è più la chiave d’accesso, di lettura e di spiegazione dei fenomeni sociali via via emergenti.
Nelle sue “aggiornate” sfumature di identità sempre più impercettibili e variegate, a volte indecifrabili, la partitocrazia – giubilata troppo in fretta con un processo sommario ma riemersa rinvigorita sotto mentite spoglie – è succeduta a se stessa senza riuscire a spiegare quali sono le ragioni “politiche” che possono far battere il cuore (mi si perdoni il nonsenso “fisiologico”) a destra o a sinistra. Il fenomeno dei partiti personali prende corpo insieme all’ipotesi di un ritorno al sistema elettorale proporzionale puro. Una verticalizzazione del potere che unita alla scelta dei candidati secondo criteri di fedeltà prona e supina configura un quadro persino sconcertante di democrazia ‘rappresentativa’.
Ci sono forze politiche che hanno giurato e scommesso tutto sul maggioritario e ora si convertono sulla via di Damasco, anzi di Roma, alla strenua difesa del proporzionale, pur di avere uno spicchio pur minimo di rappresentanza parlamentare.
Aspirazione che imbocca una via stretta e tortuosa se rimane il taglio dei parlamentari.
Dopo la corsa alle differenziazioni estreme dovrebbe in teoria aprirsi uno scenario caratterizzato dal recupero dei valori dell’equilibrio, della concertazione, della mediazione e della moderazione.
C’è bisogno tuttavia di una concezione popolare, moderata e “mite” della politica, nel senso che deve corrispondere agli interessi di chi ha più bisogno e nel senso che deve entrare con moderazione nella nostra vita.
In via generale, occorre se mai ricalibrare la progettualità, gli indirizzi e le scelte sulla base delle attese e dei bisogni della gente, nell’ottica della politica come servizio e non della politica come mestiere. Anche questa prospettiva postula moderazione, mitezza, capacità di rappresentazione degli interessi della collettività senza cadere nelle derive autoreferenziali di una presenza politica totalizzante e pervasiva: proprio ciò che il Presidente Mattarella pone al centro dei suoi richiami.
Dar voce alla moderazione significa proporre le ragioni della pacatezza nei modi e del dialogo rispetto ai contenuti, del buon senso condiviso, della tolleranza e della solidarietà, della correttezza e della temperanza che è capacità di esprimere una passione politica nel rispetto delle opinioni altrui.
Non un pensiero debole, perché esercitato con mitezza, ma un pensiero forte perché ricco di idee e di valori, lontano dalla politica urlata e dei luoghi comuni.
Mi piace ricordare le parole che mi disse un grande democratico popolare come Mino Martinazzoli nel corso della sua intervista: “Il moderatismo sta alla moderazione come l’impotenza sta alla castità”. Per questo essere moderati non significa rinunciare ad avere idee chiare e forti, intuizione, lungimiranza.
Rendere credibile un progetto politico, avvicinare i contesti delle decisioni a quelli delle azioni, agire con onestà intellettuale, equilibrio, rettitudine.
Questo dovrebbe essere il vero fulcro aggregante e solidale, cui non mancano certo i riferimenti di senso e di valore nelle idee della nostra tradizione culturale.
Soprattutto restituire dignità alla politica, nell’interesse della politica e nell’interesse del Paese.
Perché una politica senza dignità non ha consenso ma una società senza dignità non ha futuro.
Il condizionale è d’obbligo visto che proprio la politica è invece molto spesso il luogo della differenziazione, delle diaspore e della inconciliabilità.
La stessa parcellizzazione interna del quadro politico, così come si è configurata nella lunga deriva di riposizionamento ideologico successiva alla fine della cosiddetta "prima repubblica" (e ai suoi immaginifici derivati: seconda, terza e persino quarta…) , esprime una evidente difficoltà di rappresentazione e aggregazione del contesto sociale di cui pure è espressione.
Una sorta di riproposizione in chiave sociologica della contrapposizione tra paese legale e paese reale, anche se la vocazione autentica della politica è quella di stabilire le regole per il governo della società. C’è un quadro d’insieme caratterizzato da instabilità, disaffezione, debolezza sistemica.
Dove sono finite le ideologie che hanno attraversato il secolo scorso consegnando il declino dei partiti al sistema bipolare?
Certamente molta parte della loro ragion d’essere si è spenta, oltre la crisi del sistema, in una società complessa dove la differenziazione ideologica non è più la chiave d’accesso, di lettura e di spiegazione dei fenomeni sociali via via emergenti.
Nelle sue “aggiornate” sfumature di identità sempre più impercettibili e variegate, a volte indecifrabili, la partitocrazia – giubilata troppo in fretta con un processo sommario ma riemersa rinvigorita sotto mentite spoglie – è succeduta a se stessa senza riuscire a spiegare quali sono le ragioni “politiche” che possono far battere il cuore (mi si perdoni il nonsenso “fisiologico”) a destra o a sinistra. Il fenomeno dei partiti personali prende corpo insieme all’ipotesi di un ritorno al sistema elettorale proporzionale puro. Una verticalizzazione del potere che unita alla scelta dei candidati secondo criteri di fedeltà prona e supina configura un quadro persino sconcertante di democrazia ‘rappresentativa’.
Ci sono forze politiche che hanno giurato e scommesso tutto sul maggioritario e ora si convertono sulla via di Damasco, anzi di Roma, alla strenua difesa del proporzionale, pur di avere uno spicchio pur minimo di rappresentanza parlamentare.
Aspirazione che imbocca una via stretta e tortuosa se rimane il taglio dei parlamentari.
Dopo la corsa alle differenziazioni estreme dovrebbe in teoria aprirsi uno scenario caratterizzato dal recupero dei valori dell’equilibrio, della concertazione, della mediazione e della moderazione.
C’è bisogno tuttavia di una concezione popolare, moderata e “mite” della politica, nel senso che deve corrispondere agli interessi di chi ha più bisogno e nel senso che deve entrare con moderazione nella nostra vita.
In via generale, occorre se mai ricalibrare la progettualità, gli indirizzi e le scelte sulla base delle attese e dei bisogni della gente, nell’ottica della politica come servizio e non della politica come mestiere. Anche questa prospettiva postula moderazione, mitezza, capacità di rappresentazione degli interessi della collettività senza cadere nelle derive autoreferenziali di una presenza politica totalizzante e pervasiva: proprio ciò che il Presidente Mattarella pone al centro dei suoi richiami.
Dar voce alla moderazione significa proporre le ragioni della pacatezza nei modi e del dialogo rispetto ai contenuti, del buon senso condiviso, della tolleranza e della solidarietà, della correttezza e della temperanza che è capacità di esprimere una passione politica nel rispetto delle opinioni altrui.
Non un pensiero debole, perché esercitato con mitezza, ma un pensiero forte perché ricco di idee e di valori, lontano dalla politica urlata e dei luoghi comuni.
Mi piace ricordare le parole che mi disse un grande democratico popolare come Mino Martinazzoli nel corso della sua intervista: “Il moderatismo sta alla moderazione come l’impotenza sta alla castità”. Per questo essere moderati non significa rinunciare ad avere idee chiare e forti, intuizione, lungimiranza.
Rendere credibile un progetto politico, avvicinare i contesti delle decisioni a quelli delle azioni, agire con onestà intellettuale, equilibrio, rettitudine.
Questo dovrebbe essere il vero fulcro aggregante e solidale, cui non mancano certo i riferimenti di senso e di valore nelle idee della nostra tradizione culturale.
Soprattutto restituire dignità alla politica, nell’interesse della politica e nell’interesse del Paese.
Perché una politica senza dignità non ha consenso ma una società senza dignità non ha futuro.
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