Alcuni dei principi fondamentali della nostra Costituzione in tema di lavoro, in gran parte già presenti anche nella Dottrina Sociale della Chiesa, risultano a tutt’oggi largamente disattesi.
Occorrerebbe innanzitutto poter dare piena attuazione al primo comma dell’art. 1, realizzando in modo concreto l’espressione “… fondata sul lavoro”, rimasta a tutt’oggi “lettera morta”. “Fondare” una comunità sul lavoro vuol dire innanzitutto intraprendere ogni possibile iniziativa che consenta a tutti i suoi membri “attivi” di poter accedere ad un lavoro (come sancito anche dall’art. 4): la “PIENA OCCUPAZIONE” deve rappresentare obiettivo prioritario della politica. A questo fine risulta opportuno agire su ogni leva disponibile, favorendo innanzitutto l’attività di impresa, dalla nascita allo sviluppo. Ma non basta.
Il capitalismo contemporaneo, alla continua ricerca di profitti, ha progressivamente spinto l’economia verso una sempre maggiore finanziarizzazione e digitalizzazione, sviluppando esponenzialmente attività capital intensive ovvero ad alta intensità di capitale, investito in finanza e tecnologia (soprattutto digitale), e bassa intensità di lavoro. Questo processo sta inesorabilmente provocando, ormai da decenni, la crescita della disoccupazione, sia per il minor assorbimento di lavoro, sia per lo “scarto” provocato, per un verso, dall’insufficiente od inadeguata formazione dei giovani (scartati all’ingresso), e, per l’altro, dalla professionalità ormai datata di gran parte dei lavoratori a media anzianità di servizio (scartati verso l’uscita).
Tutto ciò non è inevitabile, ma è una scelta di quella parte minoritaria e dominante del sistema che ne ha convenienza. La politica può certamente contrastare gli eccessi di questa dinamica (anche ai sensi dell’art.3 della Costituzione), favorendo con ogni possibile strumento (tasse ed incentivi, in primis) l’investimento del capitale in attività labour intensive, sia nel settore della produzione, che (soprattutto) in quello dei servizi, verso cui peraltro risulta particolarmente vocato il nostro Paese (dal turismo al wellness, dal commercio alla sanità privata, a tutto il mondo dei servizi alla persona…).
Ulteriori fronti su cui agire sinergicamente sono, tra gli altri:
- la scuola (in particolare la secondaria di II grado, ma anche le università), i cui programmi devono prevedere lezioni di concreta formazione ed orientamento, tenute solo da chi già lavora attivamente (gli attuali “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” – ex “alternanza scuola lavoro – non sopperiscono affatto a questa esigenza);
- il credito bancario, con particolare riguardo alle piccole attività (nuove ed esistenti), in quanto primo nucleo produttivo, che, pur meritevoli in molti casi di sviluppo e crescita, risultano sempre più spesso ostacolate dall’assenza di un’adeguata consulenza finanziaria (che potrebbe essere innovativamente svolta da specialistici “Centri di Assistenza Finanziaria”, in grado di offrire quell’assistenza di cui è priva il nostro sistema finanziario).
Porsi l’obiettivo della piena occupazione rappresenta (insieme a una più equa distribuzione del reddito) il modo migliore per fronteggiare la povertà, ben più efficace e dignitoso degli strumenti assistenziali attualmente in vigore (tra cui il reddito di cittadinanza), che rimangono tuttavia giustificabili per le fasce deboli (come sancito anche dall’art. 38 della Costituzione), ovvero per chi si trova nell’impossibilità oggettiva di lavorare (disabili e anziani, in primis).
Piena occupazione non deve significare però “piena precarizzazione” ovvero instabilità di impiego, ma piena flessibilità all’ interno di un sistema che garantisca fattivamente il mantenimento occupazionale, pur al prezzo di un elevato turnover (da affiancare sempre, nelle fasi di passaggio, ad un welfare adeguato – tuttora esistente, ma ulteriormente migliorabile). Così come (vedasi anche oltre) non può significare neanche “pieno sfruttamento”, nel senso che il raggiungimento di questo obiettivo non deve assolutamente costituire un alibi per giustificare salari al di sotto del livello minimo di sussistenza.
Ugualmente disatteso risulta in gran parte anche l’art. 36 che stabilisce il diritto a una retribuzione “…in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’ esistenza libera e dignitosa”. La globalizzazione, insieme ai più recenti fenomeni della finanziarizzazione e della digitalizzazione, stanno esercitando da tempo una pressione al ribasso sulle remunerazioni a tal punto da riportare indietro la storia ai primordi della rivoluzione industriale. Come non interpretare in tal senso le sempre più numerose tipologie di lavoro che, congegnate come ideale soluzione al problema della flessibilità, sono in realtà servite solo a ridurre drasticamente le retribuzioni ad un livello tale da impedire non solo libertà e dignità della persona, ma talvolta persino la minima sussistenza, propria e familiare.
La flessibilità, pur necessaria ed auspicabile, non deve significare, né precarietà, come detto, né tanto meno svilimento economico del lavoro. Obiettivo imprescindibile della politica è allora garantire tutte le condizioni affinché ogni lavoratore possa accedere ad un EQUO COMPENSO nel senso dichiarato: il riconoscimento economico del lavoro, di qualsiasi tipo esso sia (e qualsiasi ne sia la flessibilità), non può essere in nessun caso inferiore a quanto necessario per una sopravvivenza “libera e dignitosa”, per sé e per la propria famiglia. Ma l’art. 36. va anche oltre, quando afferma nell’incipit che “…il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
“Proporzionare” il compenso al lavoro equivale in sostanza a riconoscergli, oltre a quanto richiesto dalla sussistenza (socialmente, più che fisiologicamente, intesa), anche quanto “proporzionalmente” ottenuto con il suo contributo. Si tratta anche qui di un obiettivo ampiamente trascurato, nella misura in cui i criteri adottati per stabilire la remunerazione del lavoro quasi mai prevedono la possibilità di una sua partecipazione all’utile, che pur ha contribuito ad ottenere. E nei rari casi in cui viene concessa, non risulta esserlo in modo strutturale, né tanto meno quale riconoscimento di un diritto, bensì quasi sempre come una eccezionalità, spesso legata a qualche sorta di incentivazione (bonus) su specifici obiettivi.
Il lavoro contribuisce invece a tutti gli effetti (insieme ai mezzi di produzione) all’ottenimento di quel sovrappiù che residua dopo aver reintegrato tutte le risorse “consumate” per lo svolgimento dell’attività (inclusi gli stessi salari); ma non riesce in alcun modo ad accedervi…
L’equa ripartizione del reddito prodotto rappresenta anche il rimedio più efficace all’annoso ed ormai insostenibile problema della diseguaglianza distributiva, causa di una sempre maggiore concentrazione della ricchezza su una minoranza sempre più ristretta di soggetti privilegiati.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Occorrerebbe innanzitutto poter dare piena attuazione al primo comma dell’art. 1, realizzando in modo concreto l’espressione “… fondata sul lavoro”, rimasta a tutt’oggi “lettera morta”. “Fondare” una comunità sul lavoro vuol dire innanzitutto intraprendere ogni possibile iniziativa che consenta a tutti i suoi membri “attivi” di poter accedere ad un lavoro (come sancito anche dall’art. 4): la “PIENA OCCUPAZIONE” deve rappresentare obiettivo prioritario della politica. A questo fine risulta opportuno agire su ogni leva disponibile, favorendo innanzitutto l’attività di impresa, dalla nascita allo sviluppo. Ma non basta.
Il capitalismo contemporaneo, alla continua ricerca di profitti, ha progressivamente spinto l’economia verso una sempre maggiore finanziarizzazione e digitalizzazione, sviluppando esponenzialmente attività capital intensive ovvero ad alta intensità di capitale, investito in finanza e tecnologia (soprattutto digitale), e bassa intensità di lavoro. Questo processo sta inesorabilmente provocando, ormai da decenni, la crescita della disoccupazione, sia per il minor assorbimento di lavoro, sia per lo “scarto” provocato, per un verso, dall’insufficiente od inadeguata formazione dei giovani (scartati all’ingresso), e, per l’altro, dalla professionalità ormai datata di gran parte dei lavoratori a media anzianità di servizio (scartati verso l’uscita).
Tutto ciò non è inevitabile, ma è una scelta di quella parte minoritaria e dominante del sistema che ne ha convenienza. La politica può certamente contrastare gli eccessi di questa dinamica (anche ai sensi dell’art.3 della Costituzione), favorendo con ogni possibile strumento (tasse ed incentivi, in primis) l’investimento del capitale in attività labour intensive, sia nel settore della produzione, che (soprattutto) in quello dei servizi, verso cui peraltro risulta particolarmente vocato il nostro Paese (dal turismo al wellness, dal commercio alla sanità privata, a tutto il mondo dei servizi alla persona…).
Ulteriori fronti su cui agire sinergicamente sono, tra gli altri:
- la scuola (in particolare la secondaria di II grado, ma anche le università), i cui programmi devono prevedere lezioni di concreta formazione ed orientamento, tenute solo da chi già lavora attivamente (gli attuali “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento” – ex “alternanza scuola lavoro – non sopperiscono affatto a questa esigenza);
- il credito bancario, con particolare riguardo alle piccole attività (nuove ed esistenti), in quanto primo nucleo produttivo, che, pur meritevoli in molti casi di sviluppo e crescita, risultano sempre più spesso ostacolate dall’assenza di un’adeguata consulenza finanziaria (che potrebbe essere innovativamente svolta da specialistici “Centri di Assistenza Finanziaria”, in grado di offrire quell’assistenza di cui è priva il nostro sistema finanziario).
Porsi l’obiettivo della piena occupazione rappresenta (insieme a una più equa distribuzione del reddito) il modo migliore per fronteggiare la povertà, ben più efficace e dignitoso degli strumenti assistenziali attualmente in vigore (tra cui il reddito di cittadinanza), che rimangono tuttavia giustificabili per le fasce deboli (come sancito anche dall’art. 38 della Costituzione), ovvero per chi si trova nell’impossibilità oggettiva di lavorare (disabili e anziani, in primis).
Piena occupazione non deve significare però “piena precarizzazione” ovvero instabilità di impiego, ma piena flessibilità all’ interno di un sistema che garantisca fattivamente il mantenimento occupazionale, pur al prezzo di un elevato turnover (da affiancare sempre, nelle fasi di passaggio, ad un welfare adeguato – tuttora esistente, ma ulteriormente migliorabile). Così come (vedasi anche oltre) non può significare neanche “pieno sfruttamento”, nel senso che il raggiungimento di questo obiettivo non deve assolutamente costituire un alibi per giustificare salari al di sotto del livello minimo di sussistenza.
Ugualmente disatteso risulta in gran parte anche l’art. 36 che stabilisce il diritto a una retribuzione “…in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’ esistenza libera e dignitosa”. La globalizzazione, insieme ai più recenti fenomeni della finanziarizzazione e della digitalizzazione, stanno esercitando da tempo una pressione al ribasso sulle remunerazioni a tal punto da riportare indietro la storia ai primordi della rivoluzione industriale. Come non interpretare in tal senso le sempre più numerose tipologie di lavoro che, congegnate come ideale soluzione al problema della flessibilità, sono in realtà servite solo a ridurre drasticamente le retribuzioni ad un livello tale da impedire non solo libertà e dignità della persona, ma talvolta persino la minima sussistenza, propria e familiare.
La flessibilità, pur necessaria ed auspicabile, non deve significare, né precarietà, come detto, né tanto meno svilimento economico del lavoro. Obiettivo imprescindibile della politica è allora garantire tutte le condizioni affinché ogni lavoratore possa accedere ad un EQUO COMPENSO nel senso dichiarato: il riconoscimento economico del lavoro, di qualsiasi tipo esso sia (e qualsiasi ne sia la flessibilità), non può essere in nessun caso inferiore a quanto necessario per una sopravvivenza “libera e dignitosa”, per sé e per la propria famiglia. Ma l’art. 36. va anche oltre, quando afferma nell’incipit che “…il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
“Proporzionare” il compenso al lavoro equivale in sostanza a riconoscergli, oltre a quanto richiesto dalla sussistenza (socialmente, più che fisiologicamente, intesa), anche quanto “proporzionalmente” ottenuto con il suo contributo. Si tratta anche qui di un obiettivo ampiamente trascurato, nella misura in cui i criteri adottati per stabilire la remunerazione del lavoro quasi mai prevedono la possibilità di una sua partecipazione all’utile, che pur ha contribuito ad ottenere. E nei rari casi in cui viene concessa, non risulta esserlo in modo strutturale, né tanto meno quale riconoscimento di un diritto, bensì quasi sempre come una eccezionalità, spesso legata a qualche sorta di incentivazione (bonus) su specifici obiettivi.
Il lavoro contribuisce invece a tutti gli effetti (insieme ai mezzi di produzione) all’ottenimento di quel sovrappiù che residua dopo aver reintegrato tutte le risorse “consumate” per lo svolgimento dell’attività (inclusi gli stessi salari); ma non riesce in alcun modo ad accedervi…
L’equa ripartizione del reddito prodotto rappresenta anche il rimedio più efficace all’annoso ed ormai insostenibile problema della diseguaglianza distributiva, causa di una sempre maggiore concentrazione della ricchezza su una minoranza sempre più ristretta di soggetti privilegiati.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Il concetto di “sovranismo” a seconda di come viene usato, e quindi dei contenuti semantici che gli vengono attribuiti, può essere un termine negativo (prima noi, a qualsiai costo, e per il resto pereat mundus!) ma è anche, positivamente, l’espressione che rivela la perdita del concetto di sovranità della politica sull’economia (sostanzialmente una forma di antipolitica) derivante dalla globalizzazione.
E’ proprio questo secondo aspetto del sovranismo che, nella mia visione, anarco-capitalisticamente rende impossibile l’applicazione di quello che è sempre e comunque il compito dello Stato, ben esemplificato da Aldo Maria Pujia nel suo articolo: l’esercizio della giustizia. Quella sociale compresa.